lunedì 23 settembre 2013

Interculturazione....una settimana di tante prime volte!





Questa settimana ho partecipato alla mia prima missione di monitoraggio nel distretto di Bagamoyo. Una settimana di tante prime volte. Una settimana di incontri, di strette di mano, di saluti che piano piano comincio ad imparare, di occhi che ti guardano e ti sorridono, di colori accesi, di veli sovrapposti uno sull’altro a coprire i corpi delle donne, di risate, di preghiere che senti venire la sera dalle moschee.
Sono partita con Chausiko, una mia collega di Bagea, e Peace, la facilitratice del CVM che segue i gruppi femminili di microcredito, i gruppi di vedove, i grupppi sulla violenza contro le donne e quelli dei progetti di sensibilizzazione in materia di educazione e diritto allo studio per le ragazze. Il monitoraggio era fatto per verificare l’andamento soprattutto di questi ultimi. A completare il gruppo Cristoph, l’autista. Un omone simpaticissimo che sa l’inglese ma non lo parla perchè la sua missione è insegnare lo swahili a tutti i volontari che arrivano.

3 giorni tra un susseguirsi di villaggi dai nomi esotici..Viguasa, Pera, Pingo, Diozile, Ubena, Bwilingu, Msoga (città di origine del presidente Kikwete), Mboga, Lugoba.. Ovunque storie e incontri, straordinari nella loro ordinarietà. Storie di povertà, di fatica, di diritti negati o non ancora consapevoli. Storie di piccola violenza ma anche di piccoli successi e di sorprese, come quando le donne del gruppo di microcredito di Bwilingu ci raccontano che da alcuni mesi fanno volontariato in ospedale e aiutano i bambini in difficoltà delle scuole vicine. Senza averne fatto la minima pubblicità. È difficile capire, colgo una parola in un discorso intero. Ma è bello anche cosi. Anche solo aspettare sotto un albero l’arrivo dei gruppi, anche solo guardare le persone negli occhi, strigere loro la mano..soprattutto quelle delle anziane, mani nodose, con le unghie cortissime e spesso tinte di giallo per la terra e il lavoro nei campi..e sorrisi acquosi e dolcissimi..anche quando ogni tanto gli occhi si velano di lacrime..







Giorni di prime volte....la prima volta in Guest House, sorta di piccoli affitta camere che qui trovi praticamente in ogni villaggio. La prima colazione alla tanzaniana, con un tazzone di thè alla cannella e muhogo, (la kasawa o patata dolce) tagliata a pezzi e fritta nell’olio che ti fa sentire sazio fino a sera. E il the allo zenzero fortissimo alla sera. E la frequentazione dei baretti-baracchini-locande sulla strada, dove puoi trovare riso con carne e fagioli, servito in piatti di latta che hanno tanti scomparti diversi per le diverse componenti del pranzo, e pesce fritto, e le immancabili chipsy – patatine fritte, che qui trovi ovunque e che ti vengono spesso portate “da asporto” dentro sacchietti di plastica nera..e ugali, la polenta bianca, e banane in tutte le salse, bollite, grigliate, servite con insalata di pomodori, in zuppa con la carne, con i fagioli... E le cameriere che ti portano una brocca d’acqua per lavarti le mani perchè poi si mangia con quelle, appallottolando il riso o l’ugali e intingendolo dentro le salse. E masai che sbucano da tutti gli angoli, vestiti con i tradizionali teli, i bastoni, i lobi delle orecchie forati che ci puoi fare passare dentro tre dita per i pesanti orecchini che portano, e sgommano via in moto..si sono modernizzati pure loro..
E Peace che la sera, quando siamo a cena, al calare della notte, piano piano mi spiega usi e costumi di questo paese e del suo popolo, mentre mi racconta di casa sua (lei non è originaria di Bagamoyo, ma della zona nord ovest al confine con il Rwanda), delle ricette tipiche, delle differenze che trovi spostandoti di pochi chilometri.








E i paesaggi..spazi immensi, brulli, alberi che sanno di Africa, proprio quelli che vedevo nei documentari da bambina quando sognavo di visitarla quest’Africa cosi lontana..e case di fango e case di cemento con i porticati, e greggi di capre e palme, e poi di nuovo terra brulla, baobab e nuvole.

Devo ancora trovare una definizione soddisfaciente di inculturazione. Per me adesso è anche questo.


Valentina Codeluppi, SVE Bagamoyo

lunedì 9 settembre 2013

Kazi njema!!





Eccomi qui, secondo giorno a Bagamoyo. É cosi strano. Ci sono momenti in cui mi sembra di sentire un non so che di familiare, di quotidianità. Altri in cui mi ricordo dove sono, e quanto è distante casa.
Sono già stata in ufficio CVM. In questi giorni è quasi vuoto perché tanti colleghi sono in field. E allora oggi, in un attimo di tempo, sono andata al mercato. Prima volta. Anche in Madagascar, il mio “battesimo del fuoco” era cominciato dal mercato. Ci sono andata con Situmai, la cuoca dell’ufficio. Lei non parla una parola di inglese, io ne so a mala pena due di swahili. Una coppia perfetta. Sono partita con una lista della spesa tradotta in swahili da Daniela. Ad ogni banchetto mostravo la lista alla mia fida accompagnatrice, lei chiedeva e mercanteggiava, poi mi scriveva i prezzi sul foglio – cosi riesco a imparare più o meno il valore delle cose – e poi pagavo. Pomodori, cetrioli, carote, arance, latte e yogurt che qui vendono in sacchetti di plastica come quelli delle mozzarelle. Ecco la spesa. Ho passato due ore cosi. Ascoltare, guardare, senza capire nulla o quasi, seguirla nell’intricato garbuglio delle stradine di Bagamoyo. Stradine di sabbia, polvere che la gente spazza agli angoli delle porte, polvere che ti entra negli occhi in questo periodo di vento, strade che sanno di spezie e di carbone bruciato. E botteghe da cui esce la musica, e macellerie dove i pezzi di carne stanno appesi ai chiodi nei muri di piastrelle celesti. Immagini e sensazioni che mi riportano al Madagascar. E nello stesso tempo qualcosa di sempre nuovo, di sempre diverso, che mi àncora stretta a questo presente e mi stupisce e un po’ mi spaventa. E mi lascia addosso un po’ di quella paura eccitata che si prova sempre davanti a quello che non si conosce. C’è odore di salsedine nell’aria. Forse è solo una mia suggestione, ma sento la vicinanza dal mare qui, e quel caldo umido tipico solo dei posti vicino all’acqua. E poi la donne velate che ondeggiano per le strade, bellissime nei loro veli multicolori che incorniciano i visi e proteggono dalla polvere. E poi i piki piki, le moto taxi che vedo qui per la prima volta. Per tornare in ufficio ne abbiamo presa una. In tre su una moto. Io aggrappata all’autista con i sacchetti della spesa. Situmai aggrappata a me con i suoi sacchetti.

