A causa
di un problema tecnico non sono riuscita a parlare durante l’incontro finale
per la conclusione del progetto EVS – Educate Vocational Solidarity sulla
piattaforma organizzata da FOCSIV. E cosi eccomi qui, a provare a mettere per iscritto alcune delle
emozioni e dei pensieri che hanno accompagnato la fine di questa mia esperienza
SVE. Partendo da una foto. Una foto sfocata, di bassa qualità, nulla di
eccezionale, ma che per me rappresenta il senso di questi mesi. 8 mesi passati
tra le gente, con il popolo tanzaniano, con le ragazze e le giovani donne di
Bagamoyo, entrando in contatto con le loro famiglie, i loro bimbi, i loro
mariti, i loro genitori, i loro fratelli, i loro amici.
Questa foto è stata scattata durante un
corso di aggiornamento nella produzione di batik organizzato da CVM, il mio
ente di invio, e BAGEA, l’associazione tanzaniana per la promozione del diritto
all’educazione presso cui sono stata impegnata, per uno dei gruppi delle
“nostre” ragazze coinvolte nei progetti di sostegno all’educazione e alla
formazione professionale. Quello è stato uno dei momenti più “duri” del mio
SVE, a novembre. In Tanzania da qualche mese, continuavo a non capire nulla di
quello che accadeva intorno a me, non capivo lo swahili, non riuscivo a
comunicare, sentivo una barriera fortissima con le persone intorno a me, che mi
impediva, pensavo in quel momento, di lavorare, di dare il mio contributo, di
dare un senso alla mia esperienza. Durante quel corso mi ricordo in particolare
un episodio, una battuta detta dalle ragazze a cui io non ho riso perché non
riuscivo a capire quello che dicevano. E la percezione netta in me e in loro di
essere “fuori dal gruppo”. E poi..e poi le ragazze e la formatrice con
naturalezza mi hanno invitato a sedermi in mezzo a loro, mi hanno messo una
tela in mano e mi hanno fatto vedere come preparare il tessuto per il batik,
invitandomi a fare lo stesso. Io in teoria ero li per “coordinare” un pochino
le attività, fare interviste di monitoraggio, tenere il report del corso. Ho
lasciato perdere. Mi sono messa li seduta, sui teli di plastica nera, insieme a
loro e ai loro figli che gattonavano sui teli, in mezzo alle loro risate, in
silenzio, ascoltando quello che mi capitava intorno, osservando i loro volti,
sorridendo ai loro figli. E anche loro hanno ricambiato il sorriso. Ho capito
in quel momento che forse quello che la Tanzania mi chiedeva di fare era
proprio quello. Stare in silenzio e aprire il cuore gli occhi e le orecchie a
quello che sarebbe accaduto, senza pretendere nulla.
Sono partita per la Tanzania e per
questo SVE con tanti “voglio fare”. Voglio imparare, voglio accrescere le mie
competenze professionali, voglio lavorare..voglio voglio. Sono arrivata giù e
ho capito che non avrei trovato nulla di quello che volevo. Sono stata mandata
a lavorare con un’associazione locale formata da 4 ragazze tanzaniane di cui
una sola sapeva bene l’inglese, mentre le altre parlavano solo swahili. E
davano per scontato che io parlassi swahili o che lo imparassi nel giro di
qualche giorno. L’ufficio era una stanzetta all’interno di una casa, la
corrente spesso veniva tagliata e quando finiva la batteria del computer si era
bloccati o bisognava spostarsi in uno dei pochi baretti con corrente. I tempi
di lavoro diversi e le priorità diverse che ti fanno pensare sia impossibile
lavorare come tu ti aspettavi; una mentalità diversa con cui ti scontri, con
cui non ti riconosci e che ti fa mettere in discussione il senso del tuo stare
li. Il corso di swahili partito un po’ in ritardo, molto meno strutturato e
“convenzionale” di come ero solita immaginarmi un corso di lingua. La
solitudine, la fatica nel comunicare parole e pensieri con le persone che hai
intorno, le colleghe, le ragazze dei nostri progetti, i vicini di casa. La
paura di non farcela ma la voglia di restare e andare avanti. Accettando di
restare in silenzio, accettando di stare a guardare per un po’. E poi piano
piano l’apertura. Con le colleghe, che mi hanno insegnato lo swahili giorno per
giorno insegnandomi, tra la scrittura di un progetto e un monitoraggio, a
pulire le verdure, facendomi tenere i loro figli in braccio, facendomi
assaggiare tutto quello che il mercato culinario di Bagamoyo offriva. Con i
vicini di casa, con i quali ho preso lezioni di cucina, seduta sulle stuoie,
davanti a un fuoco a carbone mentre ci si racconta delle proprie famiglie. Con
Roma. il mio insegnante di swahili, una guida turistica con la passione della
storia e dell’economica, che mi ha aperto gli occhi sulla società tanzaniana,
sulle tradizioni ancora presenti, sulla voglia di riscatto e di crescita
sociale e professionale dei giovani. Con Maembe, Nabo, Sajali, Kenni, i miei
amici musicisti che mi hanno praticamente adottato e con i quali ho scoperto e
imparato le mille sfumature della musica tanzaniana, le sonorità, i testi che
parlano di povertà, di infibulazione genitale femminile, di repubblica
tanzaniana, dei mille problemi di questa Africa che pulsa. E la fatica che si
trasforma in regalo. Che mi fa capire quanto sono ricca e fortunata. Questi
mesi sono stati la risposta a tante delle mie aspirazioni. Il perché di una
certa scelta universitaria, il perché di una certa “vocazione” professionale,
la passione per la storia e la politica africana. E poi, a completare, sono
arrivate anche le famose competenze professionali. Un “in più”. Mi è stato dato
tanto di più quello che pensavo. In un modo imprevisto, diverso da quello che
pensavo. Come sempre la vita mi sorprende. E mi sono ritrovata sull’areo di
ritorno semplicemente a dire “Asante sana”.
Valentina Codeluppi - SVE Tanzania
Valentina Codeluppi - SVE Tanzania
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