MAMA JAMILA!
Venerdì sono andata insieme alle colleghe di BAGEA in
una primary school di Bagamoyo per una mattinata di peer education con gli
studenti. BAGEA è nata per promuovere il diritto allo studio delle ragazze qui
nel distretto, dati gli enormi ostacoli culturali, economici e sociali che
ancora esistono a un riconoscimento pieno e reale dei diritti per le donne, in
primis quello all’educazione. Normalmente lavoriamo e promuoviamo attività di
educazione, promozione dei diritti e sensibizzazione per le ragazze dai 16 ai
30 anni, ma abbiamo capito che se non si lavora anche con bambini e bambine, se
non si comincia fin da subito a parlare del diritto alla dignità,
all’educazione, alla promozione femminile, poi sarà molto più difficile lavorare
con le ragazze ma anche con le stesse comunità locali nelle quali le ragazze
vivono.
E cosi, ecco l’idea di andare nelle scuole, per
cercare di spiegare e fare passare, in maniera semplice e “giocosa”, concetti
come il diritto all’educazione e il diritto a un’educazione paritaria per
bambini e bambine, lotta contro la violenza sulle donne, un inizio di
educazione sessuale e sulle malattie sessualmente trasmissibili. Forse sembra
un po’ prematuro, ma in un paese in cui il tasso di gravidanze precoci
(riferendosi a un’età che va dai 11 ai 14 anni) è tra i più alti al mondo forse
cambierete idea. L’obiettivo è che gli studenti formati a loro volta possano
trasmettere un po’ delle nozioni apprese ai loro coetanei e amici. Ecco il
senso della peer education.
Sono arrivata a scuola con Alala, la presidente di
BAGEA che ha una carica ed un’energia trascinante soprattutto con i giovani,
Jamila, la segretaria dell’associazione, e Valentina, nuova SVE sbarcata da poco più di un mese a Bagamoyo. Per me non era la prima volta
che partecipavo alla peer education, ma confesso che fa sempre un certo effetto
entrare in queste classi polverose e ombrose, dove ti servono alcuni minuti per
abituarti all’oscurità venendo dalla luce accecante di fuori, in cui stanno stipati,
in rigoroso silenzio e ansiosa attesa dai 45 ai 60 bambini. Una classe. 120
occhi fissi su di te. Ad aspettare quello che tu farai e dirai. Ad aspettare un
tuo cenno. Alala si è presentata, ha presentato l’associazione e il motivo
della nostra presenza qui. Poi ci ha fatto presentare. L’ultima peer education
a cui avevo partecipato era stata diversi mesi fa, quando il livello del mio
swahili era davvero basico, mi toccava presentarmi in inglese e i bambini mi
guardavano sempre con deferenza e un po’ di timore. Questa volta mi sono
presentata in swahili, e i bambini hanno risposto al mio “Mambo!” con un
caloroso “Poa!!” Alala ha cominciato a introdurre diversi concetti chiedendo ai
bambini di intervenire con suggerimenti e opinioni. Parlando della vita quotidiana,
chiedendo il riferimento alle loro storie personali, a quello che i bambini
vedono e vivono in casa e a scuola è molto più facile riuscire a parlare anche
di concetti “difficili” come parità uomo-donna, educazione, violenza. A ogni
spiegazione seguiva una fase di lavori di gruppi in cui i bambini si
raggruppavano a gruppetti di 6-7 per discutere insieme dei temi affrontati e
sviluppare le loro idee. E poi, per sciogliere la tensione, la parte più bella:
una sorta di bans-versione tanzaniana proposti da Alala. Ce n’è in particolare
uno che Alala mi ha insegnato durante la prima peer education e che è un po’ il
suo cavallo di battaglia. Inizia cosi: “Mama Jamila (una presa in giro
nei confronti della “nostra” Jamila) anasonga ugali”: che tradotto vuol
dire “Mama Jamila prepara l’ugali (uno dei piatti nazionali tanzaniani: la
tipica polenta bianca di mais). E poi continua: “con una mano, con l’altra
mano, con i piedi, abbassandosi fino a terra, ballando” etc. Tutto mimato.
Alala ha cominciato in sordina, invitando i bambini a seguirla. Credo che non
credessero ai loro occhi e ai loro orecchi. Un adulto che dava loro
l‘autorizzazione e ballare e cantare a squarciagola in classe. Subito hanno
cominciato timidamente poi si sono scatenati, come solo i bambini sanno fare,
soprattutto quelli africani. Ad un certo punto ho pensato che l’aula sarebbe
venuta giù. E devono averlo pensato anche le persone fuori, perché è
venuta un’insegnante da un altra classe per chiedere se andava tutto bene. Dopo
un’altra “sessione di lavoro” Alala ha riproposto il bans, chiedendo a me e
Valentina di accompagnarla. È stato lo spettacolo. Cioè non per la nostra
performance, che davvero lasciava alquanto a desiderare soprattutto se
paragonata all’elasticità africana, ma per il momento di condivisione che si è
creato. I bambini si sbellicavano dalle risate, e poi, dopo un attimo, hanno
ripreso a ballare con noi. Siamo qui per parlare di diritti, di educazione, e
spesso rimaniamo chiusi nei nostri uffici, sapendo poco di cosa vuol dire
“educazione” qui, e di cosa vuol dire lavorare insieme con la gente del posto
per rafforzare questo diritto. Io non sono un’educatrice o un’animatrice, non
mi ci vedo e non credo che sarebbe il mio posto, ma in quella classe, cantando
insieme di come si prepara l’ugali, mi è sembrato per un attimo di essere più
vicina a quei bambini che mi prefiggo di “aiutare” dal mio ufficio, di capire
un po’ di più, di entrare un po’ di più nella loro storia. Come quando con
l’ortolano mi fermo a discutere di come si cuoce il matembele (una sorta di
bietola locale), o come quando con Roma, il mio insegnante di swahili,
discutiamo di cosa vuol dire essere giovani lavoratori in Tanzania o in
Europa..
Oggi, dopo il lavoro, stavo camminando per le stradine
di Bagamoyo. Un gruppo di bambini con indosso la divisa scolastica mi si è
avvicinato e mi ha salutato. Capita spesso e non ci ho fatto troppo caso. Poi
però mi hanno detto “Mambo Vale!Mama Jamila wapi???” (Ciao Vale, dov’é
Mamma Jamila???.. erano i “nostri” studenti..si erano ricordati! Era rimasto
qualcosa della mattinata passata insieme! Mi piace pensare che tra una parola
di un bans e un’altra sia rimasto anche qualche riferimento a educazione e
diritti umani. Spesso mi sento amareggiata o delusa, quando ho l’impressione
che si riesca a fare cosi poco, che alla fine le persone siano cosi poco
interessate a quello che facciamo. È bastato un “Mama Jamila” a farmi tornare
il sorriso. A farmi dire che non è mai tutto inutile. Ridendo ho risposto “Mama
Jamila pale ofisini ya BAGEA!” (è all'ufficio di BAGEA).
Valentina Codeluppi - SVE Tanzania
Bagamoyo, 18 febbraio 2014
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