Carissimi,
scriviamo tutte insieme perchè la connessione è veramente molto lenta..
il nostro lungo viaggio verso il continente nero
comincia nella calda e soleggiata mattina del 30 Luglio. Atterriamo ad
Addis e Valentina, responsabile CVM Etiopia, è li che ci aspetta e
all'uscita dall'aeroporto e già si percepisce di essere in una realtà
ben diversa e lontana dalla nostra. Le strade sono deserte, è tardi,
l'aria è pungente... è strano pensare di essere quasi ad
Agosto 2012.. qui, invece, è il 22 Hamlay (Luglio/Agosto) 2004. È notte
e non riusciamo ancora bene a immaginare il paesaggio che ci attende.
Si mostra con tutta la sua maestosità e imponenza il mattino seguente
quando percorriamo le strade etiopi per giungere a destinazione: Debre
Tabor. Dopo 13 ore di pullman un’engera gustata in un piccolo
ristorantino di Debre Marcos, giungiamo nel centro del CVM dove ci
attendono Deregee e Asnika che ci accolgono con la meravigliosa
cerimonia del caffè etiope. Per arrivare al centro del CVM si percorre
il cuore del villaggio: l’impatto è forte, tanto, ha piovuto e nelle
strade c’è fango; anche gli odori sono forti e nel corso dei giorni
impariamo a conoscerli, a riconoscerli e a farli nostri.
Non
appena mettiamo il naso fuori dal centro del CVM, le persone ci
circondano, ci scrutano incuriosite e un po’ incredule, i bambini timidi
fanno per avvicinarsi, tanti ci sorridono e altri, quelli più piccoli,
intimiditi si nascondono un po’ ma poi la curiosità è troppo forte ed
ecco che, poco dopo, fanno capolino tra le gambe e le braccia di un
fratellino un po’ più grande. I giorni sono pieni, visitiamo il centro
dei malati di HIV, alcuni ci raccontano la loro storia, ci commuoviamo
quando Tesfiye Mengistu, un uomo che vive grazie al lavoro che svolge
nel centro dopo aver ricevuto il microcredito dal CVM dice: “Sono felice
che i bianchi siano venuti perché è in loro che noi vediamo una
speranza per far conoscere al resto del mondo le nostre
problematiche”. Visitiamo gli orfani di strada, coloro che grazie
all’aiuto del CVM hanno la possibilità di imparare un mestiere, quello
di panettieri e di poter
uscire così, almeno in minima parte, dalla loro condizione di estrema
povertà che li ha costretti per molti anni a lavorare come shoeshine
(pulisci scarpa) o, per le ragazzine, a trasportare taniche di acqua per
un quarto di birr (moneta locale che corrisponde a 1,13 centesimi di
euro) l’una.
Entriamo,
la bakery è piccola e i ragazzi ci guardano incuriositi e un po’
intimiditi di fronte alle domande che poniamo; poco dopo Amsalu, uno dei
15 ragazzi, si scioglie e comincia a raccontarci la sua storia: ha 17
anni, è orfano di padre, è andato in strada all’età di 7 anni in quanto
la famiglia, troppo povera, non era in grado di mantenerlo e prima di
entrare in questo progetto svolgeva saltuariamente, lavori
quotidiani per 12 birr al giorno (54 centesimi di euro al giorno).
Dalla prossima domenica grazie al lavoro nella bakery, ne guadagnerà
30. Sono tante le loro storie, così simili ma così diverse al tempo
stesso; sono, però, uguali quegli occhi che ti guardano, quegli sguardi
che ti entrano dentro, quegli stessi occhi, migliaia, che ogni giorno
incontriamo al mercato del nostro villaggio o davanti alla nostra casa,
sono quelli che ci restano dentro più di ogni altra cosa. Le parole
scambiate con il nostro divenuto già “bottegaio” di fiducia e le serate e
le improvvisate conversazioni con il nostro guardiano Unatù che in
Amarico significa verità… sono queste le emozioni della vita.
“In questo momento, ho
bisogno di un’unica cosa:
un abbraccio. Un gesto antico quanto l’umanità,
il cui significato va al di là dell’incontro di due corpi.
Un abbraccio vuol dire: “non sei una minaccia,
non ho paura di starti così vicino, posso rilassarmi,
sentirmi protetto e comprendere che c’è
una persona
in grado di capirmi.” Secondo la
tradizione ogni volta che abbracciamo
qualcuno con piacere, guadagniamo un giorno
di vita. Ti prego, abbracciami adesso.”
(Paulo Coelho)
Ciao
Federica, Valentina e Ylenia
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