lunedì 19 dicembre 2011

E’ MESKEREM: PER MESKEL A MAKALLE’

 È Meskerem: per Meskel a Makalè. No, non è uno scioglilingua etiope ma sono rispettivamente  il mese di settembre, la festa della croce e una città del nord Etiopia. E sono anche le coordinate di un mio viaggio… 

 Martedì scorso qui era la vigilia di una festività, celebrata solo dagli ortodossi, per il ritrovamento della vera croce. Si dice  infatti  che  la  regina Elena, la moglie di Costantino, avesse voluto  la missione per  la ricerca della vera croce e che fu proprio lei, secondo la tradizione, a trovare il punto preciso in cui era sepolta. Qui ad Addis c’è la manifestazione più bella di tutta l’Etiopia proprio per questo evento.  Una  delle  piazze principali, chiamata proprio Meskel Square (la  piazza della  Croce),  la  sera  della  vigilia  ospita  una  grande rappresentazione fatta di danze e di sketch teatrali che ricordano il momento in cui la regina Elena partecipa al ritrovamento  della Croce.

 I balli e le rappresentazioni coreografiche sono davvero unici e spettacolari, vesti sgargianti e piramidi umane abbondano in tutti gli angoli  della  piazza,  al centro della quale viene creato un gigantesco rovo di legna ricoperta da erba, che, a vederlo da  lontano, sembrerebbe  il nostro albero di natale ma privo di ornamenti. Alla fine delle celebrazioni arriva  il Papa della Chiesa Ortodossa che con un cerimoniale appicca il fuoco alla pira a forma di croce. Spesso a questo rito seguono diverse feste nei quartieri con altrettanti piccoli roghi di croci in scala ridotta rispetto a quelli della piazza principale: di conseguenza, a tarda notte, Addis Abeba prende le somiglianze di una  cittadina  della  profonda  pianura  padana,  totalmente  avvolta  da  nebbia e fumi a tal punto che procedere con i taxi sgangherati tipici locali, già normalmente un’avventura, diventa così una vera e propria scommessa. 

 Questa festa, riconosciuta nazionalmente, sottolinea poi ancora di più la pluralità religiosa che caratterizza questo paese, infatti se già si notano con la marcata separazione tra le feste mussulmane (prima fra tutti la fine  del  Ramadan) e quelle  non, quest’occasione crea una ulteriore separazione  tra gli ortodossi e i protestanti. Io partecipo con curiosità ed interesse ad una di queste piccole feste organizzata da un gruppo di ortodossi residenti  in un grande condominio di un quartiere di Addis Abeba,  il condominio  in cui abita anche  la mia amica  Irmech  con  due  ragazze,  Aberash  e  la  “piccola” Mitu1; ognuno partecipa portando qualcosa, chi contribuisce con casse di bibite, chi con bottiglie di whisky, altri con dabbo o ambasha due diverse tipologie pane locale; ma il pezzo forte del menù, come nella maggior parte dei menù di festa è costituito dalla carne di pecora: siamo così tanti che noi di pecore per la serata ne abbiamo sei.


Marta Bonalumi
(Volontaria CVM - Etiopia)
 

mercoledì 7 dicembre 2011

Saluto

Quando arrivi e non sai ancora bene dove.
Quando il caldo asfissiante e la pioggia battente.
Quando il respiro affannato e la voglia di farcela.
Quando la confusione di un giorno al mercato.
Quando il sorriso di un ragazzino per la strada.
Quando l'abbraccio di una compagna di viaggio.
Quando il ricordo e il ritorno.
Quando il caffé, un volto, un incontro.
Quando provarci assieme.
Quando la speranza e il disincanto.

Quando tutto questo ha fine. E un'alba fragile. Altrove.


Simone

lunedì 5 dicembre 2011

Giovani tanzaniani in primo piano nella lotta all'HIV


1 Dicembre 2011 – Giornata Mondiale contro l’AIDS – dal 1988 si celebra la giornata contro una delle maggiori epidemie diffuse al mondo d’oggi, non solo nei paesi del Sud del mondo ma anche nel Nord, come testimoniano le percentuali in costante crescita, in particolar modo tra i giovani.
In Tanzania, sono proprio i ragazzi a costituire una delle fasce maggiormente esposte al contagio; diverse le cause: mancanza di educazione, disinformazione, scarse prospettive economiche una volta finita la scuola e di conseguenza limitata possibilità di proteggere se stessi e i propri diritti, in particolare per le ragazze. 

In occasione del World AIDS Day, numerose iniziative sono state organizzate nel Distretto di Bagamoyo per dare coraggio alle persone sieropositive che c’è ancora un futuro che li attende nonostante la malattia e per sensibilizzare la popolazione in generale sull’importanza di sottoporsi al test, conoscere lo status della propria salute e di non abbattersi di fronte all’AIDS perché non è motivo di vergogna e non è la fine della propria vita. Ad affermarlo le autorità del Distretto, della Ward, i rappresentati dell’associazione di persone sieropositive di Distretto, i bambini della scuola primaria, i gruppi artistici locali intervenuti durante la manifestazione organizzata a Talawanda, piccolo villaggio nell’ interno del Distretto quest’anno selezionato per la celebrazione del WAD a livello di Distretto.
Belle parole queste, ma ancora di difficile comprensione per la maggior parte della popolazione, povera, analfabeta, per cui l’unica aspirazione principale è conquistare un piatto di riso e fagioli a fine giornata. E poi lo stigma contro l’AIDS, ancora molto diffuso nelle comunità rurali, di certo non facilita la diffusione di informazioni: essere sieropositivo ha ancora un significato negativo, significa avere la vita rovinata, non avere speranza, significa morire. E questo è confermato dal fatto che alcuni villaggi non hanno dati ufficiali sul numero di persone che vivono con l’HIV, non di certo perché non ce ne siamo, quanto perché si nascondono, si vergognano della malattia e preferiscono viverla in segreto. 

