lunedì 23 settembre 2013

Interculturazione....una settimana di tante prime volte!





Questa settimana ho partecipato alla mia prima missione di monitoraggio nel distretto di Bagamoyo. Una settimana di tante prime volte. Una settimana di incontri, di strette di mano, di saluti che piano piano comincio ad imparare, di occhi che ti guardano e ti sorridono, di colori accesi, di veli sovrapposti uno sull’altro a coprire i corpi delle donne, di risate, di preghiere che senti venire la sera dalle moschee.
Sono partita con Chausiko, una mia collega di Bagea, e Peace, la facilitratice del CVM che segue i gruppi femminili di microcredito, i gruppi di vedove, i grupppi sulla violenza contro le donne e quelli dei progetti di sensibilizzazione in materia di educazione e diritto allo studio per le ragazze. Il monitoraggio era fatto per verificare l’andamento soprattutto di questi ultimi. A completare il gruppo Cristoph, l’autista. Un omone simpaticissimo che sa l’inglese ma non lo parla perchè la sua missione è insegnare lo swahili a tutti i volontari che arrivano.

3 giorni tra un susseguirsi di villaggi dai nomi esotici..Viguasa, Pera, Pingo, Diozile, Ubena, Bwilingu, Msoga (città di origine del presidente Kikwete), Mboga, Lugoba.. Ovunque storie e incontri, straordinari nella loro ordinarietà. Storie di povertà, di fatica, di diritti negati o non ancora consapevoli. Storie di piccola violenza ma anche di piccoli successi e di sorprese, come quando le donne del gruppo di microcredito di Bwilingu ci raccontano che da alcuni mesi fanno volontariato in ospedale e aiutano i bambini in difficoltà delle scuole vicine. Senza averne fatto la minima pubblicità. È difficile capire, colgo una parola in un discorso intero. Ma è bello anche cosi. Anche solo aspettare sotto un albero l’arrivo dei gruppi, anche solo guardare le persone negli occhi, strigere loro la mano..soprattutto quelle delle anziane, mani nodose, con le unghie cortissime e spesso tinte di giallo per la terra e il lavoro nei campi..e sorrisi acquosi e dolcissimi..anche quando ogni tanto gli occhi si velano di lacrime..







Giorni di prime volte....la prima volta in Guest House, sorta di piccoli affitta camere che qui trovi praticamente in ogni villaggio. La prima colazione alla tanzaniana, con un tazzone di thè alla cannella e muhogo, (la kasawa o patata dolce) tagliata a pezzi e fritta nell’olio che ti fa sentire sazio fino a sera. E il the allo zenzero fortissimo alla sera. E la frequentazione dei baretti-baracchini-locande sulla strada, dove puoi trovare riso con carne e fagioli, servito in piatti di latta che hanno tanti scomparti diversi per le diverse componenti del pranzo, e pesce fritto, e le immancabili chipsy – patatine fritte, che qui trovi ovunque e che ti vengono spesso portate “da asporto” dentro sacchietti di plastica nera..e ugali, la polenta bianca, e banane in tutte le salse, bollite, grigliate, servite con insalata di pomodori, in zuppa con la carne, con i fagioli... E le cameriere che ti portano una brocca d’acqua per lavarti le mani perchè poi si mangia con quelle, appallottolando il riso o l’ugali e intingendolo dentro le salse. E masai che sbucano da tutti gli angoli, vestiti con i tradizionali teli, i bastoni, i lobi delle orecchie forati che ci puoi fare passare dentro tre dita per i pesanti orecchini che portano, e sgommano via in moto..si sono modernizzati pure loro..
E Peace che la sera, quando siamo a cena, al calare della notte, piano piano mi spiega usi e costumi di questo paese e del suo popolo, mentre mi racconta di casa sua (lei non è originaria di Bagamoyo, ma della zona nord ovest al confine con il Rwanda), delle ricette tipiche, delle differenze che trovi spostandoti di pochi chilometri.








