giovedì 18 giugno 2009

La primordiale bellezza



Fisso, non senza qualche preoccupazione, l'intruglio grigiastro che mi hanno appena versato nel bicchiere. Si chiama borde, mi dicono, ed è una bevanda tradizionale di questa gente, i Gumuz, di cui tanto ho sentito parlare prima di giungere qui, in Benishangul, ed averli finalmente di fronte, nei miei occhi i loro, resi quasi lucenti dal contrasto con la pelle nerissima, da Africa profonda, ancestrale, primitiva. Ne ho visti un bel po' di volti come questi, anche là fuori, nel rutilante caos del mercato di Gelgel Beles, tra vacche e cipolle, capre e sacchi di berbere, vasi e tessuti lavorati a mano. Ho visto donne o, meglio, esseri umani “da soma” assumere il sembiante di bilance e trasportare sacchi di merci varie, tenuti alle estremità di bastoni in legno. Ho visto i loro volti bagnati dal sudore, ma non per questo distorti in smorfie di sofferenza o fatica. Li ho visti, talvolta, aprirsi ad un sorriso davanti all'obiettivo della mia macchina fotografica. Non ho visto, però, i loro uomini, quei maschi che danno il nome alla stessa etnia (il significato della parola “Gumuz” è riconducibile a “Maschio”), dato che il mercato, vengo poi a sapere, è territorio esclusivo del genere femminile.

Sono tutte donne, con l'eccezione di qualche pargolo, anche quelle che ci hanno accolto in questa spartana bettola, ai margini della spianata dove si svolge il mercato settimanale. Mentre i loro uomini si dedicano al duro lavoro della terra o alla pratica della pastorizia, loro offrono ristoro agli avventori. In questo caso, il clima conviviale che si instaura, unito alla curiosità che un ferengi “viso pallido” come me da sempre suscita in tali contesti, aiuta il dialogo, la condivisione e lo scambio di conoscenze. Così, vengo a sapere che colei che gestisce tale sorta di locanda è in realtà una “mezzosangue”, madre Gumuz e padre Oromo (altra etnia di questo Paese, di fatto una delle più numerose). Ci parla dei piccoli segnali di civilizzazione, che stanno caratterizzando la vita delle comunità Gumuz negli ultimi tempi. Ci indica, ad esempio, i vestiti che ha indosso, di fattura industriale benché non firmati, ben lontani insomma dalla semplice copertura delle proprie “vergogne”, scarno indumento tipico delle comunità più lontane dai villaggi. Ci parla, poi, della sua attività, nella cui gestione è comunque abbastanza libera e indipendente, tanto da permettersi il lusso di esporre persino qualche soft-drink di rinomata marca.

La ascolto con interesse o, meglio, ascolto con interesse la traduzione fornitami in tempo reale da Alghina, collaboratrice CVM ed altra “mezzosangue” Amhara-Gumuz. Sto in ascolto, apprendo, rifletto. E continuo a riflettere anche sul da farsi circa quel liquido grigiastro e denso che è ancora lì, nel mio bicchiere e che verosimilmente non sparirà da sé, benché lo desideri fortemente, al fine di evitare il rischio di possibili contaminazioni (chissà con che tipo di acqua l'hanno preparato?!), senza venir meno a quella sorta di “imperativo sociale” che ti fa fare di tutto pur di accettare l'ospitalità altrui, sotto qualunque forma essa si presenti, pena un'implicita “ingiuria” culturale. Mentre tentenno davanti al borde, ecco che l'ennesimo dilemma gastronomico della mia avventura etiope mi si para dinnanzi, senza che sia peraltro riuscito a risolvere la situazione relativa alla problematica bevanda di cui sopra. Mi arrivano, infatti, in mano dei semi scuri e secchi, o almeno così credo. I miei commensali abesha se li infilano in bocca senza pensarci troppo. Alla fine, lo spirito d'emulazione prevale, rafforzato dalla dimensione collettiva e sociale del contesto. Ma sì, ne prendo uno anche io. Il sapore è molto amaro, per nulla piacevole, ma mi accontenterei solo che non avesse conseguenze sul mio apparato gastro-intestinale, delicato come solo quello di un ferengi (straniero, “bianco”) in Etiopia può essere. Staremo a vedere. Intanto, mi dicono che questi semi vengono considerati dalla tradizione quale medicinale in grado di prevenire la malaria. Ah be', allora: se lo considerano un medicinale, tanto male non potrà fare.

Distolgo finalmente il pensiero dalla mie paranoie nutrizionali, per quanto giustificate possano essere, e presto attenzione ai volti che ho dinnanzi. I loro lineamenti e colore mi affascinano, come quelli della donna che appare divertita dalle foto che le vengono scattate; come questi bambini e fanciulle, ammirevole commistione tra la delicatezza data dalla giovane età ed il forte impatto che hanno su di me le loro fisionomie da profonda Africa; come quella donna che, là fuori, poco distante, allatta il suo pargolo, i prosperosi e neri seni quasi interamente scoperti, ché in fondo non c'è motivo di pudore laddove è Natura a dettar legge. Gesti e usanze semplici, senza falsi perbenismi o complicati schemi comportamentali propri di altre culture, definite più “avanzate”, sotto alcuni aspetti anche a ragione, senza qualunquismi né ipocrisie. Ma, in questo momento, tra tali creature, tutto ciò che ho appreso di “buono” e “cattivo” su questa gente, compresi elementi di oggettiva arretratezza in senso civile, sociale ed economico, fino ad arrivare a particolari usanze ai limiti del rabbrividente, ebbene tutto ciò passa per un attimo in secondo piano. Nel tentativo di comprensione (nel senso letterale del termine, che va oltre il solo “capire”), ogni giudizio morale si sospende ed un unico pensiero, quasi una preghiera, mi occupa la mente: che Dio benedica queste sue magnifiche creature, queste donne, queste anime semplici e un po' bambine!


