Domenica 26 agosto 2012
Nove di mattina, assolata,
calda, domenica mattina a Pariang, nel nord del Sud Sudan, nuvole lunghe, alte
e sottili, spalmate sul cielo azzurrino, una cupola immensa, larga e aperta come solo alcuni cieli d’Africa
possono essere. Cammino con Michael, il nostro agronomo, la lunga strada dritta
che attraversa il villaggio, terra marrone, chiamata marram, l’unica che drena un po’ l’acqua che cade quando la cupola
azzurra diventa grigia, cupa e minacciosa, e poi piange. Cerchiamo un trattore
per portare del materiale a Nyeel, a 40 chilometri da qui,
e’ l’ unico mezzo che puo’ farcela in questa stagione, ma trattori non ce ne
sono, mi guardo intorno, cerco un posto per comprare una ricarica telefonica,
vedo una ragazza, seduta su uno sgabello basso, frigge qualcosa, sembrano
frittelle, ne compro 3 per un pound, un quarto di euro praticamente, il locale
mi ispira e propongo a Michael di entrare per un the, abbasso la testa per
entrare nella capanna di canne, 4
metri per 5, il suolo rugoso, irregolare, in terra
battuta, calpestata da mille piedi e sporca di farina e chissa’ cos’altro. Ci
sediamo sulla sedia di plastica marroncina, mi guardo attorno e c’e un
vecchietto e 4 o 5 ragazze sedute a bere il the, non parlano, sembrano
rilassate e serene, sicuramente non indaffarate, una sorseggia the all’ibisco,
chiamato karkade’, ne provo uno
anch’io, dolcissimo, mezzo bicchiere di zucchero in un bicchiere di the, arrivano le
frittelle, 4 al prezzo di 3, la ragazza ci aggiunge un cucchiaio di zucchero sul piattino delle frittelle,
dolci, ma nemmeno troppo unte, chiacchero con Michael, mi racconta che la sua
ragazza e’ in Uganda e andra’ a trovarla ad inizio Ottobre, concordiamo le
ferie, anch’io devo andare a trovare la mia, qualche centinaio di chilometri
piu’ a sud e qualche settimana dopo. Michael mi piace, e’ sveglio e lavoratore,
mi trovo bene a lavorare insieme a lui, e’ piu’ maturo della sua eta’, classe
1989.
Una bimba di circa 10 anni
ci porta il the, poi torna ad accovaccarsi per terra, sta pestando le spezie
che aromatizzeranno il caffe’ che sua mamma sta arrostendo sul fuoco di
carbonella, l’odore pungente del caffe’penetra prepotentemente nelle narici,
punge quasi, svegliando i pigri neuroni della domenica mattina. La signora del
caffe’ veste di viola, un vestito lucido e dalle tinte forti, un viola acceso
con ricami neri, il volto altrettanto nero, come il caffe’ che sta tostando, il
sorriso largo e aperto, come i cieli d’Africa, una fascia viola in testa fatta
della stessa stoffa del vestito. Blu, come il telo di plastica che copre mezza
della parete che ho di fronte, marroncino come i pezzi di cartone che sporgono
dal soffitto di canne, giallo come I vestiti di due ragazze che si alzano e se
ne vanno. L’ essenzialita’ del posto e’ rilassante, vera, umana, calda e
accogliente. La capannina del caffe’ e’ in realta’ un mini-supermercato,
all’entrata il cibo, le frittelle, a sinistra il “negozietto”, una vetrina di 4
ripiani fornita di zucchero (ovviamente), sigarette keniane, benzina, olio
motore, forbici di plastica colorate dalla Cina, biscotti, ovviamente i Glucose,
prodotti a Dubai con ingredienti di dubbia provenienza ma presenti ovunque in
Africa, almeno tanto quanto Pepsi e Coca-Cola, le imprese avvelenatrici di
falde acquifere e diritti umani e sindacali che arrivano ovunque. Annuso lo
zenzero che la bambina sta ora pestando e ordino un caffe’, sono curioso di
assaggiarlo, senza zucchero, specifico questa volta, arriva ed e’ buonissimo,
chiedo anche un altro bicchiere, vuoto, per raffreddarlo, come al solito non
riesco a bere le bevande troppo calde, chissa poi perche’, Michael ride…
Siedo e mi guardo intorno,
fronti rugose, volti giovani segnati dalla fatica, dalla cattiva e carente
alimentazione, e poi chi lo sa, dallo stress generato dalla lunga lotta per
l’indipendenza di questo paese che sta avviandosi a compire i suoi primi passi
ma che ancora fa fatica a reggersi in piedi, sotto il vento di poteri piu’ forti
e piu grandi. Mi sento in pace ed accolto, come in quel chiosco di Bhopal dove
ho mangiato dei gustosissimi falafel nel quartiere musulmano, come in quel ristorante
di strada dove ho mangiato dei saporitissimi spiedini con padre Natale e Dario,
come da babu a mangiare uroyo, kachori e sorseggiando infuso di zenzero, un
respiro di umanita’ che riempie gli
occhi di calore, accoglienza e felicita’. E ora sono qui, sotto un’acacia a
scrivere su carta i miei pensieri sparsi come non mi succedeva da tempo, ma
l’assenza di elettricita’, di benzina per il generatore e le poche batterie del
mio computer mi hanno spinto a riapprezzare il piacere di disegnare parole blu
su sfondo bianco, il negativo del cielo sopra di me, questa immensa cupola
azzurra con disegni bianchi che sono immagini e parole, che sono passeggere ma
sempre presenti, che sono sogni e speranze.
Stefano Battain, ex volontario CVM, ora in Sud Sudan
Nessun commento:
Posta un commento