giovedì 21 giugno 2012

La Speranza in Africa è Donna

Il dramma dell'HIV/AIDS e l'impegno del CVM in Tanzania


Amina, Tabu, Asia, Ally, Sina, Mwajabu, Maria, Ashura, Nyasu, sono solo alcuni dei nomi di donne forti, coraggiose, sole, che ogni giorno convivono con il virus dell’HIV/AIDS che ha cambiato le loro vite, senza neanche sapere come “si sono conosciuti”. Ripudiate dai loro mariti perché infette, quegli stessi mariti che le hanno infettate, si ritrovano sole, con tre, quattro, cinque figli a dover affrontare una vita difficile, dura, impegnativa. Una o due volte al mese si svegliano molto presto al mattino, e con i figli, vanno in ospedale per sottoporsi al trattamento, una cura forte, che ha un impatto notevole sui loro corpi; passano lì l’intera giornata a districarsi tra i farmaci da prendere, i controlli da dover fare, e i figli da accudire che piangono perché hanno caldo o perché hanno fame e sete. 

Donne che vivono ai confini della società, allontanate da tutti, stigmatizzate, che senza neanche essere consapevoli di quale sia la loro colpa, si ritrovano, improvvisamente, ai margini della società. Donne spaventate, certo, anche perché è poca la conoscenza in materia, pochi i corsi di sensibilizzazione e di prevenzione, ma che non si abbattono, che si ingegnano, che trovano il modo di andare avanti per se stesse e per i loro figli. 

Parlando con loro, vedo, nei loro occhi tanta paura per il presente, tante incognite, ma anche tanta speranza per il futuro per loro e per altre donne come loro che vogliono “salvare” da questa vita; ed è per questo che molte delle donne che hanno contratto l’HIV/AIDS oggi sono tra le più attive nell’organizzazione e implementazione dei corsi di prevenzione, sensibilizzazione, educazione e nell’accoglienza e accompagnamento di altre donne malate. Hanno voglia di fare, di mettersi in gioco, vogliono cambiare le cose, credono che un altro mondo sia possibile e si impegnano per realizzarlo nonostante le mille difficoltà che incontrano da parte di una società che le ghettizza, una famiglia che le allontana, e uno stato che è incapace di soddisfare le loro necessità. Ma loro non si tirano indietro, non si lasciano schiacciare dal peso delle difficoltà e della solitudine e vanno avanti con l’aiuto delle associazioni che insieme a loro lottano per un futuro migliore, tra queste in prima linea c’è il CVM - Comunità Volontari per il Mondo, che è riconosciuta da tutti qui in Tanzania come una grande realtà che opera nel rispetto dei valori e delle tradizioni locali e lavora insieme alle comunità per rendere reale e non solo possibile un nuovo mondo. 


La speranza in Africa è donna, è delle donne, è con le donne ed è per tutti, 
grazie a questi grandi esempi di dignità.


Ludovica Cerritelli, giovane volontaria del CVM da Bagamoyo - Tanzania

martedì 12 giugno 2012

Io e loro, lì e qui


“Girando per le strade mi resi rapidamente conto di trovarmi intrappolato nella rete dell’apartheid. Anzitutto mi trovavo davanti al problema del mio colore di pelle. Ero bianco. In Polonia, in Europa, non mi era mai venuto in mente. Qui, in Africa, diventava la distinzione principale e, per la gente semplice, anche l’unica. Un Bianco. Un Bianco ossia un colonialista, un predatore, un occupante. Avevo invaso l’Africa, avevo invaso il Tanganica sterminando la tribù dell’uomo davanti a me, sterminando i suoi antenati. Ne avevo fatto un orfano e, per giunta, un orfano umiliato e impotente. Sempre affamato e ammalato. […] non riuscivo in coscienza a risolvere il problema della colpa. In quanto Bianco, per loro ero colpevole. La schiavitù, il colonialismo, cinquecento anni di torti subiti erano opera dei bianchi. Dei Bianchi, e quindi anche mia. […] Loro, i Neri, non avevano mai conquistato, occupato o imprigionato. Potevano permettersi di guardarmi dall’alto in basso. Erano di razza nera, ma pura. Mi facevano sentire disarmato senza niente da dire. Stavo male dappertutto. Per quanto privilegiata, la mia pelle bianca mi intrappolava nella gabbia dell’apartheid. ”                           

Ryszard Kapuscinski, EBANO


E’ mercoledì, abbiamo appena mangiato, con Peace (la mia responsabile) e con Molel (che mi chiama figlia mia perché i nostri cognomi si assomigliano), si parte alla volta di Saadani in tutta fretta: il corso di avviamento professionale per 30 ragazze sta volgendo al termine e noi dovremo essere al gate del parco nazionale di Saadani prime delle 18, altrimenti… matatizo (problemi) !!!
Lungo il tragitto, non sempre facile a causa delle condizioni delle strade e delle piogge, arriva la chiamata del responsabile del villaggio: nonostante i nostri tentativi nell’ultimo mese, per me è possibile entrare a Saadani solo pagando 20 dollari al giorno. Si ripropone quell’apartheid del libro che mi sta accompagnando in questi giorni: io discriminata perché bianca. Ed ora che si fa? Sono ormai in macchina, lo zaino è pronto, devo terminare con Peace i report e poi.. volevo rivedere le due associazioni! Vedere come procedevano i lavori! Lungo la strada mi sale un po’ di ansia.. passare delle notti da sola a Mkange, in una guest house che non è una guest house, conoscendo solo poche persone ed avendo la possibilità di parlare con ancora meno. Cosa mi aspetterà? Ma qui in africa ripetono sempre tutti “Hamna  shida”, e così cerco di liberare la mente e di farmi coraggio.
Arrivata a Mkange, una lieta notizia: la TOT (Trainers of trainees) del villaggio, Marta, nonché unica dottoressa, mi offre di dormire a casa sua. Suo marito è  a Dar per lavoro e suo figlio sta ultimando la scuola secondaria a Bagamoyo. Lei mi dice “Sono sola, perché non ti fermi con me?”. “Perché no? E poi in Africa non si può mai rifiutare o non accettare un invito!”.
E così mi ritrovo a casa sua, due stanze ed un piccolo ingresso, bagno esterno e polli, capre e papere tutte intorno. La mia stanza è anche la cucina, per andare in bagno devo uscire fuori, l’acqua viene usata con il contagocce e la porta è sempre aperta nel caso qualcuno avesse bisogno di essere medicato. Mentre consumavamo la prima cena insieme, pane fatto a mano e thè, vedo qualcosa muoversi nella stanza.. alla mia domanda su cosa fosse, lei risponde “do you know panya?”, “conosci i topi?”. E lì ho capito che in quei giorni avrei condiviso con Marta, le signore e i bambini vicini di casa e le ragazze dell’associazione ogni cosa.. dai pasti, al sonno, al tempo libero.
Che dire.. tra i più bei giorni finora trascorsi qui… guardando il cielo accanto al focolare, davanti ad un piatto di ugali e verdure offertomi dalla famiglia di Zahara, mi rendo conto di essere finalmente arrivata in Africa, l’Africa quella vera. Finora forse l’avevo solo assaporata, sì, c’è ancora molto da scoprire, ma ora i miei sensi iniziano a mettersi in moto..  l’accoglienza che tutti mi hanno riservato mi hanno fatto sentire davvero a casa.
La gioia delle ragazze che mi accolgono in classe, le loro risate ogni volta che provo a formulare una frase in kiswahili, i loro abbracci, la loro voglia di fare per cambiare realmente il loro futuro, hanno reso queste ore indimenticabili. Dopo 20 giorni di training sono in grado preparare sapone liquido, di realizzare batik, orecchini e collane, di preparare verdure e pesce in modo che possano essere conservati a lungo. Cosa il futuro riserverà per loro? Chi può dirlo con sicurezza? Ma di sicuro loro ce la stanno mettendo tutta!
Forse non riesco ad esprimere a parole quanto provato, forse è giusto così.. ciò che gli occhi vedono ed il cuore prova, a volte è un tesoro troppo grande per essere compreso. Avrei voluto abbandonare la mia mente in quei luoghi  e continuare a camminare su quella terra rossa ancora a lungo, ma il dovere mi richiama a Bagamoyo, e così si ritorna in ufficio.
Ma domani è un altro giorno, e farò di nuovo rotta per Mkange. 

Serena Morelli, volontaria in Servizio Civile in Tanzania