E i paesaggi..spazi immensi, brulli, alberi che sanno di Africa, proprio quelli che vedevo nei documentari da bambina quando sognavo di visitarla quest’Africa cosi lontana..e case di fango e case di cemento con i porticati, e greggi di capre e palme, e poi di nuovo terra brulla, baobab e nuvole.

Devo ancora trovare una definizione soddisfaciente di inculturazione. Per me adesso è anche questo.


Valentina Codeluppi, SVE Bagamoyo

lunedì 9 settembre 2013

Kazi njema!!





Eccomi qui, secondo giorno a Bagamoyo. É cosi strano. Ci sono momenti in cui mi sembra di sentire un non so che di familiare, di quotidianità. Altri in cui mi ricordo dove sono, e quanto è distante casa.
Sono già stata in ufficio CVM. In questi giorni è quasi vuoto perché tanti colleghi sono in field. E allora oggi, in un attimo di tempo, sono andata al mercato. Prima volta. Anche in Madagascar, il mio “battesimo del fuoco” era cominciato dal mercato. Ci sono andata con Situmai, la cuoca dell’ufficio. Lei non parla una parola di inglese, io ne so a mala pena due di swahili. Una coppia perfetta. Sono partita con una lista della spesa tradotta in swahili da Daniela. Ad ogni banchetto mostravo la lista alla mia fida accompagnatrice, lei chiedeva e mercanteggiava, poi mi scriveva i prezzi sul foglio – cosi riesco a imparare più o meno il valore delle cose – e poi pagavo. Pomodori, cetrioli, carote, arance, latte e yogurt che qui vendono in sacchetti di plastica come quelli delle mozzarelle. Ecco la spesa. Ho passato due ore cosi. Ascoltare, guardare, senza capire nulla o quasi, seguirla nell’intricato garbuglio delle stradine di Bagamoyo. Stradine di sabbia, polvere che la gente spazza agli angoli delle porte, polvere che ti entra negli occhi in questo periodo di vento, strade che sanno di spezie e di carbone bruciato. E botteghe da cui esce la musica, e macellerie dove i pezzi di carne stanno appesi ai chiodi nei muri di piastrelle celesti. Immagini e sensazioni che mi riportano al Madagascar. E nello stesso tempo qualcosa di sempre nuovo, di sempre diverso, che mi àncora stretta a questo presente e mi stupisce e un po’ mi spaventa. E mi lascia addosso un po’ di quella paura eccitata che si prova sempre davanti a quello che non si conosce. C’è odore di salsedine nell’aria. Forse è solo una mia suggestione, ma sento la vicinanza dal mare qui, e quel caldo umido tipico solo dei posti vicino all’acqua. E poi la donne velate che ondeggiano per le strade, bellissime nei loro veli multicolori che incorniciano i visi e proteggono dalla polvere. E poi i piki piki, le moto taxi che vedo qui per la prima volta. Per tornare in ufficio ne abbiamo presa una. In tre su una moto. Io aggrappata all’autista con i sacchetti della spesa. Situmai aggrappata a me con i suoi sacchetti.

I viaggi mi portano sempre a pensare. Anche quelli scomodi e brevi come questo. Mentre rischiavo di perdere pomodori dalle buste di plastica nera. Penso ai mesi che mi aspettano. Se saprò vivere appieno questo tempo e questa opportunità. Una delle poche espressioni che ho imparato (e che ricordo) ieri insegnatami da un collega è “Kazi njema”=“buon lavoro”. Mi auguro che non sia solo un’affermazione ma un augurio e un invito per i prossimi mesi.