La malattia può essere ancora motivo di abbandono da parte del proprio partner, da parte della propria famiglia, emarginazione da parte delle comunità in cui si vive. E per chi non ha le risorse economiche per pagarsi il trasporto per raggiungere il Centro di Salute più vicino o per chi vive in zone tanto isolate che raggiungere il dispensario più vicino significa camminare per metà o l’intera giornata, le prospettive di vita di riducono a zero.
Le persone che fanno parte dell’associazione di sieropositivi nata a livello di distretto nel 2006, sono per la maggior parte persone povere, che hanno avuto il coraggio di affrontare la malattia apertamente perché senza altre alternative, l’unica scelta possibile era vivere o lasciarsi andare. In questi mesi ho avuto occasione di collaborare con alcuni membri dell’associazione per la stesura di un progetto a loro favore, come parte del supporto che il CVM offre alle associazioni locali per crescere, potenziare le proprie capacità e rendersi economicamente indipendenti. E quello che mi ha stupito di più è la grande speranza che ripongono nel loro futuro, la forza di credere nell’ ‘insieme ce la possiamo fare’, nonostante le difficoltà, tra tutte la mancanza di educazione, di capacità specifiche e sufficienti risorse economiche per fornire un supporto concreto alle persone malate.

Ora tutti insieme costituiscono testimonianza vivente di speranza, dell’esistenza di una vita normale oltre la malattia.
E sono ancora gli ultimi, i marginalizzati, i più poveri che forniscono le più grandi lezioni di vita.
Uno tra tanti, Ally Mzee, 45 anni, vive a Saadani ed è sieropositivo. Ha contratto il virus attraverso la sua partner che non gli ha detto di essere affetta se non dopo aver visto i primi segni della sua malattia. Dopo un periodo di confusione, in cui aveva deciso di lasciarsi andare perché privo di speranze e in cui ha iniziato a vendere tutti i suoi beni perché senza risorse economiche, ha ritrovato la forza di tornare a vivere grazie ai figli che lo hanno aiutato moralmente ed economicamente. Ora è tornato a fare il pescatore, lavoro pesante ma che riesce a svolgere grazie al trattamento antiretrovirale. 

Vive serenamente la malattia, non si cura dello stigma che la comunità ancora manifesta contro le persone sieropositive e cerca di sensibilizzare i suoi colleghi di lavoro sui rischi e le conseguenze del virus. In questo momento in cui i grandi donatori, tra tutti il Fondo Mondiale per la Lotta contro l’AIDS, congelano i fondi a causa della crisi economica, è tremendamente importante unirsi a loro nella lotta contro questa malattia, affinché donne, bambini, uomini già affetti o in pericolo di contagio possano tornare ad avere una vita dignitosa.  


Valentina Romagnoletti (Volontaria CVM - Tanzania)
 

Due volti


Due volti: una ragazza sorridente, ancora giovane e spensierata; una donna adulta, dall’espressione triste, segnata in viso dall’età e dalla fatica. Due facce della stessa medaglia, della donna africana, ed espressione del cambiamento che avviene di frequente dopo il matrimonio: il passaggio da donna a sposa è spesso accompagnato dall’assunzione di un enorme carico di lavoro necessario per svolgere il ruolo di principale responsabile della famiglia, della cura dei figli e dell’ambiente familiare. Pregiudizi, usanze e costumi locali rappresentano ancora la donna come moglie e madre e l’uomo come figura forte all’interno della coppia, fonte di decisioni e ordini da rispettare.

Questa immagine per riassumere la condizione della donna in Africa e per indicare qual è la strada per proseguire verso il pieno riconoscimento dei diritti delle donne, affinché esse possano gioire della loro vita matrimoniale. “L’essere forti, capaci di difendere i propri diritti e tenaci nel combattere contro le violenze e le discriminazioni subite”… Questo il sentiero che suggerisce Christina Mwita, facilitatrice del primo seminario rivolto a 16 coppie sposate nelle Ward di Dunda e Magomeni, Distretto di Bagamoyo. L’attività, che rientra nel progetto DADA – Donne Attive e Diritti per tutti Adesso – finanziato dalla Conferenza Episcopale Italiana, sarà svolta nei prossimi mesi in tutte le Ward del Distretto di Bagamoyo e mira ad analizzare i rapporti di genere nell’ambito della coppia e facilitare il dibattito tra i partecipanti su diversi temi: diritti delle donne e dei bambini, divisione delle responsabilità/ruoli all’interno della coppia, relazione genitore-figlio, violenza di genere, il problema del sesso e delle gravidanze in età precoce, prevenzione e controllo dell’HIV.

Il seminario rappresenta un’occasione di incontro per discutere tali questioni affinché i partecipanti siano in grado di farsi portavoce all’interno delle comunità in cui vivono dell’importanza del rispetto tra i coniugi, dei propri figli, delle donne e dei bambini in generale.  


Valentina Romagnoletti (Volontaria CVM - Tanzania)
 

World AIDS Day a Bagamoyo


1 Dicembre 2011, Mercato del pesce di Bagamoyo. Qualche barca giunge a riva, i pescatori saltano giù e le spingono fino alla spiaggia. Altri gettano in mare le taniche gialle piene di olio proveniente da Zanzibar e, dopo averle legate l’una con l’altra, le trascinano fino al punto di carico. Le donne stanno sotto capanne dal tetto di lamiera a pulire e friggere pesce. Il via vai di persone è continuo, come tutti i giorni, ma oggi chi passa per il mercato si ferma a leggere il cartello che li avvisa che è possibile ricevere un servizio di VCT gratuitamente. VCT sta per Voluntary Counseling and Testing ed è un servizio a disposizione di coloro che volontariamente decidono di sottoporsi al test dell’HIV ricevendo una doppia sessione informativa, una prima e una dopo il test dell’HIV. 

 1 Dicembre 2011 è la Giornata Mondiale dell’HIV/AIDS e CVM, in collaborazione con l’Ospedale di Distretto, ha deciso di portare il servizio in mezzo alla gente. Questo è solo 1 dei 32 eventi che CVM ha sostenuto quest’anno. La scelta di avvicinare il VCT ai pescatori non è casuale. Secondo recenti dati forniti dalla FAO, il tasso di diffusione dell’HIV/AIDS nei villaggi di pescatori è dalle 5 alle 10 volte più elevato rispetto a quello registrato nei villaggi rurali a causa dell’alta mobilità dei pescatori, degli orari di lavoro, dei guadagni insufficienti e del difficile accesso alle informazioni e a servizi sanitari. Il tasso di diffusione dell’HIV sembra essere ancora più elevato tra le donne che lavorano nei villaggi costieri a causa della loro posizione economico e sociale. Nonostante ciò, le comunità di pescatori non rientrano tra le priorità di molte campagne nazionali di sensibilizzazione sull’HIV e/o di interventi di istituzioni o organizzazioni internazionali. 

