venerdì 28 novembre 2008

Simone Accattoli dal Sud Africa "Matrimonio etiope"

Un’immagine mi ha colpito ieri, passeggiando con Dawit (un ragazzo conosciuto qui ad Addis) non lontano da Mesqal Square. Presso quelli che vengono chiamati Giardini d’Africa o qualcosa del genere, un amplissimo parco verde e lussureggiante, un folto gruppo di convitati ad un matrimonio si produceva in allegre e vivaci danze, tra colorati gazebo e tavole imbandite. Chiunque sia in grado di prendere in affitto, anche per un solo giorno (e che giorno...) un luogo del genere non se la deve passare affatto male! Pochi metri, qualche albero a separare e poi tre ragazzi, nei pressi di un gruppo di massi, in riva al fiumiciattolo d’acqua sporca. Non si agitano al ritmo frenetico delle danze, i loro movimenti sono lenti, svogliati, pressochè inerziali, quasi ci fosse un muro spesso, insonorizzato, a separarli da ciò che avviene a pochi metri di distanza. Uno di loro sembra masticare qualcosa, dell’erba, forse chat, la droga qui più in voga, l’eroina etiope, con le dovute proporzioni. I loro abiti non sono quelli della festa; sono semplici, per non dire miseri, sporchi, finanche scuciti, strappati. Non so se sia un’impressione prodotta dalla mia mente, ma sembra persino che il sole risplenda più forte e vitale sugli etiopi in festa, lasciando un po’ in ombra il luogo dei tre fuori dalla festa.
Osservo dal marciapiede del ponte dove mi trovo, muovo lo sguardo velocemente dagli uni, quelli al sole, agli altri, quelli all’ombra, sia essa metafora o reale condizione climatica. Un angolo di visuale assai scarso per me, che guardo dall’alto. Uno, due; uno, due. Un mondo ed il suo opposto, lontani anni luce e così vicini, contigui, se non fosse per qualche arbusto. Contrasto stridente. Di più: contraddizione, se si considera la sostanziale unitá di tempo e spazio.
Gli occhi osservano. La mente tenta di capire. Il cuore non si capacita.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

Simone Accattoli dall'Etiopia "Lezione di religione"

