“Girando per le strade mi resi rapidamente conto di trovarmi
intrappolato nella rete dell’apartheid. Anzitutto mi trovavo davanti al
problema del mio colore di pelle. Ero bianco. In Polonia, in Europa, non mi era
mai venuto in mente. Qui, in Africa, diventava la distinzione principale e, per
la gente semplice, anche l’unica. Un Bianco. Un Bianco ossia un colonialista,
un predatore, un occupante. Avevo invaso l’Africa, avevo invaso il Tanganica
sterminando la tribù dell’uomo davanti a me, sterminando i suoi antenati. Ne
avevo fatto un orfano e, per giunta, un orfano umiliato e impotente. Sempre affamato
e ammalato. […] non riuscivo in coscienza a risolvere il problema della colpa.
In quanto Bianco, per loro ero colpevole. La schiavitù, il colonialismo,
cinquecento anni di torti subiti erano opera dei bianchi. Dei Bianchi, e quindi
anche mia. […] Loro, i Neri, non avevano mai conquistato, occupato o
imprigionato. Potevano permettersi di guardarmi dall’alto in basso. Erano di
razza nera, ma pura. Mi facevano sentire disarmato senza niente da dire. Stavo
male dappertutto. Per quanto privilegiata, la mia pelle bianca mi intrappolava
nella gabbia dell’apartheid. ”
Ryszard Kapuscinski,
EBANO
E’ mercoledì, abbiamo appena mangiato, con Peace (la mia
responsabile) e con Molel (che mi chiama figlia mia perché i nostri cognomi si
assomigliano), si parte alla volta di Saadani in tutta fretta: il corso di
avviamento professionale per 30 ragazze sta volgendo al termine e noi dovremo
essere al gate del parco nazionale di Saadani prime delle 18, altrimenti…
matatizo (problemi) !!!
Lungo il tragitto, non sempre facile a causa delle
condizioni delle strade e delle piogge, arriva la chiamata del responsabile del
villaggio: nonostante i nostri tentativi nell’ultimo mese, per me è possibile
entrare a Saadani solo pagando 20 dollari al giorno. Si ripropone quell’apartheid
del libro che mi sta accompagnando in questi giorni: io discriminata perché
bianca. Ed ora che si fa? Sono ormai in macchina, lo zaino è pronto, devo
terminare con Peace i report e poi.. volevo rivedere le due associazioni!
Vedere come procedevano i lavori! Lungo la strada mi sale un po’ di ansia..
passare delle notti da sola a Mkange, in una guest house che non è una guest
house, conoscendo solo poche persone ed avendo la possibilità di parlare con
ancora meno. Cosa mi aspetterà? Ma qui in africa ripetono sempre tutti
“Hamna shida”, e così cerco di liberare
la mente e di farmi coraggio.
Arrivata a Mkange, una lieta notizia: la TOT (Trainers of trainees) del
villaggio, Marta, nonché unica dottoressa, mi offre di dormire a casa sua. Suo
marito è a Dar per lavoro e suo figlio
sta ultimando la scuola secondaria a Bagamoyo. Lei mi dice “Sono sola, perché
non ti fermi con me?”. “Perché no? E poi in Africa non si può mai rifiutare o
non accettare un invito!”.
E così mi ritrovo a casa sua, due stanze ed un piccolo
ingresso, bagno esterno e polli, capre e papere tutte intorno. La mia stanza è
anche la cucina, per andare in bagno devo uscire fuori, l’acqua viene usata con
il contagocce e la porta è sempre aperta nel caso qualcuno avesse bisogno di essere
medicato. Mentre consumavamo la prima cena insieme, pane fatto a mano e thè,
vedo qualcosa muoversi nella stanza.. alla mia domanda su cosa fosse, lei
risponde “do you know panya?”, “conosci i topi?”. E lì ho capito che in quei
giorni avrei condiviso con Marta, le signore e i bambini vicini di casa e le
ragazze dell’associazione ogni cosa.. dai pasti, al sonno, al tempo libero.
Che dire.. tra i più bei giorni finora trascorsi qui…
guardando il cielo accanto al focolare, davanti ad un piatto di ugali e verdure
offertomi dalla famiglia di Zahara, mi rendo conto di essere finalmente
arrivata in Africa, l’Africa quella vera. Finora forse l’avevo solo assaporata,
sì, c’è ancora molto da scoprire, ma ora i miei sensi iniziano a mettersi in
moto.. l’accoglienza che tutti mi hanno
riservato mi hanno fatto sentire davvero a casa.
La gioia delle ragazze che mi accolgono in classe, le loro
risate ogni volta che provo a formulare una frase in kiswahili, i loro
abbracci, la loro voglia di fare per cambiare realmente il loro futuro, hanno
reso queste ore indimenticabili. Dopo 20 giorni di training sono in grado
preparare sapone liquido, di realizzare batik, orecchini e collane, di
preparare verdure e pesce in modo che possano essere conservati a lungo. Cosa
il futuro riserverà per loro? Chi può dirlo con sicurezza? Ma di sicuro loro ce
la stanno mettendo tutta!
Forse non riesco ad esprimere a parole quanto provato, forse
è giusto così.. ciò che gli occhi vedono ed il cuore prova, a volte è un tesoro
troppo grande per essere compreso. Avrei voluto abbandonare la mia mente in
quei luoghi e continuare a camminare su
quella terra rossa ancora a lungo, ma il dovere mi richiama a Bagamoyo, e così
si ritorna in ufficio.
Ma domani è un altro giorno, e farò di nuovo rotta per Mkange.
Serena Morelli, volontaria in Servizio Civile in Tanzania
Nessun commento:
Posta un commento