I viaggi mi portano sempre a pensare. Anche quelli scomodi e brevi come questo. Mentre rischiavo di perdere pomodori dalle buste di plastica nera. Penso ai mesi che mi aspettano. Se saprò vivere appieno questo tempo e questa opportunità. Una delle poche espressioni che ho imparato (e che ricordo) ieri insegnatami da un collega è “Kazi njema”=“buon lavoro”. Mi auguro che non sia solo un’affermazione ma un augurio e un invito per i prossimi mesi.

Valentina Codeluppi (SVE Bagamoyo, Tanzania)

martedì 3 settembre 2013

Storie di bottiglie dal Sud Sudan

Sono una bottiglia di plastica, bella alta, trasparente, pulita. Sto in un frigorifero pieno di cose da mangiare, pomodori, insalata, olive, yogurt, di tanti colori diversi, dei pezzi che sembrano fatti di latte ma duri, altre scatole colorate che non so cosa contengano. Ognitanto la signora che mi ha portato qui mi prende, mi toglie il tappo (lei non lo sa ma a me da un po’ fastidio) appoggia le labbra, rosse, turgide, morbide, beve l’acqua dentro di me a grandi sorsi, con forza decisione, quasi disperata. Molto spesso e’ vestita in maniera sportiva, quando arriva e’ ancora sudata, parla in quel coso nero che appoggia all’orecchio, chissa’ con chi. Parla di liti, gelosia, conflitti, si sente sola. Mi sa che lo e’, io la vedo poco ma e’ sempre di corsa, sempre stressata, mai una parola dolce, non l’ho mai sentita sussurrare, grida sempre, chissa perche. Io sto bene, non mi lamento, sai, sono nata alla periferia di Roma, ero blu, mi hanno portato da Roma in Umbria, riempito di acqua, gas e pure messo un’etichetta colorata che mi ha fatto il solletico. Dopodiche’ mi hanno chiuso in un camion al buio e fatto viaggiare per un giorno intero, quando ho rivisto la luce ero a fianco di tante altre bottiglie come me in un posto luccicante e luminoso. La signora che mi ha comprato mi ha scleto perche dice che anche se costo un po’di piu’ le faccio fare tanta plim plim chissa’ cosa significa costare...chissa’cos’e questa plim plim






Sono una bottiglia di plastica, piccolina, ammaccata, con qualche graffio ee l’etichetta strappata. Sono nella tasca di una giacca, il signore che mi ha comprato mi prende in mano di tanto in tanto, mi toglie il tappo e beve piano piano. Parla con un signore dalla pelle del colore della sua, diceh che oggi ha venduto poco, per strada, solo 5 accendini e 2 pacchetti di fazzoletti, e’ un po’ preoccupato, fra 3 settimane inizia la scuola e lui deve pagare le tasse, gli zaini nuovi, il libri e tutta la cancelleria per mandare 3 dei 5 figli a scuola. E’ molto magro, attraverso la giacca posso sentire le sue costole, parla in modo strano, diverso dagli operai della fabbrica dove sono nata, dice che se continua cosi se ne va in Francia, dove un suo cugino ha una pizzeria alla periferia di Parigi. Non sembra contento, dice che in un posto chiamato Damasco era ingegnere in una piccola fabbrica ma che da ormai una anno e’ in Italia e si “arrangia” chissa cosa vuol dire arrangiarsi, non sembra contento, non dev’essere una bella cosa. Lui si ne ha fatta di strada, dalla Turchia attraverso i Balcani e poi in Albania, che viaggio! Dice che cosi almeno i suoi figli sono al sicuro anche se gli e’ costato i risparmi di 20 anni di lavoro.
Sono una bottiglia di plastica, non ricordo bene, ma credo di essere nata in Kenya, o in Uganda, appena nata, dopo 3 giorni di viaggio mi hanno portato in un negozio polveroso, ero esposta su uno scaffale in un negozio davanti alla moschea, il posto si chiama Pariang, dicono che sia da qualche parte in uno stato nuovo, che si chiama Sud Sudan. Un uomo con la pancia, la giacca e la cravatta che la gente chiama onorevole mi ha comprata. Avidamentem mi ha afferrata e ha bevuto quasi la meta’ dell’acqua che avevo dentro. Mi teneva stretta, con le sue mani grandi, lunghe e sudate. Siamo andati in uno spiazzo pieno di tende bianche che chiamano campo rifugiati, e’ sceso dal fuoristrada bianco, ha dato un ultimo sorso alla poca acqua rimasta, si e’ asciugato con le mani la bocca grande e ha orgogliosamente detto: “Facciamo in fretta che ho fame”. Ha fatto un giro nel campo rifugiati, una distesa marrone e verde, allagata per le piogge degli ultimi 2 mesi, con migliaia di uomini donne e bambini, dicono che sono stranieri ma e me sembrano uguali agli altri. Dopo che il signore alto mi ha gettato per terra sono stata raccolta da una bambina, avra’ 4 o 5 anni, piccolina, magra, scalza,fango fino alle ginocchia e delle meravigliose treccine chiuse in elastici gialli, rosa, rossi e azzurri. Quando mi ha visto il suo viso si e’ aperto in un grande sorriso bianco, grindando:”crystal!” felicissima mi ha preso in mano come nessuno aveva mai fatto, con affetto, sorpresa e devozione. Mi ha preso, portata ad un rubinetto e mi ha riempito d’acqua contentissima ha appoggiato le sue labbra sottile ed un po’screpolate, poi mi ha passata ad una sua amica anche lei lunga magra e dai vestiti sporchi e stracciati. Con me in mano mi sembrano felici, giocano, guardano dentro, mi accarezzano, mi sento amata e venerata come un oggetto nuovo e speciale, nessuno mi aveva mai fatto sentire cosi prima, voglio bene a queste bimbe che mi hanno accolto e amato.





Sono una bottiglia di plastica, e’ ancora buio, non vedo l’ora che finisca questa notte, fa freddo, ieri sera un tipo pallido, con la barba, che guidava una macchina bianca mi ha gettato dalla sua auto in corsa, puzzava di birra. Ora sono qui, sulla rossa terra del Sud Sudan, sono a Wau, stanotte ha anche piovuto, e a pochi metri da me vedevo delle sagome scure appoggiate al muro, sembravano dei sacchi neri, nel buio mi sono addormentata ma ad un certo punto ho sentito delle voci, i sacchi neri hanno iniziato a prendere vita, a parlare a salutarsi, a stiracchiarsi, sorridere e scherzare. Piano piano, nel buio della notte di Wau hanno iniziato a raccogliere pezzi di carta, legno e plastica, li hanno messi insieme e hanno acceso un fuoco, erano in 5 o 6 intirizziti dal freddo e dalla pioggia torrenziale di questa notte equatoriale. Sono tutti ragazzi, alti magri, hanno cicatrici e ferite, i loro occhi a volte quardano in direzioni diverse, i capelli sono secchi, ispidi e impolverati. Alle prime luci del mattino un ragazzetto dallo sguardo vispo mi ha visto e gridando mi ha afferrato ridendo e prendendo in giro gli altri. Dopo circa mezz’ora che mi teneva in mano mi ha versato dentro una sostanza bianca, appiccicosa, densa e dall’odore pungente e penetrante. A me non piace questa sensazione, sono abituata ad avere acqua pura dentro di me, invece questo bimbo dispettoso mi ha messo dentro una cosa che lui chiama “colla” chissa cosa sara’. Sono le prime luci dell’alba, il sole sorge dietro le colline di Wau, arancione sopra i manghi, gli uccelli si alzano in volo, neri contro il cielo rosato dell’alba, il bimbo toglie il tappo, appoggia le labbra e aspira l’aria mista a colla che penetra nei suoi polmoni ed arriva dritta al cervello. Un avvoltoio gracchia e scava fra la spazzatura mentre il fuoco acceso dai bimbi continua ad esalare odore di plastica, poverta’ ed ingiustizia.






E’ mezzogiorno, il bimbo aspira, due, tre, quattro volte; il sole, brillante, e’ alto nel cielo ormai ma gli oggi del bimbo si socchiudono ed il suo cervello si spegne come la luce del sole al tramonto. Il bimbo, spossato e spento, si siede per terra, stordito e sonnolento, dimenticando la fame ed il dolore, come una luna stanca e sporca.


Stefano Battain,
Sud Sudan 

lunedì 26 agosto 2013

La luna e il Ramadan

Silenzio…trattengo il fiato, ho gli occhi chiusi, non vedo…sento i polmoni gonfi...tutto è ovattato sott’acqua. Silenzio...questo liquido fresco mi scivola lungo il corpo provocandomi brividi alla schiena. Silenzio...trattengo il fiato...è buio. Emergo in superficie...respiro...i polmoni si aprono di nuovo. La cassa toracica si espande per raccogliere più ossigeno possibile. Appena emerso, l’acqua mi cola ai lati della testa, lasciando i capelli piatti e bagnati, aderenti, come una medusa sul mio cranio, una medusa che scende lungo il collo accarezzando la mia pelle. Apro gli occhi, è quasi notte, il sole è tramontato da un po’, la luna, un sorriso bianco e luminoso, distesa come a riposarsi su tappeto nero punteggiato di stelle. La luna distesa a riposarsi, come molti musulmani a quell’ora, stesi su stuoie ed intenti a mangiare l’ iftar (o futari nella versione tanzaniana), il pasto che rompe il digiuno.

Guardo la luna, la luna di Bagamoyo, nuoto nell’acqua già fresca della sera, sono solo, c’è silenzio, questo bagno mi ha tonificato, è strano fare il bagno di notte ma mi piace. In questo periodo dell’anno oltre un milione di persone sulla terra celebrano il loro mese sacro, il ramadan. Un po’ meno di un mese, circa 28 giorni, i più importanti dell’anno per i musulmani. Un periodo dedicato a Dio, alla preghiera, al raccoglimento, alla rinuncia, anzi alle rinunce, come prescrive il Corano.
Si associa spesso il ramadan al digiuno, ma il digiuno è solo uno degli aspetti di questo importantissimo periodo spirituale. L’intera esperienza del ramadan è molto più complessa di quanto generalmente si pensi. Seguire le prescrizioni coraniche è importante tutto l’anno per chi è fedele, ma lo diventa a maggior ragione in questo periodo dell’anno. Succede infatti che anche i musulmani “tiepidi”, ovvero coloro che non sempre seguono alla lettera le regole religiose: lasciandosi anche andare a qualche birra il sabato, un po’di carne di maiale di tanto in tanto, spesso in questo periodo diventano molto più osservanti. Rinunciano completamente a tutte le tentazioni, anche se poi spesso vengono ripresei mmediatamente dopo la tanto attesa fine del ramadan.



Bianchi come la luna, bisogna essere, durante il ramdam. L’anima pura, candida, non infuocata dalle passioni, nemmeno dalle “passioni matrimoniali”, nemmeno pensieri o sogni infuocati. Durante il ramadan bisogna sopire queste fiamme e lasciare spazio alla pace, alla tranquilla, alla purificazione al lavaggio interiore. La “penitenza” per chi si lascia infiammare dalle passioni carnali e’ assai severa (o costosa): digiunare per lteriori 60 giorni, oppure comprare un pasto medio per 60 persone povere. Un lavaggio e un ciclico svuotarsi e riempirsi quotidiano, come fa la luna durante un ramadan che si riempie e si svuota, cosi fanno i fedeli. Niente cibo e bevande per l’intera giornata per poi riempirsi a tempo dovuto e con i modi prescritti.
Ma c’e’ anche chi puo’ mangiare e bere in maniera normale: i bimbi, le donne in dolce attesa, gli anziani ammalati, le persone sieropositive e tutti gli ammalati gravi in generale ma anche due categorie assai particolari, e a volte sovrapposte: i viaggiatori e i matti.

Vivere in un luogo a larga maggioranza musulmana durante il periodo del ramadan è un’esperienza da provare, a Bagamoyo, in Tanzania, per esempio, tutto rallenta, ulteriormente. Il traffico diminuisce, ci sono meno persone in bar e ristoranti ma anche negli uffici. Nei villaggi più rurali si formano capannelli di persone sdraiate su stuoie per lunghissime ore all’ombra di qualche mango, alla domanda: ”Cosa fate?” la risposta è candidamente: “Tunafunga” (Digiuniamo), noi occidentali, cresciuti a pane, efficienza e produttivismo, facciamo fatica a capire come il “non fare niente”, il “digiunare” possa essere un’attività. In realtà, il concetto di ramadan è assolutamente affascinante, rallentare il ritmo della nostra vita, delle nostre attivitià, eliminare le attività di distrazione per concentrarsi sulla spiritualità, sull’interiorità, sulla preghiera, sull’introspezione, sulla riflessione, sul migliorarsi. 



Il ramadan in Tanzania sa di lampade a nafta che illuminano i volti nel buio della notte equatoriale, sa di cassava bollita in salsa di cocco, di spaghetti stracotti e dolci, sa di fagioli, odora di uji (farina cucinata con acqua e spezie da qui si ricava una bevanda liquida ma densa) che rompe il digiuno, il ramadan a Bagamoyo ha il rumore delle moto cinesi che passano e di quelle che si riaccendono dopo che i loro guidatori si sono rifocillati, ma anche quello dei bambini che per tutto il ramadan girano per le strade con dei tamburi improvvisati a cantare. Il ramadan ha ovviamente anche il rumore del muezzin che chiama alla preghiera nella moschea. Il ramadan è una famiglia felice che mangia insieme su una stuoia punteggiata di stelle e la luna sopra la testa. Il ramadan non segue il calendario occidentale, per questo inizia circa una settimana solare prima ogni anno. Il ramadan segue la luna, si inizia con una lamina sottile di luna che cresce fino ad essere piena, questo segna la metà del ramadan, la luna con la pancia piena ed i fedeli intenti a riempirsela prima di iniziare il digiuno del giorno dopo. Poi la luna di svuota lentamente, giorno dopo giorno, per scomparire brevemente prima della grande festa finale di eid-al-fitr.Un tripudio di vestiti nuovi, piccoli giocattoli, pasti in famiglia e passeggiate in spiaggia, avanti ed indietro in spiaggia finchè lei, la signora luna, elegante regolatrice della vita spirituale musulmana, ricompare, bianca e sottile sopra l’oceano all’imbrunire, stiracchiandosi sulla sua immensa stuoia stellata.




Stefano Battain
Bagamoyo, Tanzania



lunedì 5 agosto 2013

L'Africa è in movimento e ha il cellulare in mano

L’ Africa è in movimento, in Africa le persone sono in movimento, in Africa i soldi sono in movimento. 

Ormai, ogni compagnia telefonica ha un suo nome: M-pesa, Tigo pesa, Airtel Money, Ezy Pesa, ed un suo colore: rosso Vodacom, blu Tigo, rosso Airtel e nero-verde Zantel. In Tanzania, in pochi anni sono proliferati centiaia di cartelli colorati in ogni villaggio, quartiere e cittá. I cartelli segnalano che da quel negozio è possibile inviare e ricevere denaro in tempo reale e a costo zero.

Le compagnie usano nomi diversi, ma sono tutti sinonimi dello stesso fenomeno dilagante: il trasferimento di denaro in tempo reale attraverso la rete telefonica (ed utilizzando la tecnologia telefonica). Le somme possono variare da pochi euro fino a centinaia di euro, il motivo per inviarli può essere semplice come pagare il taxi o più importante come mandare i soldi per pagare le tasse al figlio che studia a mille chilometri di distanza, il tutto in pochi secondi e da ogni punto di invio-ricezione di denaro. Il figlio dall’altro capo del paese, dopo pochi secondi puo’ recarsi in un qualsiasi punto di invio-ricezione e ritirare il contate per pagare le tasse.



In Tanzania, le banche sono poche, spesso lontante 3-4 ore di autobus sovraffollati, spesso con 2 filiali che servono un bacino di clienti di 200-300 mila persone o più. Le banche, in Tanzania, sono costose e molto spesso inefficienti mentre i punti di invio-ricezione sono centinaia di migliaia, aperti spesso dalla mattina presto fino alla sera, senza le file che spesso si incontrano in banca e molto più amichevoli per il cliente.

Inoltre, la banca è spesso fonte di paura e diffidenza, questo luogo freddo e distaccato, dove un bancario, spesso stressato, scortese e con scarso spirito di servizio ti parla dall’altra parte del vetro, suscita reverenza e timore. Per molta gente delle zone rurali, recarsi in banca è estremamente difficile e complicato. Al contrario, andare ed inviare o ricevere i soldi in un semplice negozio, accolti da un addetto vestito come gli stessi clienti, magari in ciabatte e maglietta, rende l’esperienza molto più piacevole.

Il servizio è interamente gratuito se il numero è registrato ed abilitato ad accedere al servizio (a basso costo se il numero non e’ registrato), un’ operazione molto semplice, che richiede pochi secondi e può essere eseguita in uno dei migliaia di punti di invio di denaro, spesso semplici stanze disadorne con un cellulare ed una cassettina per i soldi. Gli addetti devono solamente saper contare i soldi e saper usare un cellulare, cosa che al giorno d’oggi, anche in Africa, tutti sanno fare, perciò la formazione degli addetti è molto breve. Il servizio è semplice, efficiente e funziona con qualsiasi tipo di cellulare.

Oltre all’incredibile diffusione e udo dei telefoni cellulari, altri motivi che spiegano il successo del trasferimento di contanti via rete telefonica sono: la struttura delle famiglie africane, il concetto di famiglia allargata e le condizioni di vita in questo continente imprevedibile. Le famiglie sono numerose, spesso formate da mamma, papa’ e 5,6 o anche piu’ figli, ai quali, si aggiungono nonni, zii, zie e figli o nipoti “adottati” in maniera informale. Succede spesso che una famiglia abbiente prenda sotto la sua responsabilità i figli dei parenti più poveri oppure veri e propri orfani, che sono tanti, viste le morti premature causate dall’ AIDS, la malaria, altre malattie letali e servizi sanitari poveri ed inadeguati.

Inoltre, la famiglia allargata in Tanzania, e’ anche mobile, per motivi di studio e di lavoro, i tanzaniani si trasferiscono e viaggiano molto frequentemente, capita spesso di sentire di persone che hanno frequentato le scuole elementari al nord, le superiori nella capitale e che hanno avuto il primo impiego nell’ovest del paese per poi trasferirsi altre 2 o 3 volte nel giro di pochi anni. Questa alta mobilita’ e legami famigliari estesi in un ambiente imprevedibile e difficile, come quello africano, rendono ancora più importante avere accesso continuo ad informazioni e denaro contante, attraverso il cellulare e ai servizi di “denaro-mobile”.

Il trasferimento in tempo reale di denaro e’ solo il primo, piu’ comune e semplice dei servizi offerti. Ormai le compagnie telefoniche offrono veri e propri conti bancari virtuali dove accumulare contanti e con cui pagare bollette dell’elettricita’, dell’acqua o dei canali televisivi a pagamento. L’Africa e’in movimento, ed ha il cellulare in mano.

Stefano Battain
Independent International Development consultant
Bagamoyo, Tanzania

mercoledì 10 luglio 2013

Obama e lo spettacolo africano

«Tutta la vita delle società nelle quali predominano le condizioni moderne di produzione si presenta come un'immensa accumulazione di spettacoli» (La società dello spettacolo, Guy Debord, 1967)



Sei giorni, 144 ore di diretta, uno spettacolo da record, la settimana scorsa abbiamo assistito ad uno spettacolo globale, andato in onda su radio, TV, giornali e internet, miliardi gli spettatori. Il viaggio di Obama in Africa è stato uno spettacolo scintillante. Lo so, tutti hanno scritto qualcosa sul viaggio di Obama e in questo sono complice dichiarato e consapevole del meccanismo che ruota intorno al Presidente degli Stati Uniti. A mia discolpa posso dire che Obama è passato davvero vicino a dove vivo al momento, circa 70 chilometri, quindi la “febbre Obama” ha colpito anche la Tanzania.
Perchè sostengo che tutto è spettacolo? Perchè quello che ci fanno vedere è il primo afro-americano eletto Presidente degli Stati Uniti in visita in Africa, terra d’origine del papà*.
Quello che si sa sono quanti aerei hanno accompagnato il presidente, con tanto di auto portate dagli Stati Uniti, ogni giorno prime pagine e pagine interne tappezzate di foto di Obama e famiglia, che accarezzano e tengono in braccio bambini e palleggiano con palloni da calico futuristici in grado di accumlare energia e ricaricare un telefonino. A che il presidente Tanzaniano Kikwete partecipa allo show, versando qualche lacrima di contentezza nel momento dei saluti al pari grado Americano. Lacrime prontamente immortalate e pubblicate sul quotidiano più vicino al partito del presidente: Jambo Leo.


Sicuramente quello di Obama non è turismo di lusso, ma un viaggio d’affari mascherato con alcuni eventi sociali come la visita a Robben Island, luogo di prigionia di Mandela, o al cimitero delle vittime dell’attentato all’ambasciata Americana in Tanzania nel 1998. Due-tre ore al giorno della famiglia Obama riempono ogni spazio su radio, TV e giornali, i momenti che contano, ovvero gli accordi, le trattative, portate avanti dal suo “team”scompaiono nel silenzio assoluto e sfuggono all’analisi di tutti i media, braccia complici di un sistema raffinato fatto per spettacolarizzare, distrarre e manipolare.


Quello che non vediamo è un presidente statunitense che va in Africa per promuovere le multinazionali americane e, con i suoi soldi e mezzi, con la sua retorica brillante e credibilità, nonchè con l’aura mediatica ed il fascino del primo president afro-americano. Quello che non sappaimo è che l’intera visita è stata organizzata nei minimi dettagli dal governo Tanzaniano che si è assicurato di distribuire magliette, cappellini e bandierine (ma forse anche cibo e soldi) e disporre ad arte centinaia di persone lungo il percorso del presidente Americano. Quello che non vediamo è che per accogliere un presidente straniero sono stati piazzati in tutta Dar es Salaam centinaia manifesti enormi con la foto di Obama e la scritta Karibu, “benvenuto”. Quello di cui non si parla sono i soldi spesi per pulire la strade dove sarebbe passato il presidente Americano. Quello che i media non dicono è che centinaia di venditori ambulanti di strada, chiamati “marching guys”  (ragazzi che marciano) hanno perso 3 giorni di lavoro perchè è stato loro vietato di svolgere la propria attività nelle aree della città dove si trovava Obama. I marching guys guadagnano circa 2-3 euro al giorno, perciò perdere una giornata di lavoro significa per loro non mangiare. Quello che non viene detto è che molti negozi sono stati chiusi forzatamente per dare al presidente Americano un’apparenza di ordine e pulizia. Quello che non si sa è che decine di mendicanti sono stati “arrestati temporaneamente” per la durata del soggiorno di Obama per evitare che fossero in giro per la città a chiedere l’elemosina. In un paese che non ha soldi per pagare dottori, infermiere, insegnati o per comprare le medicine negli ospedali o i libri nelle scuole per i propri cittadini questo spreco di fondi pubblici e mezzi è inconcepibile e raccapricciante.
Lo show della visita di Obama in Africa è una spessa cortina di fumo che porta a non parlare delle vere ragioni del suo viaggio che sono le stesse di qualsiasi capo di stato in visita all’estero: promuovere gli interessi del proprio paese in Africa. Certo, ci sono gli aiuti allo sviluppo ma nessun governo è altruista, specialmente di questi tempi, per ogni dollaro investito in Africa ne devono tornare almeno 2, 5, 10 o più sotto altre forme; è un colonialismo raffinato, sottile, invisibile ma deleterio, oscuro e oppressivo. Il viaggio di Obama in Africa è costato circa 100 milioni di dollari, un simile investimento sommato agli aiuti umanitari provenienti dagli USA è accettabile solo se risulta in un vantaggio economico alla nazione Americana  superiore alla cifra investita.
Aveva ragione Guy Debord, me ne rendo sempre più conto, soprattutto quando mi trovo ad assistere, a consumare, eventi come quello della visita di Obama in Africa. Credo fermamente che tutto ciò che viene trasmesso dai media sia spettacolo, di conseguenza credo anche che quello che vediamo e sentiamo non sia la realtà. Putroppo di questa seconda parte della frase, non sempre ce ne rendiamo totalmente conto.
Una volta si commerciavano collanine, vetri colorati o manufatti privi di valore in cambio di avorio, pietre preziose, minerali o uomini, ora si baratta qualche miliardo di aiuti in cambio di politiche favorevoli agli Stati Uniti, trattati commerciali che portano vantaggi alle elite ma che derubano della sovranità il popolo, il quale non ha nessun controllo (tranne le elezioni ogni 5 anni, ma anche su questo ci sarebbe poi molto da dire) sulle proprie risorse naturali. Per prima, la terra, con migliaia di pastori masai sfrattati per far posto agli emiri arabi, ma anche i contadini sfrattati, per produrre carburante, zucchero ed energia. I tanzaniani non hano controllo nemmeno su altre risorse come l’acqua o il gas naturale prelevato a Mtwara, nel sud, e portato a Dar es Salaam senza una minima ricaduta di sviluppo sulle popolazioni locali; oppure sull’uranio per cui si sta costruendo una strada che da Songea lo porterà verso l’Oceano e verso la Cina o l’Australia, seguendo quelle stesse rotte che un volta portavano gli schiavi al mare. Poco controllo del popolo anche sui minerali, come l’oro, estratto nella regione di Mara, dove le miniere di proprietà della compagnia canadese Barrick inquinano ruscelli e fiumi e uccidono persone e animali. Al commercio di minerali seguiranno gli uomini, obbigati a lasciare le campagne dove le condizioni di vita non permettono né le loro attività tradizionali nè nuove attività lavorative. I giovani, dalle campagne si riversano nelle città, naufraghi urbani delle sviluppo al servizio di un nuovo sfruttamento come parcheggiattori, donne di servizio, prostitute oppure spazzini per tenere pulite le strade dove passerà Obama.
Gli interessi ed il benessere superfluo degli americani, europei e asiatici sono un capestro che pesa sull’Africa, a sua volta dominata da un’elite politico-economica di poche famiglie ricche e potenti. Un’ elite che vive sfruttando in maniera parassitica una massa di naufraghi dello sviluppo, una massa di esclusi che sopravvivono guidando pulmini 14 ore al giorno, zappando le terre residue e meno fertili, friggendo patatine o qualsiasi cosa i loro vicini di casa siano in grado di comprare per qualche manciata di centesimi di euro. Quella tanzaniana è un’economia soffocata, sbilanciata, controversa, dove coesistono nuovi centri commerciali luccicanti, potenti auto di lusso e capanne di fango, spianate di immondizia, fogne puzzolenti e miseria umana.
La spogliazione dell’Africa è reale ed in continuo aumento, ma non cadiamo nell’errore di considerare gli africani dei sempliciotti, sprovveduti e sostanzialmente ingenui. I governi europei riescono a mietere alti profitti e firmare contratti a loro vantaggio perchè c’è una classe politica corrotta ed un’elite economica autoctona avida che permette anzi, incoraggia tutto questo. L’elite Africana si ingrassa e si rinforza attraverso questo meccanismo di scambio reciproco di favori con le controparti europee, americane ed asiatiche. A perdere, sempre gli stessi, gli ultimi, gli emarginati, i naufraghi di questo sviluppo che affama ed asseta invece che sfamare e dissetare.

* Barak Obama Senior: il padre del presidente Americano era un economista kenyano (tribù Luo) che ebbe un matrimonio di 3 anni con la mamma di Barack Hussein ma che non ha quasi mai vissuto con il figlio. Il padre è morto in Kenya, per un incidente stradale nel 1982, povero e malato, dopo essere stato marginalizzato anche a causa di divergenze politiche col Presidente keniano Jomo Kenyatta.

 Stefano Battain 
Independent International Development consultant
Bagamoyo, Tanzania



martedì 28 maggio 2013

MONDI SOMMERSI

Il mare è silenzioso e luccicante, il ritmo, lento e placido delle onde segue il ritmo del respiro, la brezza marina, la sabbia sotto i piedi, una distesa di sabbia bianchissima, la baia di Bagamoyo, a sinistra l’oceano, increspato e luccicante, a destra colline verdi, palme lunghissime, esili, con il loro verde fuoco d’artificio accarezzato dal vento. 



Piedi nell’acqua, tiepida in questa domenica mattina, ciabatte in mano, saliamo in barca, si ondeggia, il motore si accende e lentamente la barca dirige la prua verso la barriera coralline, siamo con Christian, francese che parla un inglese stentato e farraginoso ma dall’animo gentile, sorridente e molto dolce. 



Le prime spiegazioni sull’uso dell’attrezzatura per le immersione, alcuni esercizi su come respirare sott’acqua con boccaglio bombole e maschera. Siamo un po’imbranati inizialmente ma poi respirare sott’acqua, recuperare il tubo dell’ossigeno e svolgere le prime operazioni sott’acqua diventa pian piano più naturale. Christian è il nostro istruttore di sub, poco oltre la quarantina, ex dirigente di una compagnia di trasporti, appassionato di subacquea, ha mollato lavoro, figli e famiglia in Francia 2 mesi fa per venire in riva all’Oceano Indiano ad insegnare sub, sta seguendo la sua passione e al momento sembra molto felice nonostante le barriere linguistiche e la lontananza della famiglia. 



Dopo i primi esercizi risaliamo a bordo della barca, dove Muhamad e Omari, il capitano e il suo aiutante, ci attendono sonnecchiando. Insieme a loro mangiamo un panino, una banana e beviamo un po’ d’acqua, sullo sfondo una splendida isoletta di sabbia bianca emerge nel bel mezzo dell’acqua azzurra e limpida. Scendiamo di nuovo in acqua, questa volta in esplorazione, pochi metri sotto il pelo dell’acqua ci si apre un mondo nuovo davanti: I fondali rivestiti di coralli Verdi, gialli, rossi blu, spessi oppure estesi e cespugliosi come alberi sottomarini, le lunghe e affusolate stele marine, pesci ovunque gialli, blu, arancioni, bianchi, il pesce leone con decine di buffe pinne colorate, i ricci di mare, neri ed immobile…laggiù da solo, nel silenzio del mare penso che tutto ciò è in pericolo.



Pochi chilometri più a Sud, c’è il villaggio di Mbegani, un tranquillo villaggio di pescatori a 15 chilometri da Bagamoyo, ex-capitale dell’Africa Orientale coloniale tedesca, cittadina sulla costa del’Oceano Indiana caduta in disgrazia proprio per lo spostamento dei flussi commerciali a Dar es Salaam a causa della scarsa profondità della baia di Bagamoyo che non permette il traffici di navi pesanti. Ora con un mix di tecnologia moderna ed investimenti infrastutturali private e pubblici il governo tanzaniano sta cercando di creare un nuovo porto per favorire il commercio in Tanzania ma anche fra Tanzania e stati confinanti come Rwanda, Uganda, Burundi, Congo orientale, Malawi e Zambia i quali non hanno accesso diretto al mare.
Il porto è solo una tessera di un puzzle di sviluppo infrastrutturale ed economico, chiamato Special Economic Zone (SEZ – Zona Economica Speciale) ed Export Processing Zone ( Zona processazione esportazioni). 



Il progetto è gestito dalla apposite autorità: Export Processing Zone Authority e comprende una prima fase che prevede la realizzazione di un mega parco industriale (investimento necessario circa 92 milioni di euro per le infrastutture). Il parco industriale è già in via di realizzazione e si chiama Kamal Industrial Estate, una ditta multinazionale, a capitale indiano e tanzaniano, la prima a gestione interamente privatizzata senza controllo del governo, una zona franca di 297 acri, quasi 150 campi da calcio, 3 volte l’estensione di Città del Vaticano. Una Zone Economica Speciale è una zona dove imprese posso produrre a regime fiscale agevolato (o addirittura esentasse) e a burocrazia semplificata per accorciare tempi di start-up e facilitare gestione amministrativa. Ben 227 nuclei famigliari, 1300 persone sono stati affetti dall’esproprio della terra e sono stati compensati, con una media di 1.321 euro a famiglia per la perdita dei terreni, case, eventuali attività economiche e spostarsi in un’altra zona.
La fase due invece è più complessa e prevede:
  1. Un porto: 7,6 milioni dalla Cina per la costruzione di uno dei più grandi porti in Africa entro il 2017. Solo una piccolo percentuale dell’investimento necessario a portare avanti la realizzazione di questo immenso ed ambizioso processo di sviluppo. Il porto progettato avrà 2 moli per l’attracco delle navi per un totale di circa 3-400 metri di ormeggio disponibili, profondità di circa 13-4 metri, capace di muovere 20 milioni di container all’anno.
  2. Una zona processazione per l’import-export, investimento necessario 70 milioni di euro.
  3. Una zona di commercio franca, ovvero esentasse investimento necessario 54 milioni di euro.
  4. 2 villaggi turistici, investimento richiesto circa 54 milioni di euro, che includono hotel, appartamenti residenziali e un campo da golf ma anche un ospedale e scuole.
  5. Un parco scientifico e tecnologico, investimento necessario 39 milioni di euro. Una specie di cittadella per ospitare sedi di società del settore servizi-tecnologia collegate ad università di  Dar es Salaam e università turche.
  6. Un centro affari e uffici per le compagnie operanti nella zona, investimento necessario: 54 milioni di euro
  7. Un aeroporto
Altri 2.000 acri sono stati già espropriati con compensazione approvata a gennaio 2013 con tanto di pubblicazione della lista dei 593 nuclei famigliari (circa 3.500 persone), per un totale di 560.000 euro, una media di soli 944 euro a testa.
A fine marzo, il governo cinese ha visitato Bagamoyo e promesso 7,5 milioni di dollari ma questi sono sono solo una parte dell’investimento necessario, il resto verrà da investitori privati. Il porto sarà sviluppato da ditte cinesi con un contratto chiamato BOT (Build Operate and Transfer, Costruire, Operare e Trasferire) che è un esempio di partnership privato-pubblico fortemente promossa da Banca mondiale e Agenzie delle Nazioni Unite come modello di finanziamento per opera pubbliche. In poche parole una privatizzazione a termine che permette alla ditta privata, in questo caso cinese, quindi fortemente controllata dal governo cinese,  di progettare, costruire, gestire a soprattutto di sfruttare gli introiti derivanti dal porto fino a quando l’investimento effettuato dale ditte cinesi non sarà completamente ripagato.
Questo tipo di contratto conferisce grande autonomia alla ditta private nella gestione del traffico portuale. Critici come Mr. Eke Mwaipopo e Mr.John Lubuva (consulenti privati in materia di sviluppo economico e pianificazione urbana nonchè funzionari governativi per oltre 30 anni) sostengono che questo potrebbe permettere a ditte poco etiche di commerciare illegalmente risorse naturali tanzaniane come legno, gas, uranio, tanzanite e altri minerali estratti dal suolo tanzaniano come già successo in passato durante la costruzione della TAZARA, la famosa ferrovia che collega il porto tanzaniano di Dar es Salaam con gli immensi giacimenti di rame dello Zambia. Secondo mr.Mwaipopo e Mr.Lubuva affidare la gestione di infrastrutture chiave come i porti a compagnie private è una pratica rischiosa che espone la Tanzania al rischio di saccheggio delle proprie risorse minerali e naturali. Inoltre, il gigante cinese potrebbe utilizzare il porto di Bagamoyo anche come punto d’appoggio logistico (rifornimenti e periodi di riposo) per le navi militari cinesi di stanza nell’Oceano Indiano, come sta già facendo nel porto pachistano di Gwadar. Il porto potrebbe anche essere usato come punto d’entrata facilitata per le merci cinesi e componenti per progetti cinesi nella regione approfittando del minore livello di controlli sul porto di Bagamoyo rispetto ad altri porti controllati dal governo tanzaniano.
Forti preoccupazioni ambientali sono state espresse da Mr.Daffa Direttore del Tanzania Coastal Management Partnership (Programma Gestione Costiera Tanzania, una organizzazione parastatale dedicata alla conservazione dell’ambiente costiero e marino tanzaniano) secondo il quale il porto è stato progettato in una zona definite ecologicamente sensibile. La zona in questione è una bassa laguna che ospita coralli, delfini, tartarughe, crostacei e pesci tropicali già fortemente minacciati dall’intenso sfruttamento ittico e turistico di quel tratto di Oceano Indiano. L’equilibrio della baia di Mbegani dove dovrebbe sorgere il porto è tanto delicata che TCMP in collaborazione con I gruppi di pescatori e le autorità locali ha creato 4 no take zones, ovvero dei piccolo “santuari” dove la variegata fauna marina può andare a riprodursi al riparo da pescatori e turisti. Inoltre, costruire un porto di simili dimensioni implicherebbe scavare dei canali nel fondale sabbioso per permettere alle navi di grandi di attraccare, avviare simili lavori solleverebbe enormi quantità di limo dal fondo marino che causerebbe il soffocamento dei coralli, un fenomeno conosciuto come silting una delle maggiori cause di distruzione della barriera corallina, assieme alla pesca con esplosivo, a strascico e inquinamento delle acque.La soluzione proposta da TCMP è l’ampliamento del porto di Dar es Salaam e Tanga, già sviluppati e situati in zone di costa meno delicate e meno ricche dal punto di vista faunistico.
Emergo dall’immersione, mi asciugo e mentre torniamo verso riva, un branco di delfini circonda la nostra barca ed inizia a nuotare al nostro fianco, le loro pinne grige tagliano il pelo dell’acqua, poi si immergono e scompaiono, animali meravigliosi ed intelligenti che si meritano tutta la stima ed il rispetto che leggo negli occhi di Muhamad e Omari mentre ci raccontano come i delfini sino capaci di portare in salvo i pescatori che affogano al largo, leggenda di mare o verità, non lo so, ma amo questi animali e questo ambiente meraviglioso. Questi mondi, sia quello sommerso che quello di superficie,sono in equilibrio delicato e precario che, nonostante la pressione di una popolazione crescente, ancora supportano specie rare e un ambiente incontaminato. Fa male pensare che tutto questo fra qualche anno potrebbe scomparire per inseguire un modello di sviluppo amico dei ricchi e dei potenti ma nemico dell’uomo, della natura e dell’ambiente. Mondi in equilibrio, ma sospesi.

Stefano Battain
Independent International Development Consultant
Bagamoyo, Tanzania