venerdì 24 settembre 2010

Il Capodanno dei bambini di strada a Lumami


Se per il mondo in generale l’11 settembre oggi è associato al terribile attacco alle Torri Gemelle di New York, per il popolo etiope questa data ha storicamente un significato totalmente diverso ed è occasione di festa grande: è il 1° giorno del mese di Meskerem, il primo giorno dell’anno. Il calendario di questo Paese e il nostro sono infatti molto diversi e nei giorni scorsi gli Abesha (come viene chiamata la popolazione locale) hanno dato il benvenuto al 2003. Il capodanno è un’occasione speciale in cui la famiglia si ritrova: chi lavora o studia lontano da genitori e parenti, se ha le possibilità economiche e il tempo sufficiente, di solito affronta viaggi spesso lunghi e massacranti per trascorrere con i propri cari questa ricorrenza. Le persone se ne stanno con familiari e vicini: nei giorni precedenti i meno poveri si procurano pecore o polli e, il primo dell’anno, già dal mattino presto cominciano i preparativi per cucinare le specialità tipiche. Si comincia a mangiare alle 9 e si continua fino a sera, chiacchierando in famiglia e facendo visita a vicini o parenti. Sui piatti abbondano enjera con carne (pecora o pollo cucinati in diversi modi), yogurt, hambascia (pane tipico), kolo (noccioline), il tutto accompagnato da tella (la birra locale fatta in casa) e dall’immancabile cerimonia del caffè. A benedire la ricorrenza ci pensano i preti ortodossi che, muniti di grandi tamburi, girano per le case cantando e danzando - la preghiera è fatta anche di questo - e ricevendo in cambio piccole donazioni. In famiglia, poi, è usanza regalarsi qualche abito nuovo; in molti però non possono permetterselo, così in genere c’è l’abitudine di lavare il misero guardaroba che ognuno possiede. Davanti ad ogni casa è una distesa di vestiti, non di rado consumati e strappati, messi ad asciugare.
Se per tradizione questa è una data speciale, per i milioni di bambini di strada che affollano ogni angolo d’Etiopia è un giorno come un altro, ricco solo di sofferenze e privazioni. Niente famiglia con cui passare il tempo, niente cibo da gustare per salutare l’anno vecchio e accogliere il nuovo. Per loro non c’è festa e non c’è il calore dei parenti, ma solo l’ennesima battaglia giornaliera per conquistare qualcosa da mettere sotto i denti. Molti di loro, forse, non sanno neanche cosa vuol dire celebrare il capodanno con i propri cari, poiché sono finiti in strada quand’erano veramente piccolissimi e non hanno mai avuto nessuno che si occupasse di loro.
Nella città di Lumami in Awabal woreda, però, quest’anno il capodanno è arrivato anche per alcuni di questi sfortunati ragazzini: quasi duecento orfani hanno potuto festeggiare tale ricorrenza circondati da persone che hanno a cuore la loro vita e che provano a fare qualcosa affinché anche loro abbiano una piccola speranza per il futuro. Non importa se il primo dell’anno è arrivato con qualche giorno di anticipo (per questioni pratiche l’evento è stato infatti organizzato il 6 settembre), ciò che conta è aver regalato a questi sfortunati bambini un momento di gioia, aver fatto sentir loro un po’ d’affetto, accompagnato da cibo per tutti da gustare senza prima aver lottato per ottenerlo. La cerimonia è stata organizzata da un gruppo di giovani studenti universitari, trentasei in tutto, con l’appoggio dei colleghi del college, di gente comune che volontariamente ha cucinato e messo a disposizione materiali e denaro. A sostenere l’iniziativa anche l’HAPCO (l’Ufficio per la Prevenzione e il Controllo dell’HIV/AIDS), diversi uffici governativi e qualche Organizzazione non governativa.
Sotto un tendone traballante fatto di storti bastoni e pezzi di plastica strappati, lungo la via principale di Lumami, in modo da attirare l’attenzione dei passanti e sensibilizzare così quanta più gente possibile, sono stati riuniti circa duecento orfani, spesso vittime dell’AIDS che ha ucciso i loro genitori, lasciandoli privi di sostentamento e costringendoli a vivere per strada. Qualcuno magari ha ancora un genitore in vita o qualche altro familiare, ma spesso le condizioni di povertà sono tali che, anche se ci sono parenti, questi non possono prendersi cura di loro. Tra questi duecento ragazzini di strada anche una ventina di quelli rientrati nei progetti di sostegno che il CVM sta mettendo in campo nella woreda di Lumami.
Essendo una festa di certo non poteva mancare la musica, che tra l’altro è una compagna fedele della vita degli Etiopi, sparata a tutto volume, com’è abitudine, tramite una pianola, un amplificatore e grosse casse, appositamente montati per l’occasione. Tanto per cominciare dalle necessità base, la festa ha preso il via con la distribuzione del cibo ai bambini presenti: al bando il tradizionale rispetto che vuole gli adulti serviti per primi: quello era il giorno dei ragazzi di strada e loro dovevano esser al centro dell’attenzione. Per prima cosa quindi hanno mangiato i bambini e solo dopo ospiti e organizzatori. Enjera (sorta di pane etiope preparato dal cereale teff), carne, pane e acqua per tutti: un lusso per chi è abituato a vivere degli scarti degli hotel, quando riesce a trovarne. I ragazzini non hanno di certo fatto complimenti e si sono buttati come lupi affamati sui piatti, non lasciando neanche un rimasuglio e stando ben attenti a raccogliere tutto, anche ciò che scivolava sui vestiti. Poi è stata la volta dei saluti e delle dichiarazioni di ospiti e organizzatori, che hanno ribadito la volontà di potenziare le iniziative a favore degli orfani nella woreda di Lumami.
Infine il momento dei doni: l’avvio del nuovo anno scolastico era alle porte e ai ragazzini servono quaderni e penne, ma anche uniformi e vestiti, perché molti di loro sono praticamente coperti di stracci sporchi e non ci poteva essere occasione migliore di questa per consegnare loro un po’ di materiale utile. È stata la generosità della gente a rendere ciò possibile: è grazie alle donazioni della popolazione, delle persone comuni, che gli organizzatori hanno infatti potuto offrire il pranzo ai ragazzini di strada e comprar loro il necessario per la scuola, qualche divisa e alcune magliette. Per questa volta la comunità è riuscita a raccogliere materiale per circa 6.600 ETB (€ 366 circa).
Purtroppo, però, i ragazzini orfani sono veramente tanti ed aiutarli tutti è praticamente impossibile: dei duecento invitati alla cerimonia solo per una settantina c’erano quaderni e vestiti, gli altri dovranno aspettare, per loro anche quest’anno niente istruzione. È triste, molto triste ed ingiusto, ma non c’è alternativa. Gli studenti universitari si sono dati tanto da fare per raccogliere soldi e materiali facendo promozione in giro, andando di casa in casa e organizzando serate musicali, ma le donazioni non sono state sufficienti. Se per tutti e duecento c’era un pasto caldo per festeggiare il nuovo anno, solo per meno della metà c’era anche il supporto materiale in vista dell’inizio della scuola. Ed è ancora più scoraggiante se si pensa che, in realtà, nella woreda in questione sono oltre mille gli orfani che avrebbero bisogno di aiuto, ma non ci sono i mezzi per tutti, neanche per la metà di loro.
I fortunati sono stati chiamati uno alla volta dagli organizzatori, ad incitarli una musica fatta da mani battute a ritmo: ognuno si faceva spazio tra la folla e andava a prendersi il suo “regalo”. Alcuni piccolissimi, altri un po’ più grandi. Quasi tutti con indosso abiti lisi e rotti, non della giusta misura, rattoppati e sporchi, tanti senza scarpe ai piedi. I volti spesso segnati da una vita difficile trascorsa nella strada, senza nessuno a proteggerli e senza la minima conoscenza delle norme igieniche. Era commovente vederli procedere, chi intimorito chi fiero e sorridente, mentre i compagni, anche quelli per i quali non c’era alcun dono, schioccavano le mani per festeggiarli e partecipare con fervore alla loro gioia.
Questa volta il capodanno è stato un giorno speciale anche per loro, la speranza è che non sia l’ultimo che festeggeranno, che la generosità della gente renda possibile aprire delle strade per il futuro di questi bimbi sfortunati e ci siano altri giorni come quello da poco trascorso, in cui il cibo non manca e l’istruzione non sia solo un sogno irraggiungibile.

Camilla Corradini
Volontaria CVM, Etiopia

giovedì 23 settembre 2010

Netsanet Eiigu, consulente delle donne incinte per la prevenzione dell'HIV


L’HIV le ha portato via il suo primo bambino quando aveva appena tre anni, ma il desiderio di avere un altro figlio dopo quella grande perdita era così grande che Netsanet Eiigu ha voluto sfidare quel terribile virus, che ha colpito lei e il marito, e metterne al mondo un altro, nonostante questa volta fosse consapevole della malattia e di ciò che essa comporta. Ha deciso, però, anche di non tenere per sé quella dolorosa esperienza, ma di farla diventare un’occasione di crescita, di formazione, di presa di coscienza per tante donne, soprattutto per quelle incinte. Per questo ha accettato il lavoro di consulente offertogli dal centro sanitario di Debre Markos, nell’East Gojjam: tre volte alla settimana incontra future mamme per dare loro utili informazioni sul virus, su come prevenire la trasmissione, ma anche per diffondere buone pratiche igieniche ed evitare la trasmissione di tante malattie.

Ci racconta la sua storia, ospitandoci proprio nella stanza del centro dove di solito si confronta con le donne incinte, è seduta sulla piccola seggiolina in paglia, che usa per la cerimonia del caffè che accompagna ogni incontro. Il volto è serio, cupo, all’inizio sembra quasi disinteressata alla nostra presenza, poi però comincia a parlare senza esitazioni e si lascia andare a riflessioni e racconti narrati con dovizia di particolari, ma sempre tenendo bene a freno le emozioni. I suoi occhi profondi guardano me con un’intensità che mette quasi in imbarazzo, ma che non lascia trapelare, se non in rari casi, ciò che c’è dietro: difficile cogliere espressioni tristi o smorfie dettate dai brutti ricordi, e ancor più rari sono gli attimi in cui concede sorrisi. I lineamenti sono dolci e quasi stonano con quell’atteggiamento cupo, ma forse il suo passato, pieno di dolore e complicazioni, l’ha indurita e spinta a crearsi una sorta di scudo dietro al quale, quasi inconsciamente, cerca di difendersi. Se la perdita del primo figlio è stato il momento peggiore della sua vita, non è sicuramente l’unico episodio triste e fonte di sofferenza.
Netsanet viene della città di Digotsion nella woreda di Bibugn, piuttosto lontano da Debre Markos; la madre morì quando lei aveva 15 anni dopo aver sofferto per tanto tempo di emorroidi, mai curate a dovere. Per la donna era stato un lungo susseguirsi di alti e bassi, con disturbi che si accentuavano e si attenuavano ma senza mai lasciarla, sempre trascurati fino a quando la situazione non precipitò costringendola a letto e, nel giro di un mese, portandola alla morte. Un dolore grandissimo per la giovane Netsanet, che viveva sola con la madre poiché frutto di una relazione extraconiugale con un uomo che aveva già un’altra famiglia. Fu proprio con quest’ultima che lei si trasferì a vivere una volta rimasta orfana, ma fin dall’inizio fu chiaro che quella convivenza non poteva durare: la matrigna non voleva quella ragazzina tra i piedi, simbolo dei tradimenti del marito, che per altro oltre a Netsanet aveva altri figli al di fuori del matrimonio. La donna maltrattava la ragazza, non solo a parole, e le impediva di andare a scuola.

Quei divieti e quegli atteggiamenti ostili erano insopportabili per la giovane e al tempo stesso erano causa di continue discussioni tra i coniugi. Il comportamento del padre, infatti, era ben diverso da quello della matrigna: era affettuoso con la figlia, tentava di difenderla, ma per questo doveva continuamente scontrarsi con la donna. Per mettere fine a quella situazione dilaniante per tutti, Netsanet lasciò quella casa e si trasferì a vivere con un’amica, vendendo tella (la birra locale fatta in casa) per mantenersi. Fu durante quell’attività che conobbe Alemu Awoke, all’epoca giovane militare. Tra loro sbocciò subito una relazione che in poco tempo portò al matrimonio, ma anche quella nuova vita le stava per riservare brutte sorprese: “Lui beveva molto ed era violento, litigavamo spesso e mi picchiava, anche quando sono rimasta incinta”, racconta la donna con il volto serio e compito, come se non volesse ricordare quei momenti. “È successo anche quando ero al nono mese di gravidanza, ma io mi difesi con un bastone”, aggiunge con lo sguardo fisso verso un punto lontano. Quelle accese liti non ebbero conseguenze fisiche per i due, ma furono la causa della loro prima separazione, o meglio ciò che spinse l’uomo ad abbandonarla e andare a vivere a Debre Markos. La povera Netsanet si ritrovò di punto in bianco di nuovo sola e con un bambino che sarebbe arrivato a brevissimo. Fortunatamente il legame con il padre era ancora forte e lui non le voltò le spalle: avvertito dai vicini, la raggiunse e la prese a vivere con lui, questa volta con il consenso inaspettato della moglie. Il parto si svolse in ospedale, grazie all’aiuto della famiglia, e la giovane poté trascorrere i primi due mesi in una sorta di serenità domestica con il nuovo arrivato, Kaldikan, anche se privata dell’affetto del compagno e del piacere di condividere con lui quei momenti.

Aveva appena ricominciato ad organizzare la propria vita, per l’ennesima volta da capo, quando Alemu tornò da lei per fare pace e riprendersela a vivere con lui, portandola a Debre Markos. Netsanet non ci pensò due volte: ciò che la lega a quell’uomo era ed è troppo forte per dirgli di no, lei lo amava e lo ama, lo ammette sinceramente e un po’ vergognosa, continuando a distogliere lo sguardo, chiudendosi su stessa e facendosi sempre più piccola. Purtroppo, però, nonostante quel sentimento il loro rapporto non sembrava trovare la strada giusta per funzionare come si conviene a una coppia sposata: l’uomo continuava ad essere rude, le liti proseguivano frequenti e, spesso, lui se ne andava per giorni, trasferendosi in una città vicina. A peggiorare quella delicata situazione, sempre in bilico e sul rischio di esplodere, si aggiunse qualcosa di ancora più grave: la malattia del piccolo Kalkidan. Un momento terribile per Netsanet, in cui ogni giorno portava con sé una nuova sofferenza: il peggioramento del bambino, il ricovero in ospedale, poi la diagnosi che identificava nell’AIDS la causa di quei malesseri. Non c’era tempo da perdere, la donna prese subito appuntamento con il medico per le necessarie analisi e le cure ma Kaldikin, purtroppo, a quell’appuntamento non arrivò mai. Il suo corpicino, troppo debole e provato, cedette prima, la morte lo strappò dalle braccia della madre senza darle la possibilità di lottare con lui. Quante lacrime versate, che gran dolore per quanto accaduto, quanti interrogativi ai quali non era semplice trovare risposte. Un’esperienza tragica, che all’inizio Netsanet dovette affrontare da sola perché il marito se ne era di nuovo andato qualche giorno prima del ricovero del bimbo e lei non sapeva dove fosse. Nonostante tutto ciò, quando Alemu tornò, lo riprese anche questa volta con sé e, dopo avergli raccontato quanto successo, con lui pianse di nuovo accoratamente quell’enorme perdita. Una morte troppo repentina per essere accettata, che portava con sé un altro problema impossibile da ignorare: con grande probabilità uno di loro o entrambi aveva contratto l’HIV. Fecero il test, in un primo momento risultò positiva solo lei, mentre l’esito di lui, negativo, doveva esser riconfermato dopo tre mesi. Ma al termine di quei lunghi novanta giorni le analisi rivelarono un’altra verità: anche lui era malato. A quel punto al tanto dolore si aggiungeva anche la consapevolezza che erano stati loro a trasmettere al piccolo quella malattia spaventosa.

Forse Netsanet non vuole che si scavi troppo nel suo passato e in quello del suo uomo, ma spiega di non sapere come hanno contratto il virus: “Io non ho avuto relazioni sessuali con altri uomini e non penso che sia stato lui a contagiarmi, – dice seria, ma senza dilungarsi troppo – forse l’ho preso quando ho curato una sorella malata, poi morta probabilmente per l’AIDS, o forse usando qualche strumento tagliante preso in prestito dai vicini e non pulito. Prima per queste pratiche non c’era nessuna attenzione”.

L’aver scoperto di essere entrambi malati li convinse, però, che potevano continuare a vivere insieme, che non c’erano motivi per separarsi, che avrebbero potuto sostenersi a vicenda. La perdita del piccolo Kalkidan aveva però lasciato un vuoto troppo grande per la giovane, il desiderio materno stroncato così presto ardeva ancora forte dentro di lei. Paure e timori erano lì, ma Netsanet non riusciva a rassegnarsi all’idea di non avere bambini. Per questo cercò aiuto al centro sanitario di Debre Markos e lì scoprì che aveva una possibilità, che esistono sistemi di prevenzione, che poteva assumere delle medicine per diminuire le possibilità di trasmissione del virus ad un eventuale nascituro. Finalmente una bella notizia per lei, ma come convincere il marito? Con la solita espressione seria che non volendo rivela tanta sofferenza, racconta che lui era contrario: “Aveva paura che nascesse malato e poi avevamo anche tanti problemi economici. Lui aveva smesso con il servizio militare a causa di problemi a una gamba e faceva lavori giornalieri, in genere nella costruzione di palazzi”. Lei però non era disposta a cedere, quel bambino lo voleva, confessa con tono perentorio, lo desiderava così tanto da essere pronta ad insistere con il marito fino allo sfinimento pur di metterlo al mondo e alla fine riuscì nel suo intento. Certo a quel punto le cose non sarebbero state semplici: c’era tutta la trafila all’ospedale da seguire rigidamente, affinché il bambino nascesse sano e al contempo il costante timore che potesse succedere qualcosa, che si potesse ripetere la storia del primogenito.

Le cose però non possono andare sempre nel verso sbagliato, in mezzo a tanta sofferenza ci deve pure essere lo spazio per un sospiro di sollievo e, dopo il parto, per Netsanet è arrivato quel momento: il secondogenito è nato sano, niente virus per lui. L’ha chiamato Yohanis e ora ha tre anni. Purtroppo però questo raggio di luce nella sua vita è stato offuscato da un altro dispiacere: Alemu l’ha di nuovo lasciata; a dispetto di quanto era sembrato in un primo momento, con il passare dei mesi le sue capacità di gestire il virus hanno cominciato a vacillare. Ai disturbi fisici si sono aggiunti problemi psicologici. Ora lei vive da sola con il bimbo. È molto dura per lei senza quell’uomo che, nonostante i tanti problemi e i maltrattamenti, continua a volere accanto: il suo sguardo quando lo dice si perde nel vuoto, il volto è contratto. Non si lascia andare a smancerie, è immobile sulla sua seggiolina, le braccia conserte e serrate, ma le parole e quelle poche espressioni che si lascia sfuggire rivelano tanta solitudine. Dopo quello che lui le ha fatto, sembra quasi una follia che lei ancora desideri il suo ritorno, ma è così, lo dice senza nessuna vergogna, come se fosse la cosa più normale del mondo nonostante il loro passato.

Ora, comunque, non è del tutto sola: durante le visite al centro sanitario per le cure nei mesi della gravidanza ha conosciuto i membri di Beza, la grande associazione di persone malate di HIV di Debre Markos nata anche con il sostegno del CVM. Un gruppo che fornisce supporto psicologico ma anche materiale. Per un periodo lei ed altre donne affette dal virus hanno gestito un piccolo bar dove vendevano tè e pane, purtroppo ora è chiuso perché alcune di loro sono morte e altre sono malate e non riescono a lavorare. L’associazione ultimamente però l’aiuta anche fornendogli discrete quantità di olio e grano. Da tempo, inoltre, lavora al centro sanitario: tre volte a settimana incontra le donne incinte, organizza la cerimonia del caffè e con altre colleghe, anch’esse malate di HIV, cerca di trasmettere alle future mamme preziosi consigli sul virus e non solo. La sua esperienza è un grande esempio per quelle donne: alcune come lei hanno l’AIDS e lottano per non trasmetterlo al nascituro. “Sono molto contenta di lavorare qui, penso al mio passato, alla mia storia e so che raccontandola e condividendo la mia esperienza con altre donne faccio una cosa utile. Può essere loro di esempio. Possono capire che con l’HIV si può convivere e che si possono far nascere bimbi sani, se si seguono i consigli del medico, se si adottano le necessarie precauzioni e si prendono le medicine”.

Camilla Corradini
Volontaria CVM, Etiopia

giovedì 2 settembre 2010

Amuneggh, l'ex housemaid cercatrice di legna


Gira per le strade di Debre Markos con grandi cesti pieni di legna e se la si guarda bene si scopre che con lei c’è un piccolo scricciolo, la sua bambina di poco più di un anno: è Amuneggh Mengestu e per sopravvivere raccoglie bastoni nel bosco e li rivende al mercato. Un lavoro faticoso, che la tiene occupata tutta la settimana per diverse ore al giorno e non le assicura neanche una vita dignitosa, ma purtroppo per lei non ci sono altre opportunità. In fondo, ci racconta timidamente, meglio questo che essere un’housemaid in casa d’altri. Lei lo è stata per un po’ e ne porta con sé terribili ricordi.
Amuneggh è originaria di un villaggio di campagna, Yezangira, 30 chilometri da Debre Markos. Dice di avere 19 anni ma a guardarla bene ne dimostra molti di meno. Tre anni fa è rimasta orfana, in poco tempo se ne son andati entrambi i genitori: prima il padre, morto forse per malattia, a quanto le hanno raccontato i vicini; la mamma sembra non abbia retto il colpo e dopo la scomparsa del marito si è ammalata, l’hanno anche portata all’ospedale ma per un solo giorno, poi di nuovo a casa, sempre a letto. Un mese di sofferenze e infine la morte anche per lei. Niente fratelli o sorelle con cui condividere quel terribile momento; così, trovatasi sola, Amuneggh ha lasciato il paesino e ha camminato fino a Debre Markos, dove vive una cugina con la sua famiglia, composta dal marito e dai loro cinque figli. Loro l’hanno ospitata per un mese, ma la sua presenza non era gradita, troppo poveri per accollarsi un’altra bocca da sfamare. L’hanno così aiutata a trovare un posto come housemaid, cameriera tutto fare, presso una famiglia di Addis Abeba. Amuneggh è partita alla volta della capitale, ma ad aspettarla non c’erano i fasti e le opportunità della grande città, bensì sfruttamento, solitudine, dure mansioni e nessun momento di riposo. Era costretta a lavorare 18 ore al giorno, anche di notte mentre tutti dormivano. Preparava l’enjera, i pasti, puliva la casa, lavava i panni, si occupava dei quattro bambini della famiglia, specie del più piccolo di appena due anni. Lavoro e soltanto lavoro, tutta la settimana senza neanche qualche ora libera e per soli 30 ETB (circa € 1,76) da riscuotere ogni trenta giorni. Dopo un mese di sfruttamento e atteggiamenti bruschi, Amuneghh non ce l’ha fatta più e ha chiesto di poter lasciare la casa e tornare a Debre Markos; in risposta a quella sua implorazione sono arrivate le percosse del capofamiglia. Fortunatamente la moglie del datore di lavoro, forse mossa da un’insolita pietà, per una volta ha messo da parte quei comportamenti rudi che di norma riservava alla ragazzina e le ha dato i soldi per andarsene via. La giovanissima orfana è tornata di nuovo dalla cugina, ancora una volta accolta come una scocciatura. Per un mese si è fermata a Debre Markos, dove ha guadagnato qualche soldo raccogliendo legna e rivendendola al mercato, poi è arrivata la seconda opportunità di lavoro come cameriera, ancora una volta trovata tramite la cugina, ma questa volta a Bahir Dar. Amuneggh è partita di nuovo pronta ad affrontare questa esperienza. Come nella capitale, anche nella nuova casa i guadagni erano veramente magri, ma le condizioni di lavoro più sopportabili: lavorava quattordici ore, invece che diciotto e aveva un giorno libero alla settimana, di solito la domenica. Le mansioni erano le stesse: cucinare, pulire, lavare i panni e occuparsi dei figli più piccoli di due e sette anni. Anche questa volta la giovane non ha trovato particolare comprensione da parte dei datori di lavoro: ancora atteggiamenti scostanti, ostilità, rimproveri, ma sicuramente un po’ meglio che nella famiglia di Addis Abeba e le cose sembravano procedere. Un’illusione per la ragazza, che ben presto si sarebbe scontrata con la cattiveria dell’uomo.
Dopo solo un mese nella nuova casa il giovane figlio del padrone, un ragazzo di 18 anni, ha infatti abusato di lei. Un’esperienza drammatica che non potrà mai dimenticare e i suoi occhi lo rivelano chiaramente. L’ingenua Amuneggh ha cercato aiuto dal capofamiglia e da sua moglie raccontando loro il terribile fatto, ma i due non le hanno creduto e hanno preferito dar credito alla versione del figlio: “Un uomo da fuori era arrivato e l’aveva stuprata”. Pesantemente violata, non creduta e per giunta cacciata via: già, perché il terrore che fosse rimasta incinta ha spinto i suoi datori di lavoro a rimandarla a Debre Markos. Come giustificare un’aiutante incinta? A quali problemi potevano andare in contro? Cosa avrebbe potuto pensare la comunità? Meglio lavarsene le mani subito senza neanche aver appurato la reale presenza di una gravidanza in corso, più facile cercarsi un’altra aiutante domestica, di ragazze povere disposte a lavorare in difficili condizioni ce ne sono molte. Inutili i tentativi di far cambiare loro idea per non perdere il lavoro, Amuneggh ha dovuto raccogliere le sue poche cose e ripartire alla volta di Debre Markos per bussare per l’ennesima volta alla porta della cugina e ricominciare a lavorare come raccoglitrice e rivenditrice di legna, per assicurarsi un posto in casa dei parenti ai quali in cambio dell’ospitalità consegna periodicamente somme di denaro. Non possono fare altrimenti: vivono in una casa in affitto, un’unica stanza non grande, pagano 60 ETB (circa € 3,52) al mese per stare lì, poi ci sono il cibo e le altre necessità a cui provvedere. La cugina e il marito, inoltre, sono malati di AIDS e l’uomo non ha un’occupazione fissa, ma fa qualche lavoro giornaliero quando non sta male. Anche ad Amuneggh, da quando è tornata, tocca fare la sua parte per mandare avanti la baracca.
Ritornata a Debre Markos, purtroppo per lei, le difficoltà non erano finite: la violenza sessuale aveva veramente procurato conseguenze che non si potevano ignorare, la giovane dopo lo stupro era rimasta incinta come temevano i datori di lavoro. Ancora un problema in più in una vita fatta di tristi momenti e continue complicazioni. Amuneggh però non poteva fermarsi, ha così continuato a lavorare. Nove mesi vissuti come se non fosse stata in dolce attesa, costretta dal bisogno di soldi a faticare normalmente: camminate nei boschi per raccogliere la legna e poi al mercato per rivenderla, enormi pesi sulle spalle nonostante il pancione crescesse, niente riposo e nessuna visita o controllo in ospedale. Impossibile chiedere aiuto alla famiglia del giovane che l’aveva messa incinta: sono rimasti a Bahir Dar e la ragazza non ha soldi per recarsi là e parlare con loro, tantomeno i parenti possono aiutarli, troppo poveri per perdere giornate di lavoro. Poi il momento del parto: in casa, anche questa volta niente clinica, ma per fortuna nessuna evidente complicazione a quanto riferisce con un’ingenuità disarmante, quasi non si rendesse conto dei rischi corsi. Per lei però non ci potevano essere i tradizionali 40 giorni in casa, di solito rispettati in Etiopia per ogni partoriente. Solo due settimane a letto per riprendersi un po’ e poi di nuovo cestone sulla schiena e via nel bosco.
Ora, però, c’è anche un’altra creaturina di cui occuparsi: Amuneggh l’ha chiamata Hulunayhue Nibiret, che vuol dire ‘ho visto molte cose’. Una scelta che porta con sé tutto il dolore e la sofferenza provati negli anni nonostante la giovane età, un nome che sta a ricordare le terribili esperienze vissute, i problemi e le difficoltà. Quella bimba però c’è, nonostante sia il frutto di una violenza, e Amuneggh non l’abbandona. Il problema, dopo il parto, era come fare a lavorare. Dove lasciare la piccola? Non c’è nessuno ad aiutarla: la cugina deve pensare per sé e i suoi figli non possono e non vogliono occuparsene, così Amuneggh si carica anche la neonata addosso, a volte in un cesto sulla testa, e spesso se la porta con sé nel bosco. Un peso in più, una difficoltà in più, specie al ritorno quando c’è la legna raccolta. Due viaggi al giorno nel bosco, se è stanca solo uno, tutta la settimana senza sosta. Poi al mercato per rivendere quanto raccolto guadagnando tra i 6 i 10 ETB giornalieri (da € 0,35 a € 0,58 circa). Poco per vivere, sfamare due bocche e versare la sua parte di affitto alla cugina.
Racconta che a volte non ci sono i soldi per fare tutti i pasti e mai per mangiare la carne: si nutre con i più economici pane, enjera e shiro. Per lei non ci sono altre opportunità per ora, lo ripete spesso, con un filo di voce e una tristezza negli occhi, pensando a quei coetanei che hanno trovato lavori migliori. Lei ha cercato un’occupazione come lavapanni o preparatrice di enjera, ma non ha trovato nulla. La legna ora è la sua unica fonte di sopravvivenza. Ripensando al passato, però, dice di star meglio e rivela che non tornerebbe mai a lavorare come cameriera per una famiglia. Troppo brutte le esperienze vissute, le cattiverie subite e ora traspare forte la paura degli uomini. Purtroppo in queste condizioni per Amuneggh non c’è opportunità neanche di formarsi, educarsi, nonostante il grande desiderio di studiare: non è mai andata a scuola, né quand’era a casa con la famiglia né dopo, quand’era aiutante in casa d’altri, perché i datori di lavoro non glielo hanno permesso. Non sa né leggere né scrivere. Ora, poi, con una figlia da sfamare è impensabile riuscire a trovare tempo e soldi per andare a scuola. Resta un sogno che un giorno spera di realizzare, insieme a quello di cambiare lavoro, magari vendere caffè e latte in un piccolo negozietto. Una speranza in più gliela sta dando l’Associazione di Donne Povere di Debre Markos. La coordinatrice, Hesbalam Mekonan, è una sua vicina di casa e l’ha trascinata nel gruppo: per ora non è un membro, ma l’associazione cerca di aiutare le housemaid e le ex housemaid. Amuneggh partecipa agli incontri della domenica, dove le donne approfondiscono temi quali l’HIV/AIDS e tutte le questioni ad essa relative, i loro diritti, le dannose pratiche di mutilazione femminile. È grazie a loro che la ragazza ora conosce meglio il virus, prima non ne aveva mai parlato con nessuno e praticamente non ne sapeva nulla. Non aveva mai fatto il test, neanche dopo la violenza o prima del parto. Le donne dell’associazione l’hanno spronata a farlo e due mesi fa, impaurita, si è recata in una clinica con la bimba: fortunatamente sono risultate entrambe negative. Per il momento, purtroppo, l’associazione non ha modo di coinvolgerla nel proprio lavoro e di assicurarle un guadagno, non ci sono le condizioni per dare un’occupazione anche alle cameriere o ex cameriere, ma cerca di sostenerle favorendo la loro educazione. Per il futuro, però, ci sono grandi progetti: il gruppo di donne povere da poco ha cominciato a vendere il latte e, con i guadagni di questa attività e della vendita di animali che alleva, vorrebbe aprire un piccolo bar-ristorante. Un localino che darebbe in gestione proprio alle giovani in difficoltà come Amuneggh. Sembra un sogno difficile da realizzare, ma la ragazza e la coordinatrice ci credono sul serio e, parlandone, i loro occhi si illuminano e i volti si riempiono di grandi sorrisi, mentre la mente già immagina il futuro bar pieno di clienti.

Camilla Corradini
Volontaria - Etiopia