Valentina Codeluppi (SVE Bagamoyo, Tanzania)

martedì 3 settembre 2013

Storie di bottiglie dal Sud Sudan

Sono una bottiglia di plastica, bella alta, trasparente, pulita. Sto in un frigorifero pieno di cose da mangiare, pomodori, insalata, olive, yogurt, di tanti colori diversi, dei pezzi che sembrano fatti di latte ma duri, altre scatole colorate che non so cosa contengano. Ognitanto la signora che mi ha portato qui mi prende, mi toglie il tappo (lei non lo sa ma a me da un po’ fastidio) appoggia le labbra, rosse, turgide, morbide, beve l’acqua dentro di me a grandi sorsi, con forza decisione, quasi disperata. Molto spesso e’ vestita in maniera sportiva, quando arriva e’ ancora sudata, parla in quel coso nero che appoggia all’orecchio, chissa’ con chi. Parla di liti, gelosia, conflitti, si sente sola. Mi sa che lo e’, io la vedo poco ma e’ sempre di corsa, sempre stressata, mai una parola dolce, non l’ho mai sentita sussurrare, grida sempre, chissa perche. Io sto bene, non mi lamento, sai, sono nata alla periferia di Roma, ero blu, mi hanno portato da Roma in Umbria, riempito di acqua, gas e pure messo un’etichetta colorata che mi ha fatto il solletico. Dopodiche’ mi hanno chiuso in un camion al buio e fatto viaggiare per un giorno intero, quando ho rivisto la luce ero a fianco di tante altre bottiglie come me in un posto luccicante e luminoso. La signora che mi ha comprato mi ha scleto perche dice che anche se costo un po’di piu’ le faccio fare tanta plim plim chissa’ cosa significa costare...chissa’cos’e questa plim plim






Sono una bottiglia di plastica, piccolina, ammaccata, con qualche graffio ee l’etichetta strappata. Sono nella tasca di una giacca, il signore che mi ha comprato mi prende in mano di tanto in tanto, mi toglie il tappo e beve piano piano. Parla con un signore dalla pelle del colore della sua, diceh che oggi ha venduto poco, per strada, solo 5 accendini e 2 pacchetti di fazzoletti, e’ un po’ preoccupato, fra 3 settimane inizia la scuola e lui deve pagare le tasse, gli zaini nuovi, il libri e tutta la cancelleria per mandare 3 dei 5 figli a scuola. E’ molto magro, attraverso la giacca posso sentire le sue costole, parla in modo strano, diverso dagli operai della fabbrica dove sono nata, dice che se continua cosi se ne va in Francia, dove un suo cugino ha una pizzeria alla periferia di Parigi. Non sembra contento, dice che in un posto chiamato Damasco era ingegnere in una piccola fabbrica ma che da ormai una anno e’ in Italia e si “arrangia” chissa cosa vuol dire arrangiarsi, non sembra contento, non dev’essere una bella cosa. Lui si ne ha fatta di strada, dalla Turchia attraverso i Balcani e poi in Albania, che viaggio! Dice che cosi almeno i suoi figli sono al sicuro anche se gli e’ costato i risparmi di 20 anni di lavoro.
Sono una bottiglia di plastica, non ricordo bene, ma credo di essere nata in Kenya, o in Uganda, appena nata, dopo 3 giorni di viaggio mi hanno portato in un negozio polveroso, ero esposta su uno scaffale in un negozio davanti alla moschea, il posto si chiama Pariang, dicono che sia da qualche parte in uno stato nuovo, che si chiama Sud Sudan. Un uomo con la pancia, la giacca e la cravatta che la gente chiama onorevole mi ha comprata. Avidamentem mi ha afferrata e ha bevuto quasi la meta’ dell’acqua che avevo dentro. Mi teneva stretta, con le sue mani grandi, lunghe e sudate. Siamo andati in uno spiazzo pieno di tende bianche che chiamano campo rifugiati, e’ sceso dal fuoristrada bianco, ha dato un ultimo sorso alla poca acqua rimasta, si e’ asciugato con le mani la bocca grande e ha orgogliosamente detto: “Facciamo in fretta che ho fame”. Ha fatto un giro nel campo rifugiati, una distesa marrone e verde, allagata per le piogge degli ultimi 2 mesi, con migliaia di uomini donne e bambini, dicono che sono stranieri ma e me sembrano uguali agli altri. Dopo che il signore alto mi ha gettato per terra sono stata raccolta da una bambina, avra’ 4 o 5 anni, piccolina, magra, scalza,fango fino alle ginocchia e delle meravigliose treccine chiuse in elastici gialli, rosa, rossi e azzurri. Quando mi ha visto il suo viso si e’ aperto in un grande sorriso bianco, grindando:”crystal!” felicissima mi ha preso in mano come nessuno aveva mai fatto, con affetto, sorpresa e devozione. Mi ha preso, portata ad un rubinetto e mi ha riempito d’acqua contentissima ha appoggiato le sue labbra sottile ed un po’screpolate, poi mi ha passata ad una sua amica anche lei lunga magra e dai vestiti sporchi e stracciati. Con me in mano mi sembrano felici, giocano, guardano dentro, mi accarezzano, mi sento amata e venerata come un oggetto nuovo e speciale, nessuno mi aveva mai fatto sentire cosi prima, voglio bene a queste bimbe che mi hanno accolto e amato.





Sono una bottiglia di plastica, e’ ancora buio, non vedo l’ora che finisca questa notte, fa freddo, ieri sera un tipo pallido, con la barba, che guidava una macchina bianca mi ha gettato dalla sua auto in corsa, puzzava di birra. Ora sono qui, sulla rossa terra del Sud Sudan, sono a Wau, stanotte ha anche piovuto, e a pochi metri da me vedevo delle sagome scure appoggiate al muro, sembravano dei sacchi neri, nel buio mi sono addormentata ma ad un certo punto ho sentito delle voci, i sacchi neri hanno iniziato a prendere vita, a parlare a salutarsi, a stiracchiarsi, sorridere e scherzare. Piano piano, nel buio della notte di Wau hanno iniziato a raccogliere pezzi di carta, legno e plastica, li hanno messi insieme e hanno acceso un fuoco, erano in 5 o 6 intirizziti dal freddo e dalla pioggia torrenziale di questa notte equatoriale. Sono tutti ragazzi, alti magri, hanno cicatrici e ferite, i loro occhi a volte quardano in direzioni diverse, i capelli sono secchi, ispidi e impolverati. Alle prime luci del mattino un ragazzetto dallo sguardo vispo mi ha visto e gridando mi ha afferrato ridendo e prendendo in giro gli altri. Dopo circa mezz’ora che mi teneva in mano mi ha versato dentro una sostanza bianca, appiccicosa, densa e dall’odore pungente e penetrante. A me non piace questa sensazione, sono abituata ad avere acqua pura dentro di me, invece questo bimbo dispettoso mi ha messo dentro una cosa che lui chiama “colla” chissa cosa sara’. Sono le prime luci dell’alba, il sole sorge dietro le colline di Wau, arancione sopra i manghi, gli uccelli si alzano in volo, neri contro il cielo rosato dell’alba, il bimbo toglie il tappo, appoggia le labbra e aspira l’aria mista a colla che penetra nei suoi polmoni ed arriva dritta al cervello. Un avvoltoio gracchia e scava fra la spazzatura mentre il fuoco acceso dai bimbi continua ad esalare odore di plastica, poverta’ ed ingiustizia.






E’ mezzogiorno, il bimbo aspira, due, tre, quattro volte; il sole, brillante, e’ alto nel cielo ormai ma gli oggi del bimbo si socchiudono ed il suo cervello si spegne come la luce del sole al tramonto. Il bimbo, spossato e spento, si siede per terra, stordito e sonnolento, dimenticando la fame ed il dolore, come una luna stanca e sporca.


Stefano Battain,
Sud Sudan