Ma oggi, al mercato del pesce, tanti dopo aver letto il cartello hanno deciso di parlare con la dottoressa e sottoporsi al test, tanti, soprattutto ragazzi tra i 16 ai 30 anni, hanno voluto sapere e non hanno avuto paura di essere giudicati dagli altri e stigmatizzati come sieropositivi. C’è chi ha saputo e voluto cogliere questa opportunità e chi invece ha preferito non fermarsi, ha preferito non sapere, ma non ha potuto non vedere chi invece il test lo ha voluto fare, diventando testimone inconsapevole di cambiamento. Cambiamento necessario per “Arrivare a Zero” -  Zero nuove infezioni, zero discriminazioni, zero morti AIDS-correlate. 


Daniela Biocca (Volontaria CVM - Tanzania)

giovedì 1 dicembre 2011

Le tante "Mujaba" nella Giornata Mondiale contro l'AIDS


 Mentre un’altra Giornata Mondiale contro l’AIDS si sta celebrando in tutto l’emisfero, i nostri operatori qui a Bagamoyo, in Tanzania, sono con le comunità rurali per promuovere e diffondere il servizio mobile di test e consulta volontari per l’HIV, laddove non ancora presenti.
 Centinaia di migliaia di uomini e donne africani sono ancora troppo lontani e non raggiunti da questi vitali servizi, come succede alle comunità del Distretto di Bagamoyo, nonostante la cittadina disti solo 70 Km dalla capitale  Dar es Salaam.

 La signora Mujaba, lei stessa affetta da HIV e parte dello staff CVM qui a Bagamoyo, sta accompagnando le persone sieropositive di un villaggio in un percorso che le porterà a parlare apertamente e senza vergogna del proprio stato, vivendo in maniera positiva la propria condizione: finora, oltre 800 sieropositivi nel distretto hanno formato ed informato altre persone sui temi dell’AIDS, rendendosi attivi nell’opera di prevenzione del virus. In ogni villaggio si è creata un’associazione di persone positive all’HIV, che hanno come riferimento Mujaba.  

 Ovunque, anche qui a Bagamoyo, si sta celebrando la Giornata Mondiale contro l’AIDS ed il nostro team è accanto alle comunità e alle famiglie del posto, per porre l’attenzione sui temi relativi alla prevenzione, al trattamento e all’utilizzo del test per l’HIV. Questo perché bisogna continuare l’attività di prevenzione per le milioni di persone, soprattutto giovani, all’interno dei nostri programmi CVM / APA (AIDS Partnership for Africa) in Tanzania e in Etiopia.

 Mujaba è una donna dalla grande forza e può facilmente assistere altre persone sieropositive ed aiutarle a vivere bene il proprio stato all’interno delle proprie comunità, a non aver paura e ad essere in prima linea nella battaglia per la sensibilizzazione e l’informazione sul tema, passaggi obbligati nei progetti di prevenzione e controllo dell’AIDS. Mujaba stessa ha un figlio e, grazie al suo lavoro per APA e alla disponibilità di farmaci anti-retrovirali, può mandarlo all’Università.

 Mujaba, come milioni di donne africane, è al centro delle conseguenze della pandemia: esse possono essere infette e allo stesso tempo assistenti e curatrici, sono le più esposte ed in prima linea nella battaglia contro lo “stigma” e la discriminazione che da sempre accompagnano lo stato di sieropositività. Senza di loro e senza il loro coraggio, la loro forza, l’Africa non sarebbe dove è ora nell’attività di prevenzione del virus. Sono loro ad aver pagato il prezzo più alto, soffrendo in silenzio nelle famiglie e nelle comunità. Sono le organizzazioni come CVM ed APA ad aver cambiato le loro vite, dando loro ancora speranza e rendendole figure chiave nella lotta alla malattia, con il coraggio e la forza che contraddistinguono la donna africana.

 Uniamoci, dunque, a Mujaba e alle milioni di donne dei programmi CVM / APA di prevenzione AIDS. E prendiamo un pizzico del loro coraggio per fare il possibile e sostenere le tante “Mujaba” presenti in ogni villaggio africano, autentiche eroine nella lotta al terribile virus.

INSIEME POSSIAMO… FARE LA DIFFERENZA


Marian Lambert
(Coordinatrice Progetti CVM / APA)   

martedì 8 novembre 2011

Forze Armate: non c'è nulla da festeggiare!!





(anche se in ritardo, pensiamo meriti un'attenta lettura...)


  Domani (4 novembre, ndr) è la Festa delle Forze Armate, ma coi tempi che corrono, non c'è proprio nulla da festeggiare. Anzi, è arrivato il tempo di ripensare un'istituzione pubblica che ci costa ventisette miliardi di euro all'anno, che spende male e spreca moltissimo. Domandiamoci: A che ci serve mantenere 178.600 militari in servizio quando ne impieghiamo al massimo trentamila? Perché accettiamo che nel frattempo la polizia continui ad essere gravemente sotto organico? A che ci serve avere un generale ogni 356 soldati e un maresciallo ogni tre militari in servizio (in tutto 500 generali e 57.000 marescialli)? 

 A cosa ci servono due portaerei, 131 cacciabombardieri, 400 carri armati e centinaia di altre armi che non potranno e dovranno essere mai utilizzate? Perché vogliamo costringere i giovani a pagare il conto delle armi che stiamo ancora costruendo? Perché continuiamo a mantenere quattromila soldati in Afghanistan quando tutti sanno che dieci anni di guerra non hanno risolto alcun problema? E ancora (sono le domande puntuali del Generale Fabio Mini): Perché illudiamo i giovani sulle prospettive d'impiego e buttiamo i soldi facendoli giocare alla guerra? Perché arruoliamo volontari per un anno quando abbiamo sempre detto che non basta per addestrare, non basta per mandarli all'estero e uno di loro costa complessivamente come uno in servizio permanente? 

 Perché continuiamo a reclutare ufficiali e sottufficiali e li promuoviamo come se in futuro dovessimo avere dieci corpi d'armata? Perché diciamo di avere un esubero di marescialli, che comunque sono già addestrati, e una vita operativa futura di pochi anni e li vogliamo rimpiazzare con un ugual numero di sergenti da formare, addestrare e tenere in esubero per i prossimi 40 anni? Perché avevamo uno "scandalo" di comandi centrali e periferici ridondanti e oggi li abbiamo moltiplicati senza migliorarne l'efficienza? Perché dobbiamo lasciare alla speculazione e all'abusivismo gli immobili militari dai quali sappiamo di non ricavare nulla di significativo? Perché facciamo gravare gli oneri della crisi sul personale e non tocchiamo i contratti esterni, gli appalti, le forniture e gli sprechi?

La risposta a tutte queste (e a molte altre) domande è un atto dovuto a tutti i giovani che non riescono a trovare un lavoro, a chi lo sta perdendo, a chi pur lavorando tantissimo non riesce a vivere dignitosamente, a tutti quelli a cui i tagli del governo stanno rendendo la vita impossibile.

In poche parole: Non possiamo tollerare uno spreco così enorme, non ce lo possiamo più permettere. Dobbiamo programmare un taglio radicale delle spese. Dobbiamo ripensare in che modo e con quali strumenti vogliamo garantire la sicurezza del nostro Paese e dell'Europa. E' un dovere improrogabile!

PS. Domani, 4 novembre, ricordiamo le vittime innocenti di tutte le guerre e di tutte le nazionalità, dai seicentocinquantamila italiani che sono stati ammazzati "nell'inutile strage" della Prima Guerra Mondiale ai quarantacinque militari italiani che hanno perso la vita in Afghanistan, i feriti, i mutilati, gli invalidi e tutti i loro familiari. Con questo spirito oggi rinnoviamo il triplice appello di Assisi: Mai più guerra! Mai più terrorismo! Mai più violenza!







 
Flavio Lotti
(Coordinatore Nazionale Tavola della Pace)

venerdì 4 novembre 2011

La lunga strada verso... l'acqua

 Marwa è un villaggio situato nel distretto di Same, a nord della Tanzania. La zona è particolarmente arida e le piogge sono scarse in tutto il periodo dell’anno. A Marwa vivono circa 2.000 persone, per lo più Maasai che hanno dovuto abbandonare il loro insediamento d’origine a causa dell’apertura del parco naturale del Mkomazi. Nel villaggio c’è un pozzo solo, ma l’acqua è troppo salata e praticamente inutilizzabile. La distanza tra il villaggio e il fiume Pangani è di 2 ore di cammino. Due ore per andare e altre due ore per tornare dalla fonte di acqua più vicina e raccogliere al massimo due taniche di acqua, che sicuramente non basteranno a soddisfare le esigenze di una famiglia assai numerosa. Acqua che per essere potabile si dovrà bollire e ciò richiede altro lavoro perché serve legna da ardere.

 La mancanza di acqua potabile condiziona inevitabilmente la vita dell’intera comunità compromettendo la salute di tutti, ma sono le donne a subirne le conseguenze più gravi a causa della loro vulnerabilità materiale, la loro esclusione dai processi decisionali e dalla gestione delle risorse e la mancanza di sensibilità di genere. La negazione del diritto all’acqua compromette inevitabilmente l’accesso ad altri diritti, come quello all’istruzione, al lavoro e alla salute. La raccolta dell’acqua occupa infatti gran parte della giornata e richiede un gran dispendio di energie. Questo vuol dire che le bambine lasciano la scuola, le ragazze non avranno quindi capacità e tempo di trovare un lavoro e il peso e la fatica del trasporto avrà conseguenze per la loro salute: soffrono dolori alla schiena, le loro spine dorsali sono ricurve e deformità pelviche sono date dal carico dei grossi contenitori d’acqua portati sulla testa. E non importa se sono malate, disabili, in gravidanza o se sono troppo giovani o troppo anziane, perché la raccolta dell’acqua è il primo punto di una lista lunga di compiti quotidiani che spettano alle donne Maasai: pulire, cucinare, lavare, prendersi cura dei bambini, accudire il bestiame sono solo alcune delle loro attività giornaliere e per tutte c’è bisogno di acqua.

 Per questo la giornata delle mamme e delle giovani donne Maasai inizia sempre alle 5 del mattino. Dopo aver munto le mucche ed essersi prese cura del bestiame, caricano le taniche di plastica sulla testa e si incamminano verso il fiume. Il corso d’acqua non è sicuro, perché infestato di coccodrilli che attaccano essere umani e animali. Il percorso verso l’acqua è lungo, assolato, pieno di pericoli e faticoso e sono sempre e solo le giovani donne a farlo. Per fortuna mai sole, sono almeno in coppia, per aiutarsi, per proteggersi a vicenda, per procurare una risorsa alla quale non si può rinunciare, della quale non si può fare a meno. Ma come potrebbe cambiare la loro vita se l’acqua fosse disponibile nel loro villaggio? Quanta sofferenza potrebbero risparmiarsi e quanto di bello può venir fuori dall’unione delle loro forze?


Daniela Biocca (Volontaria CVM - Tanzania)

lunedì 19 settembre 2011

Networks of Housemaids and Sex Workers Associations

Following the decision made on the Regional Workshop of Women, Children and Youth Affair Departments and Women Associations on June 20/2011, the Amhara Regional Bureau of Women, Children and Youth Affair (BWCYA) in collaboration with CVM regional Project has started working to establish regional, zonal and Woreda networks both for housemaids and sex workers associations, organizing a team. The team has planned to establish the regional networks in two months, and start establishing zonal and Woreda once respectively. It has also planned to establish new association in the areas where there is no.

The establishment is aimed to build the capacity of the associations through strong partnership, coordination and networking. As a first step, the team has given orientation for the 6 zones housemaids and sex workers associations’ representatives who were attending the 7 day Leadership and Management Training organized by CVM in collaboration with BWCYA, to improve their understanding on the importance and procedures of network establishment.
In the orentation program, Ato Awoke, the leader of the team, said the main mandate of the BWCYA was facilitating such kind of women structures which is an important base for the straggle against women and girls problem. Therefore, he said “we are happy to strength your association establishing networks at different level and providing all necessary supports.”

Of many questions raised on the orentation program, the role of BWCYA and its respective departments in the establishment process was the most pertinent.  Regarding this, Ato Awo-
ke explained that the team togther with Zone and Woreda departments would be involved in
every process of the establishment. Following this, the associations’ representatives
exchanged their address with the team for future collaboration.

In order to prepare all necessary documents and manuals for the networks, the team has started collecting data regarding the associations. In line with this,  CVM Regional Ofice has been requested to bring the administration manuals of the associations found in West Amhara.


Betre Yacob
(CVM Regional IEC Department)

lunedì 5 settembre 2011

E tu, cosa vuoi fare da grande?


Quando ero alla scuola elementare una media tra le 100 e le 250 persone tra famigliari, conoscenti e persone incontrate per poco usavano fare sempre la solita domanda: che cosa vuoi fare da grande? All’epoca si risponde che si vuole diventare archeologi, dottori, astronauti o inventori, anche se in fondo non si sa bene di cosa si stia parlando. Poi, non so per quale motivo, quando cresci questa domanda non te la fa più nessuno e diventi a tua volta quel familiare, quel conoscente o quella persona incontrata per caso che si trova a fare sempre la solita domanda. Qui a Bagamoyo, quando si chiede ad un ragazzo o ad una ragazza cosa vuole fare da grande, non sempre si ha una risposta perché è difficile pensare a quello che succederà in futuro tra i banchi di scuola. Ancora più difficile immaginarlo al di là delle mura scolastiche.


Secondo il Ministero delle Finanze e degli Affari Economici tanzaniano, il 50,3% dei bambini tra i 7 e i 14 anni sono iscritti alla scuola primaria, il 49,7% sono bambine. Solo 52,7% riesce a completare la formazione primaria. In particolare, sono prevalentemente le bambine a lasciare la scuola a causa di gravidanze precoci, matrimoni concordati, mancanza di risorse economiche o per la perdita di uno o entrambe i genitori. Di conseguenza solo il 35% delle ragazze continua la formazione secondaria. Quando studiare è un privilegio, qual è la risposta alla domanda che cosa vuoi fare da grande?
BAGEA - Bagamoyo Girls Education Association – vuole dare la possibilità alle ragazze tanzaniane di poter trovare una risposta a questa domanda. BAGEA è un’associazione che ha lo scopo di promuovere il diritto allo studio delle ragazze e i diritti delle donne attraverso programmi di supporto scolastico e lo sviluppo di reti di collaborazione con le autorità locali e altri soggetti interessati del Distretto di Bagamoyo, al fine di sviluppare strategie d’azione comuni. Legalmente registrata nel 2009, BAGEA è nata dalla volontà delle ragazze che nel 2008 hanno beneficiato del programma di sostegno scolastico promosso da CVM, in collaborazione con alcune donne delle comunità locali che volontariamente hanno deciso di costituire un comitato distrettuale a favore dell'istruzione femminile.


Il programma di sostegno
all'istruzione promosso da CVM si basa su un sistema di borse di studio-prestito per permettere alle ragazze l'accesso alla formazione tecnica post-primaria, al college oppure all’università. Dopo che le ragazze hanno trovato un’occupazione, inizia la restituzione della somma della borsa di studio-prestito a piccole rate cosi che un nuovo prestito sia disponibile per sostenere nuove ragazze. Negli ultimi 2 anni, BAGEA ha lavorato al fianco di CVM nell’implementazione di tale programma, oltre che a promuovere una serie di iniziative di sensibilizzazione rivolte ai giovani del Distretto su temi quali: salute riproduttiva, diritti delle donne, HIV/AIDS e altre malattie sessualmente trasmissibili. Oggi, 160 ragazze di età compresa tra i 15 e i 28 anni sono membri di BAGEA, esiste un comitato a livello di distretto e 5 comitati per l’educazione in 5 ward (unità provinciali) del Distretto di Bagamoyo.


Quest’anno BAGEA ha rinnovato leadership e rafforzato il proprio impegno sul territorio implementando un nuovo programma di supporto scolastico che interesserà 15 ragazze e lanciando una serie di iniziative per la raccolta fondi. La nuova leadership è giovane e motivata, pronta a fare esperienza e a far fronte al problema delle risorse non sempre sufficienti. Tutti i membri credono nell’associazione e nella missione di cui si fa promotrice, sono convinte che attraverso l’istruzione le ragazze abbiano la possibilità di costruire la propria dignità ed integrità, conquistare il diritto ad immaginare il proprio futuro e provare a realizzarlo perché, a volte, poter rispondere a domande banali come quella che cosa vuoi fare da grande significa più di quanto possa sembrare.



Daniela Biocca

(Volontaria CVM in Servizio Civile - Tanzania)

Una cartolina da... Debre Marcos


Una mamma e una figlia parlano del futuro, come in ogni paese del mondo; ma in questo paese la mamma parla a Tigisti, la figlia appena dodicenne, della possibilità di sposarsi come unica soluzione alla povertà che la circonda. Tigist si confronta al riguardo con le sue amiche a scuola che le consigliano di fuggire dal villaggio rurale in cui vive per evitare di venir sposata a un uomo adulto precludendosi la possibilità di crearsi una propria autonomia studiando e lavorando. Fuggendo magari in una grande città, le consigliano le amiche, troverebbe un lavoro, magari in un bar, e sarebbe felice. Tigist arriva in città ed effettivamente un lavoro lo trova facilmente, presso una famiglia, come donna di servizio. Le offrono un tetto sotto cui dormire e dei pasti caldi in cambio del lavoro domestico. Le sembra una buona opportunità. Ben presto però Tigist si accorge di non avere per le mani quello che si aspettava, gli orari di lavoro sono prolungati, i riposi inesistenti, il carico di lavoro smisurato. La padrona di casa inizia a mal trattarla e il figlio maggiore abusa più volte di lei. Un giorno, esausta per la situazione che sopporta quotidianamente, decide di abbandonare l’abitazione in cui lavora e di fare ritorno al suo villaggio, a casa sua. La gravidanza indesiderata e frutto di un abuso è un tabù che non può affrontare in casa quindi, sempre sotto consiglio delle amiche, si reca da un wogesha ossia il “medico” del villaggio che le da un infuso di erbe locali da bere per perdere il bambino che porta in grembo. La bambina-madre fa quindi ritorno a casa e dopo aver salutato la famiglia si chiude in una stanza per assumere la medicina preparatale dallo stregone. Dalla stanza proviene un urlo, un gemito e poi più nulla. Tigist è morta, avvelenata.