Simone Accattoli

Volontario in Servizio Civile, Etiopia

martedì 9 giugno 2009

Tutte le sfumature del Nero


Prologo: la bussola geo-etnica e i problemi d'orientamento

Con il mio amico e collega abesha Betre si discute, davanti ad un piattone di injera e shiro wot, sul significato e sulla sussistenza o meno del termine “Etiopia”. Quale idea e, conseguentemente, quale realtà associare a tale parola? “Etiopia” o, potremmo dire, “Etiopicità” sembrano essere segni ambigui, cui non corrisponde un significato e, quindi, un referente univoco, per dirla con i paroloni della Semiotica.
Se è vero, come è vero, che per molte genti, appartenenti alle etnie più disparate e pur presenti all'interno dei confini della stessa Nazione, la parola “Etiopia” non è altro che un'etichetta, un marchio spesso scomodo affibbiato loro da un'istituzione al più estranea, lontana, aliena; se è vero, come è vero, che, solo poche ore fa, nell'ufficio CVM del Metekel, la giovane Alghina, mezzosangue Amhara-Gumuz, affermava chiaramente “Io non sono abesha”, aggettivo quest'ultimo che potremmo, pur con le postille del caso che non si starà qui ad aggiungere, tradurre con “Etiope”; se è vero tutto ciò che sto avendo modo di capire, vedere e sentire in questo altro pezzo d'Etiopia che si apre alla mia curiosità, alla mia esperienza, ai miei occhi, il Metekel, Regione del Benishangul-Gumuz, tanto duro da vivere quanto interessante dal punto di vista culturale, etnico ed antropologico; be', allora la questione non è affatto di poco conto e non può dirsi ristretta all'ambito quasi sofistico di un giochino logico o di una sciarada di parole, avendo invece fattuali ricadute e riflessi sulla reale situazione di questo grande Paese e su ciò che sarà di esso, sul suo futuro.
“Etiopia”, dunque, come mera istituzione politica, Stato (più o meno) democratico guidato da un Governo Federale, specifica frazione di un'aggiornata cartina geo-politica, oppure, andando un po' in profondità e legando il termine a quello di Ethiopianness (il sentimento della “Etiopicità”), il cuore culturale, storico e politico del grande ideale propugnato e portato avanti da re Theodoros, da molti considerato quale “Padre della Nazione”, e cui poi Menelik II, con le sue conquiste, diede le attuali forma e dimensione? Un cuore, questo, ben identificabile con le attuali Regioni Amhara (in sostanza, il Gojjam e Gonder) e Tigray, quelle solcate dal fiume Abbay (il Nilo Blu), di cui parla persino l'Antico Testamento, identificandole proprio con la Terra d'Abissinia. Si scava nella profondità e nelle origini del concetto, complicando non poco la questione.
Complessa è infatti la realtà che si mostra, in questi giorni, ai miei occhi. Si discute, davanti allo shiro e a due bottiglie di Dashen Beer, ma senza la pretesa di arrivare a risposte o soluzioni univoche. Complessa è la realtà e, per questo, affascinante. Come non sono affatto privi di fascino questi volti, quelli dei Kai (“Rossi”) Amhara, spesso riconducibili a fisionomie “occidentali”, e quelli scuri e duri, come l'ebano, degli Shenasha e ancor più dei Gumuz. Non lo sono le storie che ho avuto modo di ascoltare, all'appena refrigerante ombra di un bar o in un caratteristico villaggio dalle spartane capanne di fango e paglia, i racconti in cui la leggenda si confonde con la storia, una storia che parla di sopraffazioni e schiavitù, di migrazioni e battaglie, di odi ancestrali e macabre usanze, come pure di assimilazioni e spinte “civilizzatrici”. La realtà è in continuo divenire, come è vero però che il passato non muore mai. E allora, ancora una volta, cos'è l'Etiopia? Un qualcosa che stenta ancora ad essere, a formarsi, o qualcosa che c'era già molto tempo fa e si è poi mescolata con Altro da Sé, espandendosi o, meglio, inglobando ciò che gli stava attorno e chiamandolo con il proprio nome? Processo di liberazione nazionale, laddove una Nazione (nel senso Romantico del termine, quale insieme di genti unite da identica cultura, lingua e storia) già era presente seppur non istituzionalizzata, o piuttosto cammino di conquista di un popolo su altri, meno forti e capaci a difendersi, invasione con conseguente più o meno (mal)riuscita assimilazione? Da quanto ho avuto modo di comprendere, vedere, intuire, la seconda opzione sembrerebbe quella più vicina alla realtà storica, sebbene la realtà sia sempre un qualcosa di difficilmente definibile, un qualcosa che sta lungo un continuum, muovendosi di volta in volta tra gli estremi di due definizioni, come quelle di cui sopra, che servono più che altro da parametro, strumento per rapportarsi a un qualcosa che è di fatto molto più complesso e “fluido”.
“Io non sono abesha” ha detto Alghina questo pomeriggio. E a pensarla come lei sono, probabilmente, molte altre persone in queste ed altre parti d'Etiopia (qui nel senso prettamente geo-politico ed istituzionale del termine). Si prendano in considerazione gli appartenenti al fronte di liberazione dell'Oromia, i tanti musulmani di etnia somala presenti nel sud-est del Paese e, ancora, piccoli e sparuti gruppi di dissidenti e pseudo-combattenti, che vivono rifiutando qualsiasi tipo di appartenenza nazionale, come i guerriglieri (se così si possono definire, enfatizzando un po') sulle montagne di Armacho, in North Gonder, presso il confine settentrionale con il Sudan. Penso alle donne dai volti duri e scuri, che ho visto proprio da queste parti, al mercato di Gelgel Beles, con bastone e sporte sulle spalle. A coloro che vivono lontani dalle città e dai paesini, le giornate scandite da pratiche e usanze pressoché immutabili nei secoli, quasi immuni all'invasivo processo di globalizzazione, come pure al progresso civile, dato da quell'affermazione di diritti fondamentali che può passare solo attraverso l'educazione. La pensano un po' allo stesso modo, forse, anche quegli uomini di etnia Gumuz, come l'Amministratore della woreda di Mandura, i quali si trovano qui pienamente (?) inseriti in contesti istituzionali, lavorando fianco a fianco con Amhara e rappresentanti governativi in genere, la bandierina con i colori panafricani e la stella del Millennio a far bella mostra di sé sulla scrivania del proprio ufficio.
E allora, dove mi trovo in questo momento, a parte davanti all'ennesima injera della settimana? In Etiopia, sì; ma anche nella terra dei Gumuz e dei Shenasha; come pure tra l'Abissinia citata nelle Sacre Scritture e l'odierno Sudan. Mi trovo, questo posso affermarlo con chiarezza, in un luogo dal caldo asfissiante, fattore climatico che non aiuta certo la lucidità mentale e il discernimento, bensì la fusione dei propri neuroni. Insomma, basta scervellarsi inutilmente, tentando di trovare definizioni, applicando categorie storiche e filosofiche ad una realtà che si conosce da così poco tempo. Raccontare: ecco cosa mi limiterò a fare... dopo aver finito lo shiro che è ancora nel piatto.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia