mercoledì 24 dicembre 2014

Auguri dall'Etiopia...

Mancano due mesi e mezzo alla fine di questa esperienza e a me sembra di aver iniziato da poche settimane. Pensavo che a così poco dalla fine sarei stata completamente diversa. Pensavo che vivere in un paese come l’Etiopia, mi avrebbe resa più forte, più positiva, più paziente, più riflessiva.
Invece no, non sono cambiata molto, più che altro è cambiato ciò che ho intorno, ciò che vedo e ciò che vivo, come il concetto di festa, come il Natale. Non ci sono in giro luci ed alberi addobbati, non vedo persone vestite di rosso che portano ingombranti barbe bianche davanti ai negozi, non ci sono file per farsi incartare regali, non ci sono regali, non c’è la magica atmosfera natalizia e devo dire...menomale!

Sì, menomale perché come potrebbe essere il Natale europeo o americano qui? In europa ci sono vari tipi di festeggiamenti, più o meno sfarzosi, con chi ha tutto e può tutto e chi fa del suo meglio per avere un Natale dignitoso, chi è felicissimo e chi si accontenta. Qui, invece, sarebbe una vera tortura, come è una tortura tutto l’anno vedere adolescenti con in mano l’ultimo modello di I-phone ed autisti ad aspettarli dentro una macchina che ha l’aria di costare quanto una delle case che molti abitano alla quale si avvicinano bambini senza scarpe e vestiti rotti sperando di ricavare 2 birr per un panino. Sarebbe l’ennesima conferma che, per quanto possa far male il pensiero c’è una prima, una seconda ed una terza categoria. Il Natale sarebbe un inferno: immagino i ricchi della Addis bene, intenti ad organizzare un Natale da film con addobbi e regali rigorosamente made in USA o in Italy. Immagino il ceto medio, pronto a rendere la propria casa natalizia ed i propri figli felici il più possibile. Immagino coloro a cui del clima natalizio non importa un tubo, perché sanno che ciò che è veramente importante è costruirsi un futuro facendo lavori impossibili, sopportando  le circostanze peggiori, facendosi coraggio, forse permettendosi un pasto diverso dal solito. Penso ai figli di quest’ultimi camminare in strada sentendo l’odore del Natale senza poterne assaggiare un po’.

Poi immagino una quarta ed una quinta categoria, immancabili in un paese religioso come l’Etiopia. Alla quarta appartengono quelli che veramente festeggiano, che siano ortodossi, protestanti o cattolici, quelli che pensano a ciò che realmente si celebra a Natale, ossia la nascita di Cristo, avvenuta in una stalla tra un asino ed un bue. Effettivamente se si pensasse a questa cosa la metà delle persone di tutto il mondo non celebrerebbe il Natale perché, dopo il battesimo, non è più entrato in una chiesa o perché semplicemente non crede. L’altra metà farebbe dei celebramenti diversi da quelli abitudinari, magari regalando ai figli un’esperienza nel mondo del volontariato, che in quest’ottica, ha molto più senso di una play station.

Alla quinta categoria appartengono i musulmani, che non festeggiano il Natale. È impressionante per me, nata e cresciuta in un paese Cattolico, dove molti hanno l’esigenza di creare una distanza tra la propria e le altre religioni, trovarmi in un paese dove in un tribunale trovi sul tavolo sia la Bibbia che il Corano, perché e normale che sia così. Mi trovo in un paese in cui la Moschea sorge a pochi metri dalla chiesa Ortodossa e la mattina puoi sentire i canti di entrambe. Qui le feste Cristiane sono feste nazionali come quelle Musulmane. I Musulmani fanno gli auguri ai Cristiani ed i Cristiani ai Musulmani.

Mi viene in mente una sesta categoria di persone, quelle che partecipano o non partecipano e basta, senza pensare a fare tanto come la prima, senza il bisogno di fare del loro meglio come la seconda, senza il problema di come affrontarlo come la terza, senza dare un’etica al Natale come la quarta o una motivazione religiosa come la quinta. Alla sesta categoria appartengono persone che non esistono, è formata da quelli che potremmo diventare se potessimo effettivamente cambiare. Niente eccessi, in positivo o negativo che siano, niente sensi di superiorità o di inferiorità, nessun ragionamento filosofico o religioso. Sarebbe bello festeggiare il Natale o non festeggiarlo come membri sella sesta categoria, tutti uguali, tutti uniti, forse sarebbe un vero Natale.

In questo non sono cambiata, avevo bisogno del Natale e per questo lo passerò in Italia tra panettoni ed addobbi, passeggiando tra le strade in festa della mia bella Roma, circondata dalla mia famiglia. Una cosa però è cambiata in me e si chiama riconoscenza. Mi sento fortunata e grata nel poter vivere tutto ciò che vivo. Tutti i felici Natali passati non li ho meritati, mi sono semplicemente capitati. Sarei potuta nascere a Sodo dentro un tukul senza sapere cosa accade al di là del mare e probabilmente avrei apprezzato come fosse oro la gallina magrolina e spennacchiata che i miei genitori avrebbero comprato con i risparmi di un anno. È questa riconoscenza che mi fa vedere le cose da un punto di vista diverso, così da sembrare che niente di tutto questo io l’abbia mai vissuto veramente.

Auguro un buon Natale a tutti a partire da coloro che lo festeggiano in grande, augurandogli soprattutto di rendersi conto di quanto oro c’è nel caldo delle loro case.



Cristina Toppo
Volontaria Servizio Civile in Etiopia


giovedì 13 novembre 2014

Raccontare Storie

Quando a inizio Settembre ho lasciato Bagamoyo per trascorrere qualche giorno a casa, mi sono trovata nella difficile situazione di raccontare a parenti ed amici quello che questi sei mesi in Tanzania hanno rappresentato per me. Ho sempre trovato difficile raccontare a terzi pezzi di viaggi, esperienze, storie sentite e persone incontrate. Alla luce di questo, al ritorno dopo ogni periodo passato lontano da casa, ho sempre atteso con un certo timore il momento in cui parenti ed amici avrebbero iniziato con  le domande di routine “Com’è andata?”, “Ma ti è piaciuto?”, “Cosa hai fatto?”, “Come ti sei trovata?”, “Cos’hai imparato?”.  Dopo anni di esperienza, posso dire con un certo orgoglio di aver ormai sviluppato tecniche di risposta tali da permettermi di condividere quello che io definisco “il giusto necessario”, ovvero quanto basta per dare qualche informazione ma allo stesso tempo trattenere per me il cuore dell’esperienza appena vissuta.
Di conseguenza, quando sono salita sul volo diretto a Milano Malpensa, avevo la consapevolezza che da lì a qualche ora, mi sarei trovata a dover raccontare i mesi trascorsi a Bagamoyo e che difficilmente i miei amici e la mia famiglia si sarebbero accontentati di qualche elusiva informazione perché, si sa, sei mesi in Africa sono qualcosa che stuzzica la curiosità delle persone.
Sorprendentemente, tuttavia, una volta giunta a casa qualcosa di nuovo è accaduto: per la prima volta ho provato il desiderio di condividere la mia esperienza. Ho raccontato a ruota libera i diversi aspetti della mia vita qui, dalla quotidianità a Bagamoyo, a quella in villaggio, dal lavoro in ufficio, alle attività durante le visite di monitoraggio nei villaggi del distretto di Bagamoyo, dai momenti di ilarità a quelli di sconforto e rabbia, perché se è vero che ci sono i primi è anche vero che le storie di vita che ascolti ti restano dentro come macigni e non hai altra scelta se non quella di diventarne testimone e di condividere con altri quella sofferenza per renderli consapevoli, per denunciare.
Mi sono così trovata a raccontare di quando, una mattina, durante un incontro nel villaggio di Msoga con il Education Committe locale, ovvero i gruppi di volontari che a livello di villaggio hanno il compito di sensibilizzare le famiglie in riferimento all’importanza dell’educazione dei bambini, io e Peacy, la facilitatrice di CVM alla quale sono affiancata, ci siamo trovate a fare visita a una famiglia dove era stato denunciato un caso di maltrattamento. Nello specifico, il caso riguardava un bambino, con handicap mentali fin dalla nascita, al quale non solo era negato il diritto all’istruzione, ma che era solito passare giornate legato ad un palo fuori casa e il cui stato fisico faceva sorgere molti dubbi anche sul suo stato di salute, mostrando evidenti segni di malnutrizione.
Oppure ho raccontato delle ragazze che fanno parte di Muungano, l’associazione di barworkers di cui CVM sta sostenendo la nascita nelle Wards di Bagamoyo. Ho raccontato di quanto sia difficile per queste donne, spesso solo ragazze, parlare di diritti in una realtà in cui non esistono contratti di lavoro, ferie o orari di lavoro precisi, in cui la paga è misera e in cui essere cameriere spesso significa dover vendere anche il proprio corpo ai clienti.
Ho raccontato le tante cose belle che questa esperienza mi sta donando, ma anche la concretezza che assume l’assenza di diritti per alcuni, i più deboli e vulnerabili.




Giulia Letizia Spezzani
Volontaria Servizio Civile Tanzania



giovedì 16 ottobre 2014

Mangiala!

Non nascondo la mia difficoltà a condividere in un blog un’esperienza così profondamente personale.
Cerco l’ispirazione in una calda domenica tanzaniana, di fronte ad un mare che repentinamente non riconosci più. Prima la bassa marea faceva apparire tutto più limpido e spazioso, ora un mare in burrasca sembra voler deglutire tutto quello che trova. Ripercorro a ritroso i giorni passati qui, dalla partenza in aeroporto con le lacrime in viso, a questa giornata malinconica.
Sembra facile per chi è rimasto, è facile dire “dai te la caverai”, “devi farci l’abitudine”, “i primi giorni sono sempre così”.  Altrettanto difficile è comunicare con chiarezza quello che si sente, quello che si respira e le mille domande che ogni giorno ti attanagliano. Perché sono qui, cosa troverò, cosa imparerò, cosa donerò, cosa cambierà.
Tutto è già cambiato molto.
Appena arrivata a Bagamoyo non mi sembrava di stare in un luogo appartenente al pianeta Terra, ora le sue strade, i suoi bambini, i rumori, la musica e gli odori sembrano essere diventati la mia casa, un posto che forse mi aspettava, e che non mi aspettavo. È la mia prima volta in Africa. E come mi ha suggerito Perfect, l’autista di CVM, “Se non mangi, sarà l’Africa a mangiare te”. È esattamente questa la prima sensazione che ho provato, essere divorata.
Le paure e le malinconie a volte arrivano, le lascio passare, perché non posso perdermi niente qui, nemmeno uno sguardo, un angolo dell’affollato e puzzolente mercato, una mano da stringere, una foto rubata dalla macchina. Perché sono in Africa, precisamente di fronte all’oceano Indiano! Avete presente bene dov’è? La quotidianità che cerco spesso me lo fa dimenticare, ma basta immaginarmi il mappamondo, farlo ruotare velocemente e stopparlo nel punto esatto in cui mi trovo e tutto ritorna ad essere nuovo, eccitante, e sorprendente.
Dalla prima settimana ad oggi ho già imparato più di quanto anni di università e tirocini mi abbiano mai insegnato. Gli staff meeting, gli interminabili database da compilare, i giorni passati in monitoraggio nei villaggi dove CVM ha i suoi progetti, le idee per i progetti da implementare in futuro, la peer education nelle scuole con BAGEA…
Una full immersion di sensazioni che ti fanno scordare il tempo che passa. E sono passati già nove mesi. Mesi nei quali non c’è stata una notte in cui non ho alzato il naso al cielo, perché so che sarà la prima cosa che mi mancherà quando sarà arrivato il momento di tornare a casa.Perché non si può fare a meno delle luce di queste stelle, non si può fare a meno del buio vero della sera, dell’immensità di questo cielo, delle forme strane che assume questa luna, dei colori dei vestiti delle donne, dei piedi sporchi di questi bambini, del sapore del chapati e dei mandazi.
MANGIALA! È l’augurio che mi faccio.

Che arrivi a tutti i volontari come me sparsi in questo immenso continente.




Valentina Corbucci
Volontaria SVE - Tanzania

giovedì 2 ottobre 2014

Un giorno a Talawanda

Quando il Martedì di quasi ogni settimana si parte per 2, 3 o 4 giorni di visite di monitoraggio dei progetti nei vari villaggi del Distretto di Bagamoyo, il primo pensiero che mi passa per la mente è: “chissa cosa accadrà, chi incontreremo questa volta”; perché ogni incontro lascia sempre qualcosa: un mix di emozioni che è difficile da spiegare a parole e tanto meno da scrivere; troppi eventi si succedono, e tante realtà diverse si mescolano.

Nell’ultima settimana di Agosto, io, Giulia e Peace – facilitatrice CVM - siamo andate in monitoraggio a Talawanda, un villaggio sulle colline nel Distretto di Bagamoyo. In quest’area CVM ha raggiunto diverse donne e ragazze attraverso il suo progetto di Microcredito e la più recente cooperativa Wandele SACCO, ed è proprio per monitorare lo stato delle cose che siamo arrivate lì Martedì mattina.

La caratteristica che differenzia Talawanda da altri villaggi è che per la prima volta 2 anni fa CVM ha coinvolto le donne della tribù Masai nel progetto di Microcredito e Wandele SACCO. A differenza di altre zone all’interno del Distretto di Bagamoyo, in questa provincia la tribù Masai è presente in grandi numeri, ed è impossibile guidare lungo la strada da un villaggio ad un altro senza incontrare o trovarsi circondati da una loro mandria di mucche. Coinvolgere le donne Masai nei progetti non è semplice, specialmente quando si cerca di coinvolgere un gruppo piuttosto che una singola persona, ma gli sforzi e il duro lavoro di CVM hanno portato ad un coinvolgimento di  6 donne di età tra i 20 e i 60 anni. Quattro non sono in grado di leggere e scrivere ma grazie all’aiuto di figli e nipoti hanno dimostrato di essere tra le più capaci a gestire le loro finanze e, nel caso del progetto di micro-credito, a tenere in ordine i conti. 

L’incontro e l’affetto dimostratole dalle donne Masai a Talawanda è un ricordo che mi accompagnerà per sempre. In tutti i villaggi in cui andiamo Peace è sempre accolta con molto affetto e rispetto, ma a Talawanda abbiamo ricevuto un’accoglienza unica. Le ‘mame Masai’ ci hanno accolto con abbracci, canti di gioia e sorrisi enormi e la loro gioia ed entusiasmo ci ha accompagnato per tutta la durata della visita.

In particolare a colpirmi è stato il modo in cui Magdalena, la donna Masai più anziana del gruppo, ci ha accolto. La sua gioia nel vedere Peace era palpabile, il suo abbraccio era come quello offerto ad una sorella dopo un lungo periodo di lontananza: ricco di felicità. La sua dimostrazione d’affetto chiara si é però mischiata ad un po’ di rabbia, dettata dal fatto di aver saputo troppo tardi del nostro arrivo in paese. Non ha così avuto modo di prepararci un’accoglienza degna di nota: un pranzo ricco di carne (almeno una capra) accompagnato da prelibatezze locali.


Grazie al sostegno economico iniziale dato dal progetto CVM, tutte e 6 le donne Masai, così come le altre beneficiarie, sono state in grado di iniziare attività economiche che le hanno rese economicamente indipendenti e stabili. Magdalena ha allargato la sua attività di allevatrice, acquistando polli e iniziandone la vendita in aggiunta a quella di latte prodotto dalle sue mucche. Le altre ‘mame Masai’ hanno acquistato pannelli solari e avviato individualmente delle attività incentrate sull’offrire luoghi in cui è possibile ricaricare cellulari e altri apparecchi elettronici dato che l’intera area non è ancora stata raggiunta dai cavi della corrente elettrica.

Peace e Mama Masai

Chiara Crenna
Volontaria Servizio Civile - Tanzania

venerdì 19 settembre 2014

La Seconda

“Ma se capirai,
se li cercherai fino in fondo
se non sono gigli
son pur sempre figli
vittime di questo mondo

De André, La città vecchia


Da quando ho messo piede in Africa sicuramente sono ancora tante le emozioni e le sensazioni che devo sedimentare prima di poterle raccontare. E’ come quando si sviluppa una fotografia in modo analogico. La carta sensibile colpita dalla luce deve essere messa a bagno in diversi liquidi. Solo seguendo meticolosamente tempistiche e processi, i reagenti faranno comparire le immagini. All’inizio non ci sono che macchie che via via si definiscono e diventano delle figure.

Quando mi guardo alle spalle, quando mi volto a guardare la strada percorsa fino ad ora vedo tante immagini che sono ancora nel processo di prendere forma. A volte si fanno degli incontri, a volte è più semplicemente  l’incontro con la realtà che ti fa riflettere. Tra le “fotografie della mente”, probabilmente c’è una mattina a Lugoba, un villaggio che come altri è attraversato dall’autostrada e alla sera si vedono parcheggiati lungo i margini della carreggiata camion e tir, che nel buio sembrano possenti mostri addormentati. A Lugoba pernottiamo spesso durante le nostre visite di monitoraggio ed è sempre molto interessante osservare la vita, la quotidianità quasi rituale, che si svolge ai lati della strada, come fossero le sponde di un fiume.

Una mattina come altre abbiamo iniziato la giornata con un chai ya rangi (the nero) e chapati per colazione. Il locale in cui ci rechiamo è essenzialmente una tettoia con dei tavolini e sedie di plastica di vari tipi. Le ragazze, cameriere e cuoche,  bollono l’acqua o il latte per il the o destreggiano padelle sui fuochi.  Ci sediamo a un tavolo e ci viene incontro una delle cameriere. È una ragazza alta, robusta. È difficile darle un’età. Potrebbe essere una mia coetanea. Forse ha qualche anno in più, forse qualche anno in meno. D’altronde qui sono in molte le persone che non conoscono la propria età e che talvolta non riescono nemmeno a formulare una stima credibile. 

Mi è parso di sentire qualcuno chiamarla Pili. Non sono sicura sia il suo nome, ma le calza bene. Pili è uno dei nomi femminili più diffusi in Tanzania. Significa “la seconda”, e questa ragazza non ha proprio l’aria di essere un “numero uno”, una vincente. Pili ha gli occhi piccoli incastonati in un viso tondo dai lineamenti grossolani. Li tiene socchiusi e li sbatte come chi ha molte ore di sonno in arretrato, ha un’aria stravolta. Si appoggia con i palmi delle mani al nostro tavolo e per un attimo sembra ci stia per cadere addosso, invece resta lì e attende che le si ordini la colazione. Porta un vestito di maglina sintetica fucsia che le fascia un corpo procace, ma goffo.

Quando sono arrivata nel pomeriggio del giorno prima, l’avevo vista seduta a un tavolo dello stesso bar in cui ora serve. Accanto a lei c’era già una bottiglia di birra vuota. Una di una lunga serie.  E’ rimasta lì tutta la sera a perdere il suo tempo, a consumare le ore di una vita che pare non aver senso. La sera voleva che un cliente del locale le comprasse un libricino che un venditore ambulante proponeva assieme ad altra mercanzia di dubbia utilità. Farsi fare un regalo, ho pensato seguendo la scena, doveva essere un modo per provare anche per un solo istante l’ebbrezza disperata di un briciolo d’amore.

Di questa ragazza non so nulla. Non so da dove viene, né se mai ha avuto un sogno. L’ho osservata e ripenso a lei come a una fotografia all’incontrario… l’immagine sta diventando “macchia”. La sua immagine sembra essere lo specchio di una vita che invece di diventare più definita, sta perdendo forma e via via si fonde e confonde nello sfondo fino a venir fagocitata dal contesto. Nei miei seguenti passaggi a Lugoba non l’ho più vista o forse semplicemente non l’ho riconosciuta. Dopotutto Pili, come tante altre ragazze nate nei villaggi del distretto di Bagamoyo, non è che una delle molte comparse nel grande film della vita. Le si nota solo se si impara a dare significato ai dettagli in secondo piano.

Veronica Weffort
Volontaria Servizio Civile in Tanzania


Monitoraggio gruppo microcredito - Lugoba, Tanzania

martedì 26 agosto 2014

Di casa in casa, di sogno in sogno

La prima volta che entrai nel compound dell’ufficio del CVM a Debre Tabor quasi non la notai – complice forse la struttura minuta e quella sua timidezza reverenziale – tanto ero curioso ed emozionato di visitare il sobrio ma accogliente edificio che da lì in avanti avrei imparato a chiamare birò, o semplicemente office. Non credo se la sia presa, ma ciò non mi consola.

Tiruwork Mesfin ha 25 anni, professione yebet serategna, in inglese cleaner o housemaid. Lo sguardo luccicante, copertina di un volto vissuto, trasmette una semplice bellezza, e la confonde con il timore di mostrarla. Vive da dieci anni a Debre Tabor, ma è nata in una provincia rurale, distante qualche decina di kilometri. Città e campagna sono strettamente collegate in questo angolo di mondo, vivono in una simbiosi millenaria e si nutrono l’una dell’altra. Tiruwork fu una delle tante a decidere di migrare, di abbandonare quel pezzo di terra che per molti lunghi anni aveva chiamato casa.

Prima di quattro figli, fin da bambina aiutava la madre a trasportare i prodotti al mercato. Quei pochi birr (moneta locale) costituivano l’unica fonte di reddito per la famiglia. E non bastavano: non per la scuola, non per i vestiti. Alla morte del padre, Tiruwork aveva 10 anni, nessuna istruzione, qualche straccio, pochi amici e tre fratelli da mantenere. Viveva là dove il mondo finisce, dove uomini e donne perlopiù passano, piccoli e insignificanti tra imponenti montagne e sconfinate verdi distese. Le sole cose che conosceva allora erano i prezzi del mercato del sabato; sapeva che il giorno si alterna alla notte, le piogge al sole, che gli animali non hanno pensieri e che qualcuno più in là poteva ciò che voleva. Fu così che la ragazza divenne moglie, e senza volerlo Tiruwork si ritrovò donna, sposata ad una promessa di futuro.

Arrivare a Debre Tabor a 15 anni non è semplice, non lo è lasciare la madre e i fratelli. Fu l’orgoglio, o il dolore delle ferite, profonde sul corpo fragile, o forse il coraggio di inseguire il mondo, di correre la propria vita e di scegliere la scelta. In cerca di lavoro, Tiruwork si rivolse alle poche amiche in città da più tempo di lei, che la indirizzarono da una famiglia benestante. Il fatto di avere vitto e alloggio sembrò un’opzione allettante per la ragazza, che del resto non aveva doti professionali oltre a quelle di casalinga. La sistemazione avrebbe dovuto essere provvisoria, ma finì col durare tre anni, durante i quali Tiruwork non vide alcuna retribuzione per i suoi servigi.

In Etiopia la legge non riconosce le housemaids come lavoratrici; di conseguenza l’Ufficio del Lavoro e degli Affari Sociali non ha mai stilato un contratto per esse. Così, resta a discrezione del padrone decidere le mansioni, le ore settimanali, la presenza o meno di una retribuzione. Nel migliore dei casi l’impiegata può strappare un “contratto orale” (in italiano suona quasi come una contraddizione in termini), cioè un accordo di massima tra le parti. Il CVM si batte da diversi anni per restituire dignità alle molte donne, troppe, che per pochi birr sono costrette a qualunque tipo di attività la famiglia disponga. Tiruwork si considera fortunata perché nonostante le difficili condizioni, il padrone le permise di frequentare la scuola serale, la cui tassa era inizialmente di 23 birr mensili, poi negli anni salita a 50 (circa 2 euro). Grazie ai suoi sforzi ora Tiruwork ha conseguito il grado 10, corrispondente alla fine del liceo.

In seguito, sotto consiglio di un’amica, la diciottenne decise di lasciare la famiglia, per ricominciare da capo, per trovare un’altra casa. Oggi Tiruwork lavora come inserviente part time in quattro diverse case, per una media di 4 ore giornaliere. In più, lava vestiti per alcuni conoscenti e cucina l’injera (pane locale) che poi consegna a diversi rivenditori.

Da cinque anni Tiruwork cura la contabilità di Tesfa Hiwot (Speranza di vita), l’associazione delle housemaids di Debre Tabor, fondata con l’aiuto del CVM. Ad oggi sono 108 le donne che periodicamente si incontrano per discutere, promuovere l’educazione delle più giovani, seguire training sulla prevenzione dell’HIV, amministrare collettivamente una copisteria per risparmiare del denaro da destinare ai membri più bisognosi. L’associazione ha come obiettivo ultimo quello di restituire dignità alle lavoratrici domestiche, ottenere un contratto scritto con un salario minimo garantito dal governo regionale, fermare il flusso di donne migranti verso i paesi arabi.

Tiruwork è coinvolta nelle attività dell’associazione in ogni momento che trova. Quel che le avanza lo dedica agli altri, consapevole che l’unità e la solidarietà sono le sole armi a disposizione di chi non ha nulla. In futuro vuole smettere di sognare, vuole avere una propria famiglia e una casa. Questa volta tutta per lei. E spera di poter un giorno regalare ai suoi figli la giovinezza che lei non ha vissuto.



Simone Franceschi
Volontario Servizio Civile in Etiopia



martedì 5 agosto 2014

Quando il pensiero non basta...

Biruh Tesfa (dall’amharico “futuro luminoso”) è un’associazione di bambini poveri ed orfani con sede a Debre Markos, in Etiopia, nata con lo scopo di aiutare questi bambini a crearsi un avvenire migliore, ad affrontare e conoscere i problemi e i rischi della vita, a ridare loro una speranza e fornire quel supporto senza il quale molti rimarrebbero a vivere per strada. Le attività che porta avanti sono: ricongiungimento familiare dei bambini di strada insieme a CVM, sostegno scolastico, formazione, attività sportive e ricreative, microcredito.

Portare avanti queste attività non è sempre facile, spesso infatti non ci sono i fondi necessari per farlo e può capitare che i volontari si trovino in difficoltà. In particolare, Giovanna e Sara – volontarie SVE – ci hanno recentemente fornito un breve resoconto sulle attività che stanno seguendo proprio a Debre Markos, in collaborazione con CVM:

"Da alcune settimane siamo entrate in contatto con gruppo di street children che lavorano intorno alla zona dell'ufficio di Biruh Tesfa. Uno di loro ci ha chiesto di tornare a casa e l'abbiamo riportato al suo villaggio; ora, con la collaborazione dello staff CVM e di alcuni membri di Biruh Tesfa, stiamo monitorando la situazione per far sì che il ricongiungimento familiare vada a buon fine. Per quanto riguarda gli altri ragazzi la situazione è più complicata, quindi per il momento non è possibile pensare al loro ritorno in famiglia.In questo periodo fa parecchio freddo, piove sempre e loro sono in strada giorno e notte senza riparo né vestiti adatti. Così ci siamo informati sull'esistenza o meno di una struttura temporanea a Debre Markos ma per il momento, purtroppo, non ci sono strutture di questo tipo. Ne abbiamo parlato con Geremow (Responsabile CVM del Progetto a Debre Markos), con il Child Expert  (Women and Children Office – Ufficio Donne e Bambini) e con le autorità locali e abbiamo deciso di costruire una struttura temporanea in lamiera per ospitare i ragazzi durante la notte. La polizia ci ha dato il suo appoggio e ci ha offerto uno spazio utilizzabile nell'area dei loro offici. Purtroppo, non abbiamo denaro a sufficienza per comprare la lamiera, ma abbiamo deciso di contribuire personalmente per i costi di costruzione che si aggirano intorno ai 10,000 Birr (400 Euro). Inizieremo questa esperienza con il gruppo dei 5 ragazzi che già conosciamo e che si sono dimostrati entusiasti della proposta. Geremow e il responsabile dell'ufficio di polizia ci hanno assicurato che in una decina di giorni il lavoro sarà fatto e potremo iniziare ad usare le struttura. Intanto continuano le visite alle OVS (Orphans and Vulnerable Students – Studenti orfani e vulnerabili), le attività con Biruh Tesfa e i trainings; siamo molto soddisfatte, anche per l'aiuto che ci sta dando il nuovo volontario, Binyam, e il membro di Biruh Tesfa, Wendale."

Giovanna e Sara





martedì 29 luglio 2014

Essere un bambino

"Una domanda banale, senza pensarci troppo come si fa tra due persone, due amici che si stanno conoscendo, che si stanno raccontando:
“Ma quando è il tuo compleanno che organizziamo qualcosa di bello?”
“Non lo so, non ho mai saputo quando sono nato, non ho mai festeggiato il mio compleanno.”

La risposta che non ti aspettavi, ma che dovevi immaginare, dopo tutti questi mesi e tutte le persone conosciute, tutti quei bambini senza compleanno e senza famiglia e di nuovo ti soprendi.
Forse perchè questo ragazzo ad Addis sembra così vicino a me, con i pensieri, il modo di vedere il mondo, il modo di cantare mentre cammina, però due storie diverse,una con 27 compleanni tanto attesi e l’altra senza un giorno proprio in 20 anni. Se penso a quell’aspettativa perenne per il mio compleanno, come se ogni volta in quel giorno dovesse succedere qualcosa di unico e incredibile, il mio giorno, quel giorno speciale che si aspetta come la notte prima che arrivi il Natale. E poi ci pensi bene su, un giorno come un altro in fin dei conti ma comunque unico per te...ma lui non ce l’ha né speciale né anonimo...quel giorno non sa quale sia.

Tanti bambini qui non hanno quel giorno, chissà se sono nati in estate quando piove a dirotto o in inverno quando fa caldo e tutto è verde e meraviglioso, chissà se sono nati di giorno o di notte.

Durante un workshop per OVC, bambini orfani e vulnerabili, dove con tutto il mio impegno cercavo di seguire al meglio la conversazione, con qualche aiuto da un ragazzo che mi traduceva come poteva ciò che veniva detto, ad un certo punto una ragazza si alza e ciò che comprendo è che sta recitando una poesia. Non so altro perché sono tutti zitti a guardarla e anche il mio giovane traduttore ammutolisce di fronte a questa splendida recita.
Non voglio disturbare questo momento, aspetto e mi godo l’attimo, quelle parole che per me purtroppo sono solamente suoni, ma che percepisco come parole importanti, si percepisce anche dall’imbarazzo e dallo sforzo che questa ragazza sta facendo per leggere di fronte a tutti ciò che da sola ha pensato, scritto, composto.
Un bellissimo applauso arriva e lei sorride contenta, contenta di essere riuscita a condividere quelle parole e poi mi guarda e mi fa un cenno che vuol dire "tranquilla dopo te la spiego in una lingua comune". E infatti nell’intervallo arriva si siede insieme ad un'amica, che conosce l’inglese un po’ meglio di lei, e insieme mi dicono che questa poesia M. l’ha scritta sugli “Early Marriages”, matrimoni precoci se così si può tradurre, e racconta di una ragazza che tutto ciò che vuole nella sua giovane vita è andare a scuola.
I suoi occhi hanno visto cose terribili e le sue orecchie sentito cose che nessuno vorrebbe ascoltare, aveva una vita semplice, una famiglia molto rigida, nessun compleanno per lei, nessuna festa, nessuno sfogo, ma non le importava, lei solo voleva andare a scuola, quello era il suo sogno.
Ma questo sogno troppo presto divenne un incubo, quell’uomo che lei non conosceva e che le faceva paura cominciò a chiedere alla famiglia di poterla sposare e suo padre accettò di buon grado.
La ragazza non si oppose perché non aveva altra scelta, la volontà del padre non poteva essere messa in discussione e il matrimonio si celebrò e lei pianse tutto il tempo.
Sapeva che la scuola e la possibilità di una vita erano svanite per sempre, era una moglie ora, anche se era ancora una bambina. Una bambina che pochi mesi dopo si accorse di avere una creatura in grembo. Ebbe una bambina quando lei era ancora una bambina che solo voleva andare a scuola. Promise a se stessa che quella bambina sarebbe andata a scuola e avrebbero festeggiato insieme il suo compleanno.

Ho guardato M., la scrittrice, aveva gli occhi lucidi, in inglese forse quelle parole sembravano ancora più forti e quella storia più vera. L’ho ringraziata per aver condiviso con me quei pensieri e lei mi ha sorriso spiegandomi che era una storia vera di una ragazza che vive vicino a lei a Debre Tabor e che purtroppo ce ne sono mille di storie così.
L’educazione serve a tutti perché queste cose smettano di esistere, mi ha detto, e perché i bambini possano finalmente avere un'infanzia. Già, ogni bambino dovrebbe avere il diritto di essere davvero un bambino.

A questa poesia ho pensato quando quel ragazzo mi ha risposto che non sapeva il giorno in cui era nato. Abbiamo stabilito una data, il suo mese preferito e il suo numero preferito.

Quest’anno festeggeremo il suo compleanno non vi sono dubbi e sarà un giorno meraviglioso."

Francesca Peirotti
Volontaria Servizio Civile in Etiopia



giovedì 24 luglio 2014

Da piogge in piogge

"Qui a Soddo la stagione delle piogge è iniziata da un paio di settimane e, nonostante il fango e l’acqua che arriva ovunque (anche all’interno dei Bajaj blu a 4/5 posti, nel quale salgono 6/7 persone a volta), non mi sta dispiacendo affatto.

C’è un qualcosa di bello da vivere in ogni momento - così come in ogni parte del mondo - solo che qui vedere il lato positivo delle cose è molto semplice. L’ho capito perché, inaspettatamente, sto bene anche quando aprendo il rubinetto non scende acqua, quando il computer ed il cellulare sono scarichi e non si possono ricaricare perché non c'è corrente e quando per colpa di un frullato di mango e papaya o di qualche spezia non si dorme la notte. Non è una scelta, quella di stare bene. Come si fa a non essere felici di tutto, quando ti trovi davanti bambini che giocano entusiasti con macchinette fatte di bottiglie e tappi, con palle bucate, con corde fatte di foglie di banano o che rimangono a bocca aperta davanti ad una penna colorata? Viene voglia di costruire una corda di banano o biglie di fango anche a me. Fango, sì, quello inizia ad essere un problema. Soprattutto quando ci slitti sopra di continuo perché sai che prima o poi cadrai.

Comunque sia, le piogge tropicali hanno un fascino tutto loro difficile da descrivere. Piove per ore, piove tanto, oppure piove all'improvviso, per poco, ma piove comunque tanto. Sono secchiate d'acqua buttate in terra dal cielo, come se qualcuno lassù trovasse divertente vedere la gente correre tra i vicoli delle cittadine cercando un riparo. È un momento in cui si è tutti uguali. Nei 60 secondi che passano dall'inizio della pioggia alla cascata d'acqua, non si fa in tempo a tirare fuori ombrelli, impermeabili, stivali da pioggia e parolacce, si pensa solo a cercare un riparo. È proprio quello il momento che preferisco, che mi affascina, quello in cui nelle tue scarpe è entrata moltissima acqua ed i tuoi piedi sono bagnati tanto quanto i piedi nudi dell'uomo accanto a te; oppure quello in cui il bambino che di solito urla “ferenge” al tuo passaggio non penserà a sottolineare che sei un estraneo, oppure il momento in cui quella donna lì, in fondo, ha gli stessi tuoi capelli arruffati e il tuo stesso broncio da pioggia improvvisa. 
Poi però pensi che il tuo broncio è per i piedi bagnati, per i capelli ormai arruffati o per i panni stesi ad asciugare, mentre la donna probabilmente sta pensando al suo piccolissimo bimbo andato a giocare chissà dove, oppure al peperoncino messo ad essiccare, oppure alle mille cose che ha da fare prima che finisca questa ennesima giornata. A questo punto il tuo broncio scompare e cerchi di cogliere tutto ciò che c'è attorno per farne ricordi. Non vuoi perderti nulla, perché sai che anche l'asino che rimane impassibile sotto la pioggia può insegnarti qualcosa, ed infatti hai imparato che per quanto è tanta ed è fastidiosa questa pioggia, non corrode. Non succede niente se invece di stranirti ed imbronciarti prendi un po' di pioggia, dopotutto quell'asino è ancora vivo e ci sono tante persone che continuano impassibili a fare ciò che facevano prima, per le strade, sotto la pioggia. 
Ad esempio i detenuti e le loro guardie. Anche se piove qui non esistono i mini bus della polizia penitenziaria, i detenuti si recano alla Corte a piedi, in gruppi di 15/20 persone, circondati da una decina di guardie armate di mitra. Camminano sotto la pioggia, guardandosi attorno, chissà se si accorgono che piove oppure pensano al loro passato, ai loro sbagli e a quello che sarà di lì a poco della loro vita.
A quel punto inizi a camminare sotto la pioggia anche tu, tranquillamente, a passo normale. Pensavi di essere derisa e puntata da qualche ragazzino e invece nessuno ti nota, nessuno ti trova diverso, passano degli studenti accanto a te e niente... ed ecco che arriva l'affascinante momento in cui Madre Natura ci insegna che siamo tutti uguali: se piove, piove per tutti, se l’aria è fredda o calda, lo è per tutti, così come sono per tutti i terremoti, i maremoti e le primavere."




Cristina Toppo
Volontaria Servizio Civile in Etiopia

giovedì 17 luglio 2014

Se ti chiedessero di descrivere Valentina...?

"Preparando un testo che parlasse di Valentina, ho pensato ai vari momenti condivisi insieme con lei in Italia e a distanza (Italia- Etiopia e Tanzania-Etiopia). Ho pensato al suo sorriso, alla sua semplicità, al suo camminare in punta di piedi, ma a grandi passi, percorrendo tanti chilometri in Italia come fra le strade più remote dell’Etiopia, al suo avere sempre una parola di sostegno e di coraggio per tutti.
Ho pensato anche a tutto quello che lei ha lasciato dietro di sé, dovuto agli incontri fatti, ai sorrisi regalati, alla grande professionalità e serietà sempre dimostrata, e così vorrei lasciare che a descriverla siano coloro che come me, da volontaria a volontaria, hanno potuto godere e condividere con lei lo spirito e la bellezza del servizio a favore del prossimo, con umiltà, in ogni angolo del mondo."
Serena Morelli


“Pensando a Valentina, la prima cosa che mi viene in mente è "instancabile".
Quando ti trovi a lavorare direttamente con lei non ha orari, è piena di idee e lavora sempre a pieno ritmo, apparentemente senza stanchezza e per lo meno, senza lamentarsi!
Durante le occasioni che ho avuto di lavorare al suo fianco in Etiopia era quella che andava a dormire più tardi e quella che si alzava prima al mattino. Sempre con il computer acceso a terminare qualcosa di inevitabilmente....urgente!
E' sempre disponibile per tutti, volontari, colleghi, visitatori, funzionari anche a discapito dei suoi tempi personali, dei suoi spazi o delle sue ore di sonno!
Uno si chiederà dove trova, una donna così apparentemente esile, tutta questa forza ed energia. Una grossa parte le viene dalle sue esperienze di vita, dalla sua persona, dalla sua umanità, dalla sua determinazione. Ha impostato la sua vita per la co-operazione e per il volontariato. Ed il resto, senza dubbio, le arriva dai beneficiari che incontra, dai volti delle persone, dagli occhi che incrocia e dalle storie che ascolta.
Valentina è una che non ama mettersi in mostra, essere in prima linea. Eppure in questa occasione per dare visibilità alle persone per le quali si impegna tanto è passata anche per qualcosa, come questo video, che avrebbe evitato volentieri. Forza Vale!!!"


Marta Rogante



"Ho conosciuto Valentina al CVM e subito si è dimostrata una persona molto aperta, sincera e spontanea, con la quale condividere le giornate risultava facile e automatico. 
In questi anni abbiamo vissuto alcuni momenti di difficoltà e profonda stanchezza, trovando sempre il modo per ridere dei piccoli problemi e gioire profondamente nei momenti in cui riuscivamo a fare qualcosa di bello. Valentina è una persona forte, instancabile e coerente, che non ha paura di testimoniare con la propria vita i suoi valori. Lavorare ogni giorno al suo fianco permette continuamente di arricchirsi."
Chiara Pieraccini



"Qualcuno dice che La grandezza si nasconde sempre dietro la semplicità e l’umiltà: non saprei trovare parole migliori per descrivere Valentina.
Valentina in tre parole è: dedizione, tenacia e professionalità.
Un esempio come compagna di “viaggio” ed un privilegio averla come amica."

Antonella Grasso


"Valentina Palumbo a prima vista appare piccola, minuta e fragile, ma racchiude un’energia, una forza interiore ed una determinazione che ci hanno davvero sorpreso. La sua prima volta in Africa e la responsabilità di Rappresentante Paese poi per il CVM, sono state davvero una sfida.
Valentina è stata un vero testimone di CVM, così come ha testimoniato i valori cristiani. Ha viaggiato centinaia di migliaia di chilometri in zone molto rurali dell’Etiopia (in auto o in bus) per sostenere le squadre locali e aiutarli a fare di più e meglio. Le cameriere e ragazze che lavorano nei bar o le prostitute sono divenute la sua priorità e lei ha portato i loro bisogni e diritti all'attenzione di tutti a livello locale, nazionale e internazionale. Problemi idrici e igienico-sanitari non sono stati lasciati fuori e quest'anno CVM inizierà un nuovo progetto di approvvigionamento idrico e miglioramento dei servizi igienici con la Comunità Kara, un gruppo semipastorizio che vive sulle rive del grande fiume Omo, un’area molto isolata e senza accesso all'acqua potabile, a 1500 km da Addis Abeba.
Valentina ha fatto propri i valori del CVM e il lavoro in Etiopia più che la chiamata al dovere, e davvero è stata fonte di ispirazione per tutto lo staff e i volontari sia in Etiopia e Italia. E ' stata davvero testimone coerente ed è stata per me una fonte d'ispirazione. Per Valentina niente è troppo grande o troppo piccolo da affrontare - e niente è stato mai fatto a livello superficiale, cosa che ho molto apprezzato. La sua guida forte è stata la sua fede cristiana e quello che lei sta facendo è stato per lei un risultato molto naturale del vivere la sua fede."

Marian Lambert
Direttore CVM

giovedì 19 giugno 2014


Il primo gesto di ogni vero viaggio ha qualcosa di lento

Ormai è passato quasi un mese..
Tante immagini scorrono nella mia mente da quando sì, si parte davvero.
Il primo gesto di ogni vero viaggio ha qualcosa di lento.
Ho sognato e desiderato per mesi questo momento come è possibile che ora non voglio più partire?
È qualcosa di inspiegabile che nasconde dietro un irreparabile stanchezza, un senso di perdita possiamo chiamarlo...
È un momento in cui capisci che tutte le certezze che ti eri costruita con fatica scompaiono, ma lì ormai il viaggio è già iniziato e allora bisogna spianare le ali, perché se il viaggio forse non è un antidoto contro la malinconia di certo lo è contro la violenza..la violenza del non..non cercare di esserci, e il più vicino possibile.
Perché le cose vanno viste secondo me, vanno sperimentate, vanno ricordate e vanno anche assaggiate e odorate perché se no è un racconto e per quanto io viva di storie è così bello esserne un pezzo di quel racconto..
Poi appena atterri da quell'aereo, Addis Abeba e di schianto “l’altro”, il diverso, il bianco, il ferengi...la parola che imparerai subito in questa nuova terra...ogni persona ogni occhio che ti vedrà passare ti vedrà come ferengi..lo straniero, il diverso. Non ci sarà verso, non ci sarà nessuna strategia per cambiare questa condizione naturale...per quanto delicato o indelicato un bianco possa essere qua, per quanto cerchi di apparire naturale nelle sue azioni cercando di entrare come un ospite nella vita di queste persone..rimarrà ferengi..


E' tutto lento in etiopia, è tutto difficile..a parte il sorriso della gente..quello è così facilmente comprensibile.
E qui sorridono..nel guardare come ti vesti, come ti muovi cercando di immaginare da quale mondo tu possa venire,sorridono perché provi a dire due parole nella loro lingua sforzandoti di fargli capire che non sei un turista..che non vuoi essere un turista..tu vuoi essere vicino a loro..il più possibile.
Devo abituarmi dicono, ne dubito che sia possibile abituarsi a quello che vedo ogni giorno..come ci si fa ad abituarsi al nulla..qui non c’è nulla, manca tutto..ci sono talmente tanti problemi che ogni tanto mi sento così inutile..ma poi basta una lezione di inglese ai bambini del quartiere che a scuola non ci vanno perché devono stare nei campi..una partita a calcio, una discussione con qualche associazione di persone che cercando in ogni modo di migliorare la loro condizione e allora sì..tutto ha senso, se ha senso per te..
Ed è così facile che la tua giornata assuma un altra direzione.

E dopo un mese in questa terra posso dire che anche se è dura, anche se fa male, vale la pena... Mi do tempo..tanto in Africa l’unica cosa che non manca è il tempo..

Francesca Peirotti - Servizio Civile Etiopia


mercoledì 21 maggio 2014

E' quasi un mese...

E' quasi un mese che sono In Etiopia ed il tempo è più che volato. Ogni giorno mi stupisco e mi innamoro di qualcosa di nuovo, eppure tutto questo non mi è nuovo. Quando ho fatto domanda per il servizio civile ho valutato il progetto ed il luogo. Nessun posto al mondo mi avrebbe fatto felice come l'Etiopia. All'inizio mi sentivo quasi in difetto perché mi sembrava di fare la scelta più facile: vado nel paese di mia madre, un paese già visto, dove sono i miei parenti, confrontandomi con una lingua che già conosco. Ora dico che sarebbe stato più facile andare in altri paesi. L'Etiopia mi appartiene, sento che devo dare il massimo per non offendere questa terra che sta spiccando lentamente il volo e mi sento offesa quando qualcuno non ne apprezza i costumi e non ne accoglie le usanze. 

Le settimane passate ad Addis Abeba sono state bellissime, lo staff del CVM ci ha accolto nel migliore dei modi, cercando di venirci incontro al massimo. Ogni giorno passato mi sono scoperta sempre più appassionata ai progetti idrici e non che mi troverò ad affrontare ed oggi posso dire che non vedo l'ora di iniziare a pieno, di andare a Soddo e di spendere i prossimi mesi lontani dalla caotica e divertente Addis per vivere una vita completamente diversa dalla mia ed immergermi al 100% in questo bel mondo.
In realtà mi trovo a Soddo proprio adesso, ma per il momento solo di passaggio, insieme alla nostra rappresentante paese Valentina, l'ingegnere Zelalem e Marco. Qui ho avuto la possibilità di vedere con occhi quanto lavoro c'è dietro ad ogni progetto: l'incontro con una ong locale in vista di una futura partnership, la visita a nuovi siti sui quali lavorare, a quelli su cui si sta lavorando e quelli su qui si è lavorato. Tutto ciò ha aumentato di tanto il mio entusiasmo già alle stelle. Tra le tante cose fatte ce ne è una che mi ha segnata in senso positivo: l'incontro con la tribù dei kara. Dopo una strada lunghissima e non del tutto asfaltata in uno dei punti più caldi d'Etiopia abbiamo raggiunto la tribù, passando prima per il loro centro medico. Qui l'assenza di ambulanze funzionanti e dei medicinali basilari per me scontati mi hanno dato un primo scossone, da distanza che c'è tra il centro e la tribù mi ha dato un secondo scossone, le loro condizioni di vita ed i rischi che corrono ogni giorno mi hanno stesa. Appena arrivati un gruppo di bambini ci è venuto subito in contro, curiosi e divertiti. Si sono chiesti se fossi etiope oppure no e quando gli ho risposto metà e metà, mi hanno detto che non era possibile il miscuglio e hanno provato a dire di dove fossi per una decina di minuti buoni. Passata la parte divertente è iniziata la parte emozionante. Mentre Zelalem e Solomon si dirigevano verso il fiume Omo per fare delle rilevazioni, Valentina, Marco ed io abbiamo fatto delle domande alle donne del villaggio. Abbiamo chiesto come fosse organizzata la tribù, quali fossero i ruoli dei componenti e le difficoltà affrontate ogni giorno. Abbiamo poi chiesto quale fosse il loro sogno nel cassetto e tutte, ma proprio tutte, hanno un sogno correlato all'acqua. Non nego di aver trattenuto le lacrime quando una donna ci ha mostrato le mani callose con il quale tutti i giorni lavora nei campi ed in casa, così come quando ci hanno raccontato dei loro spiacevoli incontri con i coccodrilli ogni volta che si recano al fiume per raccogliere un'acqua sporca, che porta malattie, la stessa usata dagli animali. Mi sono chiesta se fosse la forza delle mamme che non sanno cosa dare mangiare ai figli a spingerle ad andare avanti, le loro tradizioni, oppure il fatto che non hanno mai vissuto altro.
Per me è stata quasi un'avvenuta trovarmi tra loro e vedere le loro vesti quasi inesistenti fatte di pelle di mucca, i loro gioielli di fagioli e perline keniote, le loro pettinature con l'argilla, le loro case di fango e paglia, il loro bestiame, il loro modo di sedersi, parlare e guardare, ma per loro è un'avventura questa vita.
Acqua liscia, frizzante, fredda, a temperatura ambiente sono questi i miei problemi legati ad un bene così prezioso e questo mi fa riflettere.

Sicuramente qui non cambierò niente, sono solo di passaggio, ma sicuramente questa esperienza mi cambierà e mi sta già cambiando.

Cristina Toppo - Servizio Civile Soddo

martedì 20 maggio 2014

Il mio SVE a partire da una foto

A causa di un problema tecnico non sono riuscita a parlare durante l’incontro finale per la conclusione del progetto EVS – Educate Vocational Solidarity sulla piattaforma organizzata da FOCSIV. E cosi eccomi qui, a provare a mettere per iscritto alcune delle emozioni e dei pensieri che hanno accompagnato la fine di questa mia esperienza SVE. Partendo da una foto. Una foto sfocata, di bassa qualità, nulla di eccezionale, ma che per me rappresenta il senso di questi mesi. 8 mesi passati tra le gente, con il popolo tanzaniano, con le ragazze e le giovani donne di Bagamoyo, entrando in contatto con le loro famiglie, i loro bimbi, i loro mariti, i loro genitori, i loro fratelli, i loro amici.
Questa foto è stata scattata durante un corso di aggiornamento nella produzione di batik organizzato da CVM, il mio ente di invio, e BAGEA, l’associazione tanzaniana per la promozione del diritto all’educazione presso cui sono stata impegnata, per uno dei gruppi delle “nostre” ragazze coinvolte nei progetti di sostegno all’educazione e alla formazione professionale. Quello è stato uno dei momenti più “duri” del mio SVE, a novembre. In Tanzania da qualche mese, continuavo a non capire nulla di quello che accadeva intorno a me, non capivo lo swahili, non riuscivo a comunicare, sentivo una barriera fortissima con le persone intorno a me, che mi impediva, pensavo in quel momento, di lavorare, di dare il mio contributo, di dare un senso alla mia esperienza. Durante quel corso mi ricordo in particolare un episodio, una battuta detta dalle ragazze a cui io non ho riso perché non riuscivo a capire quello che dicevano. E la percezione netta in me e in loro di essere “fuori dal gruppo”. E poi..e poi le ragazze e la formatrice con naturalezza mi hanno invitato a sedermi in mezzo a loro, mi hanno messo una tela in mano e mi hanno fatto vedere come preparare il tessuto per il batik, invitandomi a fare lo stesso. Io in teoria ero li per “coordinare” un pochino le attività, fare interviste di monitoraggio, tenere il report del corso. Ho lasciato perdere. Mi sono messa li seduta, sui teli di plastica nera, insieme a loro e ai loro figli che gattonavano sui teli, in mezzo alle loro risate, in silenzio, ascoltando quello che mi capitava intorno, osservando i loro volti, sorridendo ai loro figli. E anche loro hanno ricambiato il sorriso. Ho capito in quel momento che forse quello che la Tanzania mi chiedeva di fare era proprio quello. Stare in silenzio e aprire il cuore gli occhi e le orecchie a quello che sarebbe accaduto, senza pretendere nulla.

Sono partita per la Tanzania e per questo SVE con tanti “voglio fare”. Voglio imparare, voglio accrescere le mie competenze professionali, voglio lavorare..voglio voglio. Sono arrivata giù e ho capito che non avrei trovato nulla di quello che volevo. Sono stata mandata a lavorare con un’associazione locale formata da 4 ragazze tanzaniane di cui una sola sapeva bene l’inglese, mentre le altre parlavano solo swahili. E davano per scontato che io parlassi swahili o che lo imparassi nel giro di qualche giorno. L’ufficio era una stanzetta all’interno di una casa, la corrente spesso veniva tagliata e quando finiva la batteria del computer si era bloccati o bisognava spostarsi in uno dei pochi baretti con corrente. I tempi di lavoro diversi e le priorità diverse che ti fanno pensare sia impossibile lavorare come tu ti aspettavi; una mentalità diversa con cui ti scontri, con cui non ti riconosci e che ti fa mettere in discussione il senso del tuo stare li. Il corso di swahili partito un po’ in ritardo, molto meno strutturato e “convenzionale” di come ero solita immaginarmi un corso di lingua. La solitudine, la fatica nel comunicare parole e pensieri con le persone che hai intorno, le colleghe, le ragazze dei nostri progetti, i vicini di casa. La paura di non farcela ma la voglia di restare e andare avanti. Accettando di restare in silenzio, accettando di stare a guardare per un po’. E poi piano piano l’apertura. Con le colleghe, che mi hanno insegnato lo swahili giorno per giorno insegnandomi, tra la scrittura di un progetto e un monitoraggio, a pulire le verdure, facendomi tenere i loro figli in braccio, facendomi assaggiare tutto quello che il mercato culinario di Bagamoyo offriva. Con i vicini di casa, con i quali ho preso lezioni di cucina, seduta sulle stuoie, davanti a un fuoco a carbone mentre ci si racconta delle proprie famiglie. Con Roma. il mio insegnante di swahili, una guida turistica con la passione della storia e dell’economica, che mi ha aperto gli occhi sulla società tanzaniana, sulle tradizioni ancora presenti, sulla voglia di riscatto e di crescita sociale e professionale dei giovani. Con Maembe, Nabo, Sajali, Kenni, i miei amici musicisti che mi hanno praticamente adottato e con i quali ho scoperto e imparato le mille sfumature della musica tanzaniana, le sonorità, i testi che parlano di povertà, di infibulazione genitale femminile, di repubblica tanzaniana, dei mille problemi di questa Africa che pulsa. E la fatica che si trasforma in regalo. Che mi fa capire quanto sono ricca e fortunata. Questi mesi sono stati la risposta a tante delle mie aspirazioni. Il perché di una certa scelta universitaria, il perché di una certa “vocazione” professionale, la passione per la storia e la politica africana. E poi, a completare, sono arrivate anche le famose competenze professionali. Un “in più”. Mi è stato dato tanto di più quello che pensavo. In un modo imprevisto, diverso da quello che pensavo. Come sempre la vita mi sorprende. E mi sono ritrovata sull’areo di ritorno semplicemente a dire “Asante sana”.