Tigist in questo caso è il personaggio interpretato da Tena, una bambina della Brue Tesfa,
l’associazione di bambini orfani a Debre Marcos. I bambini dell’associazione hanno
preparato questa recita per dare il benvenuto al gruppo Teatro Verde che per due settimane
lavorerà con loro per scoprire come il teatro e l’attività creativa in generale possa aiutare nell’elaborazione dei traumi in situazioni problematiche come la vita di un bambino orfano in un paese povero come l’Etiopia. La storia di Tigist è purtroppo la storia vera di migliaia di bambine e ragazzine etiopi che per sfuggire a situazioni disagiate finiscono per vivere vere e proprie tragedie a causa di diverse ma altrettanto difficili condizioni di vita e di lavoro. Tigist non è quindi un personaggio frutto della fantasia di un “regista” ma è la pura realtà che questi bambini si trovano davanti agli occhi ogni giorno. La tranquillità, la naturalezza e la serenità con cui i bambini recitano questa trama mi lascia intuire quanto questa storia si ripeta quotidianamente nelle loro piccole vite; le loro risate davanti allo stupro e alla morte della ragazza si potrebbero giustificare con scuse come superficialità o incomprensione dovuta alla tenera età degli spettatori, o forse dovrei dire che sarebbe bello poterle spiegare così. La realtà purtroppo è diversa. La realtà è che ridono di fronte a queste scene per sdrammatizzare la sofferenza che portano dentro di loro. Ridono per poter affrontare l’oggi e arrivare al domani. Ridono e mettono le loro vite in una rappresentazione teatrale per esternarle, per affrontare e poi provare a rielaborare tabù e realtà che sono insite nelle loro vite.

Il lavoro del gruppo di teatro comincia. I bambini pian piano entrano in sintonia e in relazione con i nuovi arrivati che parlano una lingua strana (“se magna”?), hanno la pelle bianca (con numerosi puntini rossi … a causa delle pulci) e fanno cose strane come urlare, camminare sulle mani o tenere un legnetto sul naso alla cui sommità gira un piattino colorato. L’amarico e l’italiano si mescolano con un pizzico di inglese (q.b.) fino a ottenere un variopinto vocabolario di
neologismi che solo chi frequenta questo gruppo variegato può veramente capire. Fin da subito si fanno protagonisti i bambini dei quali risaltano i particolari caratteri che verranno poi associati con i personaggi da interpretare. Alla fine delle due settimane Negus sarà un perfetto Hansel e Desta sarà Gretel. Nasanet e Abaynesh interpreteranno la doppia natura della strega. Negus sulla scena sarà un bambino abbandonato come lo è nella vita. Ma nella vita vera lui una sorella non ce l’ha. Ha solo una povera e anziana nonna che lo ha accolto quando la madre è morta di AIDS e il padre, militare, è andato via senza più dare sue notizie. La nonna vive vendendo semi bolliti vicino al mercato. Negus si occupa di tutto in casa, pulisce, lava, raccoglie la legna e aiuta la nonna cucinando quel poco cibo che quotidianamente possono consumare. Negus ha 12 anni ma a vederlo sembra averne massimo 7. Quando con Ennio andiamo a visitare la sua casa per fare alcune riprese la nonna ci racconta di come, nonostante i vicini le consigliassero di abbandonare sulla strada quel bambino che crescendo malato e irregolare nel suo sviluppo le toglieva solo le ben poche risorse, con enormi sacrifici e con l’aiuto di
altrettante buone persone sia riuscita a farlo sopravvivere e guarire. Negus sarà il protagonista sulla scena del teatro ma la nonna non potrà assistere allo spettacolo altrimenti quella sera cosa mangeranno lei e Negus?

Una altra ragazzina della Brue Tesfa non avrà parenti alcuni a vederla muovere le braccia come foglie mosse dal vento nel bosco di Hansel & Gretel. Si chiama Zahara, ha 19 anni ma è ancora minuta. Ha la pelle rovinata, gli occhi doloranti ma cerca di sempre di nascondere la sofferenza dietro un flebile sorriso. Vive da sola in una stanzetta in affitto sul retro di una casa nel sobborgo di Debre Marcos. Nella sua stanza, appese alla parete, si scontrano versi di preghiere, foto di coppie innamorate e frasi malinconiche con una marcata ridondanza sulla relazione madre e figlia. Non c’è speranza in quella stanza, nemmeno una briciola. Zahara ha visto morire la mamma e sa anche di avere la sua stessa malattia. Conosce bene quello che l’aspetta ed è convinta anche che non c’è posto per la speranza. Va a scuola, cerca con tutte le sue forze di costruirsi il suo domani, prende le medicine e ringrazia tutti quelli che credono e vogliono credere nel suo futuro, ma la stanza dice anche quello che lei non ci dice. Lei vuole guardare avanti e vuole imparare a sperare ma quando troppo spesso il passato, come una spina
di un rovo quando si passeggia nel bosco, le prende un lembo del vestito e tira in direzione contraria, e tira tanto forte che ogni volta le strappa un pezzettino di quel bel vestito a fiore e toppe.

Ogni tanto, durante le prove, compare un ragazzetto basso e magro con degli occhialetti calati sul naso e una bicicletta sempre con se. È Tesfaye, ha 21 anni e studia infermieristica all’ospedale di Debre Marcos. Anche lui è un membro della Brue Tesfa. Si preoccupa che tutto vada bene, essendo uno dei più grandi tra gli orfani della associazione si sente un fratello maggiore e si comporta di conseguenza supervisionando i piccoli. Tesfaye ha perso la mamma quando era poco bambino, non si ricorda molto; di lei sa quello che gli hanno raccontato vicini e parenti. Pare
sia morta per liberare la sua famiglia da una profezia predetta da un wogesha secondo la quale con la sua morte avrebbe salvato 7 generazioni da lei discendenti. Per amore della famiglia la donna si sarebbe quindi suicidata lasciando i figli orfani di madre. Lasciando aperta una porta su altre possibili interpretazioni (come malattie talmente tabù da preferire un suicidio alla verità) rimango comunque esterrefatta dalla crudeltà subita dalla donna.
Arriva il giorno dello spettacolo finale, i bambini, chi più e chi meno, hanno lavorato arduamente per due settimane ininterrotte alla preparazione di un Hansel & Gretel rivisitato e riadattato. Nella versione etiopica i due fratellini vengono presi in trappola dalla
strega non attratti da una casetta di marzapane e cioccolato bensì da olio, carne e zucchero, beni di primissima necessità altamente desiderabili e desiderati dalla popolazione a causa di indisponibilità sul mercato. Lo spettacolo è poi stato arricchito con intermezzi di
giocoleria e di teatro comico per dare spazio a tutti le diverse abilità personali dei piccoli attori.

All’esibizione accorre un vastissimo e caloroso pubblico attirato al teatro dalla musica e dalle esibizioni di giocoleria per la strada. Nonostante lo spettacolo sia di bambini per bambini, oltre a un elevato numero di orfanelli di strada tra il pubblico si trovano altrettanti adulti, uomini e donne. Tra questi riconosco due ragazze. Le abbiamo intervistate qualche giorno prima e lavorano in un bar. Una di loro è la presidentessa dell’associazione di ragazze che lavorano nei bar creata con l’aiuto del progetto CVM. Queste ragazze hanno una storia simile a quella di Tigist, spesso infatti fuggono dai loro villaggi per cercare una alternativa alla povertà che le circonda sperando di trovar fortuna nelle grandi città. Una volta arrivate nei centri urbani finiscono nella rete dei broker e vengono sfruttate con condizioni disumane o come domestiche o come prostitute. La quasi totalità delle volte che una ragazzina (la maggior parte sono tra i 12 anni e i 25) viene ingaggiata come cameriera in un bar lavora senza una retribuzione e con la sola promessa di un letto in cui dormire e il vitto da pagare a parte. L’unica retribuzione che ottengono, una volta dedotta la percentuale dovuta al proprietario del bar, è quella derivante dalla vendita del loro corpo. Quando accettano questo lavoro, per il quale non hanno molta alternativa, mettono in serio pericolo la loro stessa vita; la maggior parte di loro di fronte al cliente non ha alcun diritto, molte volte rischiano di non essere nemmeno pagate o di non aver la possibilità di proteggersi dalle malattie attraverso l’uso del preservativo. Parlando con alcune di loro sono rimasta colpita e anche sinceramente piuttosto amareggiata dalle loro visioni, dalle loro speranze per il futuro; Meseret infatti mi racconta che essendo la povertà molto diffusa anche la prostituzione risente di un calo di mercato e che, per questo motivo, spera di riuscire ad andare a lavorare in un bar più grande dove i guadagni per le sue prestazioni sono maggiormente retribuiti. Quando siamo andati a trovarle nel bar dove lavorano per renderci meglio conto della realtà in cui lavorano e vivono siamo rimasti colpiti dai tratti
somatici della bambina che una di queste ragazze-cameriere-prostitute portava legata dietro la
schiena: la piccola ha i lineamenti marcatamente cinesi.


Marta Bonalumi
(Volontaria CVM in Servizio Civile - Etiopia)

Il lavoro in fattoria



Camminando per Ayeho, una kebele in Awi Zone, sembra di rivivere una novella verghiana. E' roba di Al-Amoudi, è tutta roba sua..dello sceicco Al-Amoudi, l'uomo più ricco d'Etiopia e il 63° uomo più ricco al mondo come dichiarato dalla rivista americana Forbes. Ad Ayeho ha comprato tutto il territorio disponibile ed, ora, ospita nella sua tenuta una scuola, degli uffici di amministrazione municipale, una stazione di polizia e un'immensa fattoria, coltivata con mais, girasole, banane, mango, arance.

Ayeho è una kebele di 65,68 kmq, dieci anni fa è stata acquistata e trasformata in una fattoria "Ayeho Agricultural Development Organization", proprietà del suddetto Al-Amoudi. La fattoria è molto vasta, percorrendo la strada sterrata che vi si inoltra, dopo un quarto d'ora di tragitto in macchina, ci si trova davanti un cancello che blocca la strada, ma il passaggio è lasciato aperto poiché la sbarra è alzata abbastanza da permettere il transito. Subito dopo inizia il villaggio di Ayeho, appaiono case e minuscoli negozi, tra i campi, sui bordi della strada e vi si trovano anche gli uffici dell'amministrazione municipale, la polizia, la scuola, quelle piccole istituzione che dovrebbero servire la comunità...eppure è strano trovarle all'interno di quel marchio di proprietà posto dalla sbarra.

Gli abitanti sono 7880 (di cui 4175 donne), vivono in case di terra e legno poiché è proibito edificare costruzioni in cemento in quella proprietà, agli abitanti, che sono quasi esclusivamente lavoratori della fattoria, è anche proibito allevare animali poiché non è concesso loro di sfruttare in alcun modo il territorio in cui risiedono. Inoltre molti di questi lavoratori provengono da altre zone, non hanno quindi un tessuto sociale che possa sostenerli in caso di bisogno, tutto ciò rende le condizioni di vita estremamente precarie, una donna si esprime così: "noi stiamo lavorando qui soltanto perché non abbiamo altro di che sopravvivere, non c'è altro".

Eppure qui manca la voce narrante siciliana che dipinge con sincera pietà le ingiustizie e le tribolazioni di chi quella roba non l’ha, ma la lavora...In Etiopia lo sceicco è noto come filantropo e benefattore del suo Paese benché, nella sua fattoria ad Ayeho, i lavoratori sono assunti per contratti trimestrali con paghe giornaliere che vanno dai 12 ai 15 birr lordi (circa 50 centesimi di euro) a secondo delle differenti mansioni per cui si è assunti: segretarie, manovali, coltivatori, personale per le pulizie, etc..


I lavoratori possono essere assunti con due tipi di contratto: assunzione a tempo parziale o permanente. La prima forma di contratto è rinnovata trimestralmente ed espone i lavoratori ad una continua precarietà. Spesso i contratti sono rinnovati consecutivamente, anche per diversi anni di fila, così lo sceicco si assicura di potersi liberare di dipendenti inutili in modo celere (in Etiopia le leggi per il licenziamento sono al quanto rigide) e di conservare a costi minimi solo il personale più efficiente. La condizione di questi lavoratori è terribile, la maggior parte di loro è donna, per cui oltre al lavoro nei campi assolve tutti quegli oberi domestici che le comportano ulteriori fatiche.

L'Etiopia ha ratificato la convenzione di ILO (International Labour Organization) per cui, per legge, l'orario lavorativo giornaliero non può superare le 8h con almeno un giorno di riposo settimanale ed ai lavoratori deve essere garantita l'assicurazione sanitaria e la maternità. Tutto ciò è riconosciuto dalle condizioni contrattuali, ma nella realtà i manovali ed i coltivatori assunti qui lavorano 11h al giorno, senza pausa per il pranzo, le donne hanno riferito che non è concesso loro neppure di fermarsi per bere, questo è un privilegio maschile. Inoltre, benché le condizioni salariali siano definite a giornata, il personale che lavora meno di 20 giorni al mese non riceve alcun retribuzione mensile.