Dalla mattina, quando apro lo sguardo al mondo, fino al buio, prima di coricarmi, la cantilenante voce dei religiosi intenti nelle loro “lezioni” mi accompagna, costante e mistico sottofondo alla mie azioni, ai miei pensieri. “Egziabiher” (cioè “Dio”) è una delle poche parole, se non l’unica, che riesco a distinguere, ripetuta, invocata. Qui la respiri ovunque la religione, in ogni momento della giornata. È parte integrante, anzi fondamentale, della vita della gente; non giá mera facciata, bensì motore primo dell’agire, del comportarsi, in base al quale scandire la propria quotidianitá.
C’è la Chiesa Cristiana Ortodossa d’Etiopia, con la sua millenaria tradizione, ma ci sono anche Protestanti e Cattolici, come è presente la componente Ebraica, i cui usi e pratiche sono strettamente connessi alle pratiche religiose di questi luoghi e alla loro storia, tanto che secoli fa e per un dato periodo i regnanti d’Etiopia amavano identificarsi con Re Salomone e, in particolare, la dinastia fondata da Yikunno Amlak nel 1270 venne chiamata “Casa d’Israele”; c’è poi, ovviamente, l’Islam, seppure non prevalente come in altre Nazioni limitrofe e alla cui vera e propria invasione, all’inizio del XVI secolo, la Chiesa d’Etiopia seppe resistere e sopravvivere. Ho sentito e letto anche del persistere di certe forme di Paganesimo o, meglio, Animismo in alcune delle zone meno civilizzate del Paese. Trattasi, insomma, di un complesso mosaico, il cui comun denominatore sta nell’importanza che tutt’oggi l’aspetto spirituale, nella veste di varie e variegate confessioni religiose, riveste nella vita delle persone.
Magari, da queste parti non hanno altro cui aggrapparsi, si potrá pensare. Ma, a mio avviso, c’è molto altro e molto di più. C’è un’immensa cultura che la Chiesa d’Etiopia è stata in grado di preservare e tramandare nei secoli, svolgendo anche un importante funzione educativa e formativa in tempi in cui non erano presenti altre agenzie di socializzazione, come le definirebbero i sociologi, fuori dall’ambito familiare. C’è l’orgoglio di una storia antica e speciale, che distingue l’Etiopia dagli altri Paesi africani, che va di pari passo con l’evoluzione del Credo della Nazione, il quale dal Giudaismo, praticato assieme al Paganesimo prima ancora dei contatti con l’Impero Romano, vide l’introduzione del Cristianesimo ad opera proprio dei mercanti romani, attivi nelle principali cittá della regione di Axum, primo passo verso un affermazione che, a differenza di altrove, avvenne dall’alto, per precisa scelta della dinastia regnante, la quale fece proprio del Cristianesimo la religione di ufficiale, dando il lá alla sua profonda penetrazione presso la popolazione etiope. C’è, insomma, una reale identificazione tra ciò che si è, in quanto Nazione etiope, e le proprie istituzioni religiose, visto che proprio grazie a queste la Nazione, che si sostanzia nella cultura e nella tradizione di un popolo, ha potuto vivere, sopravvivere e così svilupparsi.
In questo sta il motivo per il quale i Portoghesi, che pure diedero un forte contributo militare ai fini della definitiva disfatta dell’esercito islamico nel XVI secolo, vennero poi coinvolti in sanguinosi contrasti, che portarono all’espulsione delle missioni gesuite dal Paese, ad opera dell’Imperatore Fassiladas (1632): essi non compresero il valore della storia e dell’ereditá culturale della Chiesa d’Etiopia, comportandosi come agenti della Santa Sede, educatori spirituali nei confronti di un Paese che, da questo punto di vista, poteva ben definirsi orgogliosamente autosufficiente.
Ecco, allora, che molte altre cose che si vedono, si osservano, diventano più chiare e facili da comprendere, al di lá della propria condivisione o meno. Basti pensare a tanta e sentita partecipazione popolare in occasione delle varie festivitá e cerimonie religiose, anche per quelle che inizialmente tali non erano, ma valenza religiosa hanno acquistato (inevitabilmente) in seguito. É il caso, ad esempio, dell’usanza, la mattina del giorno di San Michele (il 12 novembre, stando al calendario etiope), di bruciare la propria spazzatura davanti all’uscio, in memoria di quanto fatto dai propri avi allorquando (siamo a fine ‘800), per bloccare la dilagante epidemia di colera, il regnante Menelik II ordinò alla popolazione di dar fuoco appunto a quanti più possibili rifiuti. Peccato che oggigiorno, oltre al fatto che è venuta meno la motivazione contingente, i rifiuti abbiano cambiato e parecchio la propria natura: un conto è bruciare sterpaglie e fogliame, un altro è fare lo stesso con plastica e materiali sintetici vari. Ma tant’è, le attuali leggi e tutti i moniti governativi del caso non possono nulla: la mattina di S. Michele, Addis Abeba viene puntualmente avvolta da una folta nebbia, quasi fosse la triste e misteriosa Londra ottocentesca narrata da Blake, le origini della suddetta nebbia a far da elemento discrepante. Perchè questo? Semplicemente per la valenza cerimonial-religiosa che tale usanza attualmente riveste. Insomma, San Michele val bene un po’ di catrame nei polmoni...
Non mi si fraintenda per quest’ultimo esempio: tutto ciò è estremamente affascinante. Talvolta è bene sospendere il giudizio raziocinante; anche quando, alla fermata dei mini-bus (pardon: taxi, come li chiamano qui), tra le bancarelle illuminate, il vociare dei passanti e le grida degli addetti alla comunicazione della destinazione dei vari mezzi pubblici, da uno di questi caratteristici pulmini bianchi e blu si leva perentoria, mediante altoparlante, l’ennesima cantilena sacra, simile, al mio orecchio, alle innumerevoli altre che mi accompagnano nelle attivitá quotidiane e tra le mura della sede CVM. Eccessivo? Fuori luogo? Forse, ma in base a quali parametri? Magari, quello fuori luogo sono io...

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

Testimonianza di Simone Accattoli, Volontario in Etiopia

L’aria è acre, quasi irrespirabile. Entra dai finestrini della nostra auto che attraversa Addis Abeba, il “Nuovo Fiore” (questo è il significato del suo nome in Amarico), anche se in questo primo tragitto dall’aeroporto di fiori non se ne vedono. Piuttosto vetture, tante, troppe per quello che riescono ad emettere lungo le strade, affollate di gente che si muove tra la polvere, le baracche e qualche negozietto, come pure sullo sfondo di grandi palazzi, sprazzi di Occidente qua e lá, “Pepsi” e “Coca Cola”; il tutto in un generale senso di rutilante disordine, caos, ma senza frenesia, “prodotto” che il mondo sedicente evoluto non sembra essere riuscito ancora a far entrare in questo continente.
Da queste parti capitò pure il padre di mio padre. Altri tempi: niente veicoli dagli scarichi nauseanti, né tanto meno l’asfalto, che ora bolle sotto il sole sub sahariano. C’era una guerra da combattere, anzi da vincere, in nome della patria, per la gloria del rinascente Impero e altre amenitá del genere, in quegli anni bui così in voga. Egli ci capitò – ho scritto – perché chi viene chiamato alle armi deve partire, anche se non sa o non ne capisce le ragioni, da sempre, anche se ha una famiglia da sostenere o mille altre cose migliori e più degne da fare che non andarsene in luoghi sconosciuti a sparare contro uomini altrettanto sconosciuti, che nulla avrebbero a che spartire con lui, poiché lontani, lontanissimi, non solo geograficamente. Questione di prioritá; quelle di altri.
Io, invece, in Etiopia ho scelto di venire, lasciando l’ennesimo pseudo-lavoro da giornalista straprecario e sottopagato. “L’ultima volta che c’è stato qualcuno di Destra alle Politiche Giovanili, – ebbe a dire poco tempo fa l’irriverente Maurizio Crozza, ironizzando sull’attuale establishment politico italiano – i nostri ragazzi li mandavano in Etiopia.” Ebbene, eccomi qua, proprio nella Nazione di Hailé Selassié e Menelik, degli altopiani e dei grandi fondisti d’atletica, delle 80 lingue parlate e degli ancor più numerosi dialetti, la Nazione della ‘ngera e del tegh, delle tante etnie e contraddizioni, della millenaria tradizione ebraico-cristiana e dell’immensa cultura che attaverso questa si è preservata e tramandata fino ai giorni nostri. Sono qui, ma di mia sponte, ripeto. Questione di prioritá, anche in questo caso, ma di tutt’altra specie, sentite e non imposte.
“Farengi” (cioé “stranieri”) dicono i ragazzini che si accostano al finestrino, parziale schermo verso un mondo a me nuovo, in questo primo impatto con la terra da cui tutto ha avuto inizio, dove la creatura che esercita il suo dominio su tutte le altre mosse i suoi primi passi, per poi andare alla conquista del globo intero, espandendosi quale tremendo virus che infetta, modifica, deturpa l’organismo che lo ospita, in questo caso il nostro pianeta. Un virus, nel senso proprio del termine, da anni ormai colpisce in modo inesorabile la popolazione di questi luoghi e di questa Nazione in particolare: é quello dell’immunodeficenza umana, meglio noto come HIV, stadio antecedente all’AIDS o Sindrome d’Immunodeficienza Acquisita. A quest’ultima non servono presentazioni, é il motivo centrale, benché non unico, della presenza da queste parti del CVM, l’Ong italiana alla quale presterò il mio servizio nei prossimi undici mesi, documentandone i progetti e cercando di scoprire e narrare, all’interno di questi, le vicende, le storie e le vite di chi vi si trova coinvolto, nei diversi ruoli che la sorte riserva.
Pensieri, impressioni. La mente é alle prese con il Nuovo, si appresta ad affrontarlo, a svelarlo, a comprenderlo. Gli occhi ce lo hanno giá davanti; ma “l’essenziale é invisibile agli occhi”. Essenziale sarebbe, ora come ora, una superficie piana su cui far viaggiare il nostro mezzo targato CVM, che traballa e ballonzola tra i ciottoli, le buche e le irregolaritá varie di un tragitto improvvisamente mutato sotto i nostri piedi. A un tratto, niente asfalto; ma la polvere... quella non manca, anzi é ancora di più. I contorni del Nuovo sfumano. Ci sará tempo e modo per comprenderlo. Almeno un po’.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia