lunedì 27 aprile 2009

CADERE, ALZARSI E RISALIRE



La straordinaria parabola di Eyayu

Da negletto, allontanato da tutti, quasi untore di manzoniana memoria, a campione da imitare, esempio di come nella vita ci si possa sempre rialzare, rimboccandosi le maniche e dandosi da fare. È la straordinaria, quasi miracolosa, parabola esistenziale di Eyayu, uomo di mezza età, che qualche anno fa scoprì di essere sieropositivo. Era il 2003 e lavorava come cameriere in un ristorante di Gonder, impiego umile ma onesto; lavoro che perse non appena il proprietario del locale venne a sapere della sua condizione, del “marchio” che recava ormai addosso, stigma indelebile, vergogna inaccettabile.

Eyayu aveva appena conosciuto il CVM - Comunità Volontari per il Mondo e, ricevuta una formazione medico-sanitaria e pure psicologica, attraverso il Positive Living Training, iniziava a divulgare informazioni sul virus che lo aveva colpito, non solamente per allontanare la discriminazione che segnava lui e tanti altri come lui, ma anche per prevenire altri casi simili, laddove la maggior parte della gente ignorava anche le minime nozioni pratiche sul contagio da HIV/AIDS. Il suo impegno in tal senso non valse, tuttavia, a guadagnare la stima del suo capo; tutt'altro. Licenziato, senza più uno straccio di lavoro e con la difficoltà persino di trovare cibo sufficiente per sfamare la propria famiglia, Eyayu trovò la forza di non arrendersi, di non lasciarsi andare di fronte agli sguardi di accusa e disprezzo dei suoi pari. Decise, allora, di far fruttare al massimo la formazione ed il capitale iniziale che CVM gli fornì: 500 birr, non molto ma abbastanza per consentirgli di mettere in piedi un'attività, grazie alla quale provvedere al sostentamento della propria famiglia ed essere economicamente indipendente dall'assistenza di terzi.

“Quando iniziai il mio programma di IGA (Attività Generatrici di Reddito, ndr.), – racconta Eyayu, all'interno del suo negozietto “marcato” Pepsi (nella foto), dove vende bevande, cibi e prodotti vari – la gente aveva paura di avvicinarsi al mio baracchino e pure gli studenti dell'Università qui accanto preferivano andare a comprare bibite e altro da rivenditori più lontani. Avvertivo pesantemente la discriminazione nei miei confronti. Ma poi, con il passare del tempo, trasferendo quanto insegnatomi dal CVM ai ragazzi che passavano di qui, facendomi io stesso formatore in tema di prevenzione e controllo dell'AIDS, il muro dello stigma è caduto poco a poco. Ora, i ragazzi e le altre persone, che si trovano a passare da queste parti, mi prediligono addirittura rispetto ad altri commercianti della zona! Sembra un paradosso, ma la chiave naturale di tutto è l'educazione, vale a dire la conoscenza che si acquisisce, che io ho acquisito dal CVM e che ora provo a trasmettere a quanti, clienti abitudinari o meno, si trovano a passare dal mio negozio, parlando apertamente con loro, senza remore o vergogna.”

Ne ha fatta di strada Eyayu, eccome. Per rendersene conto basta guardare l'auto gialla che sosta davanti al negozietto, un taxi con il quale l'ex negletto ne farà ancora altra di strada. “Ora – confessa Eyayu – riesco a gestire bene gli affari familiari ed il lavoro, che ci consente di vivere più che dignitosamente. Io e mia moglie ci alterniamo al negozio, poiché sono riuscito ad ampliare la mia attività con un servizio taxi. L'auto che è qui fuori l'ho acquistata investendo parte dei miei guadagni dall'attività commerciale. Devo ammettere, però, che non è stato facile: ho dovuto metterci tutto l'impegno, cosa che altre persone, nelle mie stesse condizioni sei anni fa, non hanno fatto, spendendo il capitale iniziale fornito loro dal CVM in alcolici, droghe e, nel migliore dei casi, in qualche pasto, senza avere lungimiranza. Ora queste persone vivono ancora del supporto di altri, del cui aiuto non possono fare a meno per sopravvivere.” Già, lungimiranza, capacità di pensare e vedere oltre, caratteristica che non fa certo difetto al buon Eyayu, il quale, a conferma di ciò, non si siede sugli allori, bensì guarda avanti, come ha sempre fatto in questi sei anni. “I miei piani futuri – confessa il commerciante – consistono nell'incrementare e migliorare sempre la mia attività, per poter aiutare la mia famiglia e farla vivere bene. Per questo, ho in programma di acquistare un'altra auto più grande per il mio servizio di taxi.” Guardare avanti e pensare positivo, al di là della propria sieropositività: per Eyayu non è un gioco di parole, ma un effettivo stile di vita, un'esemplare condotta esistenziale.


Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

giovedì 23 aprile 2009

C'è sempre un mango


C’è sempre un mango.

Il sole brilla chiaro ed indisturbato alto nel cielo azzurro, nessuna nuvola a intralciare i suoi raggi potenti e penetranti. Dondoliamo dentro il fuoristrada, sudati e sonnolenti per la temperatura e il viaggio di un paio d’ore su strade polverose e dissestate, oggi è giornata di visita sul campo, dopo giorni di lavoro in ufficio oggi è arrivato il momento di andare a vedere come procedono le attività ma soprattutto di incontrare i veri protagonisti del progetto che stiamo facilitando, donne e uomini dei villaggi del distretto di Bagamoyo, amici e compagni di viaggio.
Qualche discussione durante il viaggio, normalmente in inglese, sempre più spesso in “tentato swahili” e a volte in italiano. Complice il caldo, ci si assopisce, soprattutto io e Francesca, ma veniamo presto svegliati da una buca o da un dosso, non possiamo lamentarci, il nostro viaggio è molto più comodo rispetto a quello di qualsiasi altra persona che incontriamo lungo il tragitto, pulmini sovraffollati da mamme con il loro relativo fagottino dagli occhi grandi e neri, incerte biciclette sovraccariche e scricchilanti oppure gruppetti donne e ragazze in fila indiana con pesanti secchi in testa, i corpi avvolti da kanga variopinti e i volti rigati dal sudore.
Ormai è marzo e dovrebbe essere iniziata la stagione delle piogge, ma di acqua nemmeno l’ombra, solamente qualche breve acquazzone che dura meno del tempo di una canzone. Larghi appezzamenti di campagna iniziano ad ingiallire e i contadini iniziano a temere per i propri raccolti ma la per gran parte il colore dominante è ancora il verde degli immensi spazi non coltivati punteggiati da magre mucche al pascolo e palme spettinate dalla brezza proveniente dall’ Oceano Indiano. Arriviamo a Talawanda, il primo villaggio della giornata, ci accolgono volti sorridenti e mani tese, mani ruvide e dalla pelle spessa, sguardi timidi e sfuggenti, sguardi più vivaci e curiosi di bambini scalzi che giocano allegramente sotto un mango. Eh sì perchè c’è sempre un mango, c’è sempre un mango all’ombra del quale sedersi e chiacchierare, spuntano le sedie e le panche e ci si siede insieme, una alla volta spuntano le ragazze che grazie ad un piccolo prestito hanno migliorato o iniziato una loro piccola attività economica, c’è chi cucina, c’è chi compra e vende vestiti, che chi prepara pane e frittelle e le vende per strada, c’è chi ha deciso di vendere frutta e verdura o chi ha preferito il pesce. Ascoltiamo, consigliamo, incoraggiamo. Saliamo di nuovo in macchina e ci spostiamo verso il prossimo villaggio, Msata, anche qui c’è un mango, un verdissimo mango frondoso, al momento privo di frutti, ci sediamo con il gruppo locale dell’associazione di persone che vivono con l’HIV. Anche qui volti sorridenti, sguardi sfuggenti e mani ruvide, compaiono due stuoie e ci sediamo sotto il mango, ancora una volta scenografia naturale di questo incontro, all’ombra del mango ascoltiamo racconti di vita, di gente che lotta, gente discriminata, gente che ha voglia di vivere una vita piena e ha voglia di lottare.
Abbiamo viaggiato molto lungo le strade del distretto, stretto decine di mani, salutato molte persone, sotto un mango abbiamo condiviso problemi, ascoltato speranze e bisogni, sogni di un futuro migliore, l’importante è che ci sia sempre un mango sotto al quale sedersi senza fretta, lentamente, aprendosi all’ascolto e essendo pronti a raccontarci, per condividere qualcosa e crescere insieme. Credo che questa sia una lezione molto importante, dovremmo cercare un mango tutti i giorni, se non fisicamente, almeno un mango spirituale, sotto al quale sederci e lasciare da parte la fretta, i piccoli doveri quotidiani e lasciarci andare in conversazioni e cuore aperto, lentamente, senza tempo, senza barriere e senza pregiudizi, abbassiamo lo scudo protettivo di cui spesso abbiamo bisogno, o pensiamo di aver bisogno, per andare avanti nella vita di tutti i giorni. Abbassiamo lo scudo, abbassiamo le armi e sediamoci insieme sotto un mango, anche questo l’ho imparato qui, in Africa.

Stefano Battain
Volontario in Servizio Civile, Tanzania

lunedì 20 aprile 2009

Sotto la superficie delle cose


Wajakero Kebele – Hand Pomp

L'essenziale è spesso invisibile agli occhi.
Allora, laddove non si riesca a scorgere la soluzione ai propri problemi, a vedere immediatamente una strada da percorrere, la cosa giusta da fare potrebbe essere quella di non arrendersi e cercare in profondità, perché ciò che prima non si vedeva potrebbe finalmente emergere alla luce.

Così, per le circa settanta famiglie della comunità di Wajakero, piccola kebele della Wolayita Zone, non è stato facile avere ciò che prima non c'era, una fonte di vita dove agli occhi solo terra e polvere si mostravano o poco più. Nessun fiume, corso d'acqua o qualcosa che potesse vagamente avvicinarvisi. Almeno alla superficie delle cose. Già, perché ciò che avrebbe dato vita e benessere alla gente di Wajakero si trovava sotto terra, a 11 metri di profondità. É fin lì che sono arrivati a scavare, con la forza delle loro mani e l'impegno di chi sa che la meta si fa sempre più vicina: una fonte d'acqua da cui la comunità intera da un anno a questa parte si approvvigiona, per bere, cucinare, lavarsi, azioni semplici, essenziali, che però significavano in passato esporsi al serio rischio di infezioni e malattie, oltre alla perdita di tempo per raggiungere fonti idriche ben lontane dal proprio villaggio.
Tutto ciò, però, non sarebbe stato possibile senza il supporto tecnico del CVM, che ha reso fruibile la risorsa non più nascosta mediante un progetto di hand pomp, cioè pompa a mano, grazie al quale, con un semplice movimento di leva, ogni persona di Wajakero può far zampillare acqua pulita per sé e per gli altri. Ma, anche in questo caso, è bene non fermarsi alle apparenze, all'immediatamente visibile, perché sotto il meccanismo di leva ed uscita dell'acqua sussiste l'impianto atto a raggiungere la fonte sotterranea, da cui poi succhiare, tirar su mediante forza meccanica il liquido vitale: due condotti concentrici, il primo in plastica ed il secondo, di protezione, in cemento. In totale, un mese di lavoro per dare alle oltre 400 anime di Wajakero una fonte d'acqua finalmente loro, finalmente vicina, finalmente sana.
Il progetto targato CVM per la comunità di Wajakero non si ferma qui. Durante l'anno appena trascorso, infatti, sono state approntate ben 15 latrine per i servizi igienici di altrettante famiglie; anche questa cosa essenziale, elementare quasi, ma che scontata non è in tali luoghi, dove spesso manca persino la consapevolezza di ciò che è giusto, di ciò che è bene per la salute propria e di chi sta attorno. Per questo, l'opera del CVM, in tale specifico ambito, è iniziata con un'attenta attività di sensibilizzazione e formazione della popolazione sulle tematiche igienico-sanitarie, fin dal relativo abbiccì. Dopodiché, l'associazione ha fornito le strutture esterne in pietra, che fanno oggi da contorno ai fori approntati dagli stessi fruitori del servizio. Tra questi, c'è Alemitu, donna di casa e commerciante allo stesso tempo, che ha quindi doppiamente goduto dei benefici portati dalla pompa idrica e dalla realizzazione dei sanitari.
“Prima di avere una fonte d'acqua nel villaggio, – racconta Alemitu – dovevamo andare fino ad un fiume parecchio lontano e pure sporco. Quindi, ci ammalavamo e dovevamo spendere molti soldi per le cure mediche: cose che ora possiamo evitare, così come le perdite di tempo. Ulteriore beneficio è stata, poi, la realizzazione della latrina, che qui non abbiamo mai avuto.” “I benefici portati dall'intero progetto – continua la donna – sono tanti, sia per la mia attività commerciale che per la casa. Posso, infatti, dedicarmi di più al mio bar, senza andare a cercare acqua in posti lontani ed ho anche più tempo per accudire i miei bambini, cucinare e fare le faccende di casa, il tutto nella giusta maniera, pulita e igienica. Oltre a questo, ho avuto la possibilità di partecipare a diversi meeting sul tema del rispetto per le norme igienico-sanitarie, organizzati non solo dal CVM, ma anche da organi governativi. Tutto ciò mi ha fatto capire molte cose e ha accresciuto la mia consapevolezza.” Proprio così. Diventare consapevoli: è questo il primo passo da fare, come vuole lo stile operativo del CVM. Prendere coscienza, accorgersi di qualcosa, un po' come vedere ciò che era prima invisibile agli occhi.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

venerdì 3 aprile 2009

LE RAGAZZE DI LUGOBA


Le ragazze di Lugoba sono belle.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che sorridono dietro la rete di un bugigattolo colorato adibito a negozio di cellulari, o meglio, negozi di caricabatterie a pagamento, con tanto di rassegna completa di ogni tipo di caricabatterie esistente, soluzione per chi non ha la corrente in casa ma non rinuncia al cellulare.

Le ragazze di Lugoba sono quelle sorridono camminando lentamente trascinando le infradito e aggiustandosi il loro kanga* sgargiante mosso dal vento, vento che solleva la polvere rossa in turbini e onde, polvere che si muove nell'aria entrando nelle narici dei venditori di anacardi, pronti a rincorrere camion vuoti e pullman stipati di gente sudata diretti ad Arusha o a Dar es Salaam.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che vivono in case piccole e nel primo pomeriggio dormono all'aperto con un paio di bambini nudi, sdraiate per terra all'ombra di una veranda, sono quelle che passeggiano lungo la superstrada che attraversa il paese. Sono quelle che sorridono al'ora del tramonto, quando il sole diventa grande illuminando la pelle scura e liscia dei loro giovani volti, il cielo si fa arancione e il flusso continuo di camion traballanti e puzzolenti rallenta un po', l'aria si fa tiepida e leggera e i gas di scarico nell'aria diminuiscono, la polvere non si vede piu' ma si annusa lo stesso.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che escono dalle loro case all'imbrunire, quando il muezzin chiama i fedeli musulmani alla preghiera della sera e dagli altoparlanti eccheggia questo richiamo incomprensibile ma affascinante, la citta' inizia a respirare ed inizia una nuova vita per Lugoba, una vita buia, poche le luci, in movimento quelle dei rari camion che fanno fischiare i freni in questa notte africana, alcuni bagliori di fuochi accesi per arrostire il kitimoto (maiale) o friggere un chipsimayai (uovo e patatine fritte,insieme), l'odore di carne arrostita aleggia nell'aria mescolandosi a quello delle sigarette, il cibo e' pronto a sfamare camionisti di passaggio o uomini del posto che a sera hanno stancato i loro poveri sederi a forza di starsene seduti a bere e giocare a carte tutto il giorno.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che servono una birra dopo l'altra al bar o ballano il giovedi' improvvisando danze che mimano rapporti sessuali e poi il venerdi, con tanto di velo, si siedono al bar dopo la preghiera nella moschea.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che sono qui per caso, hanno due figli avuti presto che vivono con i genitori, un marito anima persa da qualche parte a Dar es Salaam e ti chiedono di pagar loro una soda o qualcosa da mangiare per non intaccare il magro stipendio da cameriera.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che si siedono ai tavolini di plastica silenziose e regalano sesso fugace in cambio di due birre o qualche etto di carne.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che se di amarle ti vien la voglia ti regalano il paradiso anche senza prenderle per la mano e senza salire al primo piano, anime perse sotto lo stellato cielo di Lugoba.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che stanno mentre tutti se ne vanno da qualche parte, capitate per caso, rimangono senza ragione se non quella di andare avanti, da sole, con le proprie forze, in qualche maniera, orgogliose ma a rischio, in molti sensi.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che si ammalano di AIDS, ingrossando le fila di questo flagello africano.#

Le ragazze di Lugoba sono quelle che fanno sesso con il preside della loro scuola a tredici anni, rimangono incinte e vengono fatte abortire in una bella e fredda clinica di Dar es Salaam, e vedono il carnefice della loro anima arrestato e rilasciato in poche ore perche' intoccabile segretario delle sezione locale del partito di governo e membro dei servizi segreti.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che hanno un futuro, forse...

*drappo colorato che copre gli arti inferiori, usato dalle donne tanzaniane anche per molti altri usi)

# Due terzi dei portatori di HIV vive in Africa (22 milioni su 33 totali).


Stefano Battain

Volontario in Servizio Civile, Tanzania

mercoledì 1 aprile 2009

STRANI INCONTRI


Assonnata e accaldata stavo seduta al mio posto nel minibus che mi riportava da Gonder a Bahir dar; come capita spesso, quando ti svegli presto ti senti infastidito da tutto e non hai voglia di parlare con nessuno. Era il momento di pagare e il mio vicino mi suggerisce il prezzo perché non mi venga applicata l’inflazione forenji. Così commossa per il suo aiuto non richiesto mi lascio trasportare dalla chiacchiera. E passiamo dal calcio, al sistema scolastico, dall’Italia alla religione per poi soffermarci sui fondamentalismi. E da qui iniziamo
Una persona schiva, delicata, a tratti impaurita ma mai nascosta. Mi comunica la sua voglia di aprirsi e così un po’ timidamente si accinge a raccontarmi la sua storia.
E’ un insegnante di inglese alla scuola media di Alefa, woreda del Nord Gondar situata a poca distanza da Gondar dove vivono i genitori e le sorelle.
E’ il primogenito di una famiglia musulmana molto ortodossa, di cui condivide il credo ma non lo stretto fondamentalismo.
Da quattro anni è sposato con una donna che ama, di fede musulmana, anche lei non particolarmente fervente, a sua volta insegnante ma in un'altra woreda, Metema.
Da un anno e mezzo condividono la gioia di un figlio, il quale vive con la madre nella casa della nonna materna, mentre lui si muove tra Metema, Gonder e Alefa.
Tutto sarebbe perfetto se non fosse che la sua famiglia, genitori e sorelle, ignora totalmente l’esistenza di sua moglie e di suo figlio, e stanno cercando di combinargli un matrimonio. Non ha avuto il coraggio di dirglielo, la forza di essere rifiutato, perché la famiglia non accetterebbe una donna poco osservante – mi racconta che sua cugina ha fatto una scelta simile, ma alla luce del sole, e per questo è stata diseredata. Vive così la confusione del non capire cosa in fondo sia giusto e cosa sbagliato, il peso di sentimenti contraddittori, quale strada prendere: l’adesione ad un clan ma anche la voglia di esprimersi, la paura ma anche il forte desiderio di liberarsi, la cultura e la natura.
E penso a com’è strano che si riesca a condividere tanto, quando si è perfetti sconosciuti. Quello che in quattro anni ancora non è riuscito a dire alla sua famiglia, è riuscito a confidarlo a una forenji. Paradossalmente le Distanze, le Differenze possono essere un ponte, quando sono ventaglio di possibilità, curiosità e ascolto. Molto più dell’Appartenenza, nel momento in cui, lontana dal rappresentare affinità e vicinanza, diventa chiusura nei propri confini, imposizione di una (presunta) verità, adesione ad un modello conformato.
Quando mi chiede cosa direbbero i miei genitori gli rispondo: “Per loro prima viene l’essere umano, la figlia, la persona e poi le categorie”, un bagliore nel suo sguardo, epifania dell’accoglienza.

Laura Andena
Volontaria in Servizio Civile, Etiopia