lunedì 30 agosto 2010

Le prigioni di Debre Markos


Da lontano non assomiglia neanche troppo ad un carcere, o almeno all’immagine che noi occidentali abbiamo di una prigione. Il muro di recinzione della struttura detentiva di Debre Markos non è molto alto e le torrette di guardia saranno un paio, non di più. La porta al mattino è praticamente sempre aperta e c’è un andirivieni di persone che sembra non bloccarsi mai. Niente filo spinato o spesse reti metalliche con spuntoni a bloccare possibili fughe, neanche un eccessivo dispiegamento di vigilanti con armi in pugno. Anzi, la maggior parte delle guardie non porta con sé le pistole, o le tiene ben nascoste. Solo dalle torrette spunta qualche militare con dei gran fucili, vecchi modelli ma vistosi.
All’interno del muro, da scoprire tra baracche, passaggi, porte, spazi aperti, tettoie, recinti in paglia e lamiera c’è un mondo che non ti aspetti, con gente che vive e lavora ammassata in una superficie che appare grande ma in realtà non lo è. Il carcere attualmente conta più di 1400 detenuti, di cui sole 46 donne, ma la struttura non è adatta a contenerne così tanti. Tra loro ci sono anche malati di mente. Sembra, tra l’altro, che prima ce ne fossero anche di più, ma sotto elezioni per raccogliere voti il governo avrebbe liberato diversi condannati. Gli ambienti in cui dormono e quelli in cui lavorano sono sovraffollati, pieni fino al soffitto e non è un modo di dire. Per terra non c’è spazio per mobili e oggetti personali o da lavoro, tutto è appeso in aria. Purtroppo per i detenuti non si può neanche ipotizzare un trasferimento in altre strutture di reclusione: qui la situazione è meglio che altrove. Quando davanti agli occhi hai quell’ammasso di gente in spazi angusti, però, non puoi non domandarti come facciano ad esserci carceri più affollate. Come potrebbe sopravvivere la gente? Lì, poi, nel pomeriggio la situazione peggiora pure: alle 10 ‘ora etiope’, le 16 ‘ora inglese’, la porta d’ingresso alla prigione si chiude definitivamente e con essa anche quelle delle strutture interne. La vita del carcere si ferma, i detenuti se ne devono stare rinchiusi nei loro dormitori, ammassati come bestie in uno spazio senz’aria, stipati come sardine.
Avendo sbirciato come le persone vivono fuori dalla prigione non si può veramente dire che la situazione dei reclusi sia invivibile e del tutto diversa da quella della gente comune. O meglio, per il nostro modo di pensare, di vivere e le norme che siamo abituati a rispettare lo è di sicuro. Ma molti, fuori dalla prigione, vivono in verità in condizioni simili, pessime e precarie, ma parecchio simili.
A controllar quella folla di detenuti ci sono 110 poliziotti, di cui 60 guardie effettive e 50 impiegati negli uffici. Di tutto il personale della prigione 16 sono donne, 6 vigilanti. Il lavoro delle forze dell’ordine è organizzato in turni di un’intera giornata: un giorno lavorano e uno si riposano. A quanto pare non sembrano esserci grandi problemi di ordine, qualche lite si accende ogni tanto ma viene facilmente sedata e, a quanto riferiscono le guardie, non ci sono neanche fughe. Qualcuno c’ha provato ma non c’è riuscito. Dichiarazioni di parte, forse. In effetti, qualche esterno al carcere che si interessa a quella realtà per questioni giornalistiche parla di rapporti molto più tesi tra i detenuti, anche di accese liti causate soprattutto dalla scarsità di spazio vitale. L’assenza di evasioni, però, viene confermata anche da chi non lavora nella prigione: in fondo lì dentro i carcerati hanno il pasto assicurato, cosa che fuori non è così scontata, e magari se scappano finiscono pure uccisi in qualche vendetta dovuta ad episodi passati o agli stessi fatti per cui sono stati condannati.

Il carcere è diviso in sezioni: c’è la parte dedicata alle donne, più piccola, e quella più ampia per gli uomini. (…) Mosif sembra molto giovane ma ha già due figli, come molte delle ragazze in Etiopia costrette spesso a sposarsi prestissimo e a mettere al mondo subito dei bambini. Yelkal Museye, di sei anni, vive in prigione con la mamma, mentre Almaz, di otto, è fuori con la nonna. Mosif li vorrebbe entrambi con lei, ma le regole della struttura detentiva prevedono che solo i bambini che non superino i quattro anni al momento dell’arresto della madre possano essere ammessi e, al momento della condanna, il secondo figlio era già troppo grande per restare con lei. La detenuta è infatti arrivata nella prigione di Debre Markos due anni fa e ci dovrà restare per altri dieci. La condanna che porta pesantemente sulle spalle è quella di omicidio: è stata giudicata responsabile dell’assassinio del marito, messo in atto con la complicità dei fratelli, il trentenne Yeshwase, condannato a cinque anni, e il diciottenne Melsaw, che di anni ne deve scontare otto. Sono tutti e tre nella prigione di Debre Markos.
Il racconto di come sono andati i fatti è un po’ confuso. Tra lei e il marito c’erano tensioni e frequenti litigi. A quanto racconta, lui faceva uso di medicine tradizionali, ma non è in grado di spiegare come queste possano aver influito nella vicenda. Non parla di percosse o cose simili, eccetto che per il giorno del divorzio. In un primo momento, lo accusa di averla cacciata di casa; subito dopo, però, ammette che la decisione di separarsi era stata presa di comune accordo, i problemi sarebbero sorti dopo, quando il marito non ha voluto dare alla donna quello che le spettava. Mosif viene da una famiglia benestante ed evidentemente ciò che lui le doveva non era poco. Queste mancanze da parte del marito avrebbero scatenato l’ira dei fratelli, che per vendicarla l’avrebbero ammazzato. La famiglia dello sposo ha accusato anche Mosif di aver partecipato all’omicidio e addirittura di aver istigato i fratelli. La corte ha dato loro ragione. Secondo la versione delle guardie, però, sono stati i fratelli a commettere l’assassinio. Le soldatesse ricordano inoltre che quando Mosif è arrivata in carcere aveva una grossa ferita al fianco, probabilmente causata da un coltello.
In carcere la ragazza studia, ha appena superato l’esame del sesto anno della scuola primaria. Contemporaneamente lavora e manda a casa dei soldi, anche se la famiglia, essendo ricca, le spedisce oggetti e vestiti. Parlando della vita nel carcere, Mosif non si lamenta, certo vorrebbe anche l’altro figlio con lei ma sa che è molto difficile ottenere il permesso. È però contenta che la piccola Yelkal possa frequentare la scuola per i figli delle detenute ed è anche soddisfatta del rapporto con le altre carcerate con le quali, dice, vive in pace e senza incomprensioni.

Camilla Corradini
Volontaria - Etiopia