Valentina Codeluppi - SVE Tanzania

giovedì 27 febbraio 2014



MAMA JAMILA!



Venerdì sono andata insieme alle colleghe di BAGEA in una primary school di Bagamoyo per una mattinata di peer education con gli studenti. BAGEA è nata per promuovere il diritto allo studio delle ragazze qui nel distretto, dati gli enormi ostacoli culturali, economici e sociali che ancora esistono a un riconoscimento pieno e reale dei diritti per le donne, in primis quello all’educazione. Normalmente lavoriamo e promuoviamo attività di educazione, promozione dei diritti e sensibizzazione per le ragazze dai 16 ai 30 anni, ma abbiamo capito che se non si lavora anche con bambini e bambine, se non si comincia fin da subito a parlare del diritto alla dignità, all’educazione, alla promozione femminile, poi sarà molto più difficile lavorare con le ragazze ma anche con le stesse comunità locali nelle quali le ragazze vivono.
E cosi, ecco l’idea di andare nelle scuole, per cercare di spiegare e fare passare, in maniera semplice e “giocosa”, concetti come il diritto all’educazione e il diritto a un’educazione paritaria per bambini e bambine, lotta contro la violenza sulle donne, un inizio di educazione sessuale e sulle malattie sessualmente trasmissibili. Forse sembra un po’ prematuro, ma in un paese in cui il tasso di gravidanze precoci (riferendosi a un’età che va dai 11 ai 14 anni) è tra i più alti al mondo forse cambierete idea. L’obiettivo è che gli studenti formati a loro volta possano trasmettere un po’ delle nozioni apprese ai loro coetanei e amici. Ecco il senso della peer education.
Sono arrivata a scuola con Alala, la presidente di BAGEA che ha una carica ed un’energia trascinante soprattutto con i giovani, Jamila, la segretaria dell’associazione, e Valentina, nuova SVE sbarcata da poco più di un mese a Bagamoyo. Per me non era la prima volta che partecipavo alla peer education, ma confesso che fa sempre un certo effetto entrare in queste classi polverose e ombrose, dove ti servono alcuni minuti per abituarti all’oscurità venendo dalla luce accecante di fuori, in cui stanno stipati, in rigoroso silenzio e ansiosa attesa dai 45 ai 60 bambini. Una classe. 120 occhi fissi su di te. Ad aspettare quello che tu farai e dirai. Ad aspettare un tuo cenno. Alala si è presentata, ha presentato l’associazione e il motivo della nostra presenza qui. Poi ci ha fatto presentare. L’ultima peer education a cui avevo partecipato era stata diversi mesi fa, quando il livello del mio swahili era davvero basico, mi toccava presentarmi in inglese e i bambini mi guardavano sempre con deferenza e un po’ di timore. Questa volta mi sono presentata in swahili, e i bambini hanno risposto al mio “Mambo!” con un caloroso “Poa!!” Alala ha cominciato a introdurre diversi concetti chiedendo ai bambini di intervenire con suggerimenti e opinioni. Parlando della vita quotidiana, chiedendo il riferimento alle loro storie personali, a quello che i bambini vedono e vivono in casa e a scuola è molto più facile riuscire a parlare anche di concetti “difficili” come parità uomo-donna, educazione, violenza. A ogni spiegazione seguiva una fase di lavori di gruppi in cui i bambini si raggruppavano a gruppetti di 6-7 per discutere insieme dei temi affrontati e sviluppare le loro idee. E poi, per sciogliere la tensione, la parte più bella: una sorta di bans-versione tanzaniana proposti da Alala. Ce n’è in particolare uno che Alala mi ha insegnato durante la prima peer education e che è un po’ il suo cavallo di battaglia. Inizia cosi: “Mama Jamila (una presa in giro nei confronti della “nostra” Jamila) anasonga ugali”: che tradotto vuol dire “Mama Jamila prepara l’ugali (uno dei piatti nazionali tanzaniani: la tipica polenta bianca di mais). E poi continua: “con una mano, con l’altra mano, con i piedi, abbassandosi fino a terra, ballando” etc. Tutto mimato. Alala ha cominciato in sordina, invitando i bambini a seguirla. Credo che non credessero ai loro occhi e ai loro orecchi. Un adulto che dava loro l‘autorizzazione e ballare e cantare a squarciagola in classe. Subito hanno cominciato timidamente poi si sono scatenati, come solo i bambini sanno fare, soprattutto quelli africani. Ad un certo punto ho pensato che l’aula sarebbe venuta giù. E devono averlo pensato anche  le persone fuori, perché è venuta un’insegnante da un altra classe per chiedere se andava tutto bene. Dopo un’altra “sessione di lavoro” Alala ha riproposto il bans, chiedendo a me e Valentina di accompagnarla. È stato lo spettacolo. Cioè non per la nostra performance, che davvero lasciava alquanto a desiderare soprattutto se paragonata all’elasticità africana, ma per il momento di condivisione che si è creato. I bambini si sbellicavano dalle risate, e poi, dopo un attimo, hanno ripreso a ballare con noi. Siamo qui per parlare di diritti, di educazione, e spesso rimaniamo chiusi nei nostri uffici, sapendo poco di cosa vuol dire “educazione” qui, e di cosa vuol dire lavorare insieme con la gente del posto per rafforzare questo diritto. Io non sono un’educatrice o un’animatrice, non mi ci vedo e non credo che sarebbe il mio posto, ma in quella classe, cantando insieme di come si prepara l’ugali, mi è sembrato per un attimo di essere più vicina a quei bambini che mi prefiggo di “aiutare” dal mio ufficio, di capire un po’ di più, di entrare un po’ di più nella loro storia. Come quando con l’ortolano mi fermo a discutere di come si cuoce il matembele (una sorta di bietola locale), o come quando con Roma, il mio insegnante di swahili, discutiamo di cosa vuol dire essere giovani lavoratori in Tanzania o in Europa..

Oggi, dopo il lavoro, stavo camminando per le stradine di Bagamoyo. Un gruppo di bambini con indosso la divisa scolastica mi si è avvicinato e mi ha salutato. Capita spesso e non ci ho fatto troppo caso. Poi però mi hanno detto “Mambo Vale!Mama Jamila wapi???” (Ciao Vale, dov’é Mamma Jamila???.. erano i “nostri” studenti..si erano ricordati! Era rimasto qualcosa della mattinata passata insieme! Mi piace pensare che tra una parola di un bans e un’altra sia rimasto anche qualche riferimento a educazione e diritti umani. Spesso mi sento amareggiata o delusa, quando ho l’impressione che si riesca a fare cosi poco, che alla fine le persone siano cosi poco interessate a quello che facciamo. È bastato un “Mama Jamila” a farmi tornare il sorriso. A farmi dire che non è mai tutto inutile. Ridendo ho risposto “Mama Jamila pale ofisini ya BAGEA!” (è all'ufficio di BAGEA).

Valentina Codeluppi - SVE Tanzania
Bagamoyo, 18 febbraio 2014