Per ovviare alla possibilità di dover pagare la maternità alle sue dipendenti lo sceicco fa eseguire un test di gravidanza pre-assunzione, ed infine, benché tutti contribuiscano alla copertura assicurativa sanitaria, pare che ne riescano a beneficiare solo i lavoratori permanenti o quelli con buoni contatti con la direzione.

Inoltre, una parte dello stipendio è in natura, mensilmente vengono elargiti 50kg di mais di seconda qualità ad ogni lavoratore come equivalente di 68 birr di salario. Ogni anno, durante il raccolto del mais, quello di scarto viene immagazzinato e lentamente sarà smistato al personale. In questo modo, il filantropo si assicura un congruo profitto da mais di cattiva qualità che avrebbe fatto fatica a vendere, ricavandone 68birr mensilmente da ogni lavoratore, senza sostenere alcun costo di trasporto.


Il CVM sta svolgendo un training sui diritti del lavoro e della donna e la prevenzione dell'HIV/AIDS per venti lavoratrici a giornata di questa zona. Il training si indirizza specificatamente alle donne perché normalmente vengono sottopagate rispetto agli uomini in questo genere di mansioni.

In questo caso, l'esistenza di un contratto previene queste lavoratrici da tale rischio, ma le donne ci raccontano che ciò avviene lo stesso, per vie trasversali, gli uomini ricevono mensilmente dei bonus (ad esempio: una borsa di vestiti nuovi) che non viene loro distribuita. Esse aggiungono che tutti i lavoratori a giornata sono sottoposti al controllo di "cabò" (devo dire che il termine mi impaurisce), ogni cabò è responsabile di supervisionare 150 braccianti circa, li sprona al lavoro, li rimprovera e segnala il loro andamento. Solo gli uomini possono essere cabò, a volte, abusano delle donne, e loro non hanno parola, accade senza che nessuno lo denunci.

Questa zona è piena di boschetti, di campi di alti girasoli e mais, qui, di sera è facile nascondersi, molti sono gli stupri commessi all'imbrunire. Le donne non possono aggirarsi sole dopo il tramonto, ma le distanze da compiere per raggiungere la propria casa dopo il lavoro sono ampie e capita di attardarsi troppo, gli uomini approfittano di ciò anche perché la polizia non è attiva nel bloccare questo genere di reati. Le donne non possono vivere sole, per questo i matrimoni precoci sono frequenti.

Ma nessuno sembra interessarsi a questa moltitudine di ingiustizie e violenze, dopotutto è la fattoria di un filantropo, gli uffici amministrativi non hanno quasi nessun dato sulla reale situazione della kebele e sembrano dirigersi qui solo per la distribuzione di pesticidi anti-malarici.

Una di queste donne ci dice "noi siamo senza voce, nessuno ci pone attenzione", ora lo staff del CVM sta preparando degli incontri con gli uffici di woreda e di zona per tentare un coordinamento.

Penso a quei 50 kg di mais di scarto che i lavoratori si devono portare a casa ogni mese e ci vedo qualcosa di molto perverso, ci vedo la negazione di ciò che dovrebbe essere. Un'alternativa sincera sarebbe la produzione per se stessi, l'autogestione, la formazione di cooperative di agricoltori e l'espropriazione almeno di parte del territorio. Si dovrebbe tentare la gestione diretta della terra che si abita per rispondere alla precarietà a cui la povertà espone.. il governo avrebbe anche il potere di farlo, ma, la "Ayeho Agricultural Development Organization" appartiene ad un Tal dei Tali.



Benedetta Sercecchi

(Volontaria CVM in Servizio Civile - Etiopia)

venerdì 2 settembre 2011

“No Better Witnesses than Your Own Eyes”

It was Monday early in the morning; I was walking to my ofice facing the challenging cold and rainy weather, to be there early. Suddenly, I saw an old man walking very fast pulling a child. He was almost covered with old traditional shawl the so called Gabie in Amhara Region where as the child was dressed a very old pant and a torned out t-shirt which can’t save from the cold.

The child was in a big challenge to walk the same to the old man due to the sharp stones which covered the street and suffered him scratching his unshoed foot. After walking a while, the old man started pulling the child more seriously and being negligees. At this time, I couldn’t look being silent, so, I called the old man to stop and talk to me in dealing about the child.
When I got close to them, “I am bringing him to the hospital…for HIV/AIDS…treatment as well as to collect ... ART medicine as usual”, the old man said. When I saw the child’s eyes, I shook. The child was blind: his right eye was not in place where as the left one was extremely injured due to chronicle infection.

While trying to control my feeling, I said to the old man: “what happened to his eyes?” Pointing at the right blind eye of the child, the old man said: “It was very injured, so that a doctor found in Bahir Dar Felege Hiwote Hospital has removed it to stop the progression of the infection to his brain. I don’t know why, the other one is also become like this - very sick, this is why we are going to the hospital early in the morning”. He continued explaining what happened to the child with some introduction, “his name is Tesema; he is the son of my brother. He got HIV from his parents…they died of HIV/AIDS”.
When I realized that they were fully wet due to the rain, “where are you coming from?”, I said. “We are coming on foot from a rural area which is about 25KM far from the city - Bahir Dar, the old man said.” “What !” I said emotionally, because it is risky to travel this much distance for the child like Tesema suffering from serious chronicle infection.

“We often come to the hospital on foot travelling for more than 3 hours”, the old man said again to make me sure of what he has said. Tesema was very late to come to the hospital; he had to get opportunistic infection treatment before. I disappointed with the way the old man handle Tesema, but I couldn’t complain him, because I know very well both the economical and awareness problem of Ethiopians.
I breathed in depth and started looking at Tesema, who was almost naked. After a while, “have you tried to get support from GOs or NGOs?” I said. “I only received 3,000 birr from…” the old man said and started straggling to remember the name of the organization which has provided the money. Instead of waiting until he recover the name in his old mind, I continued asking: “What
have you used the money for, why didn’t you buy shoes and clothes for Tesema?”

The old man laughed, but ironically, may be in the sense to say you don’t know my problem. Then being silent for a while looking at the ground, he said: “I used for daily subsidise. It helped me to buy different commodities”. He continued explaining why he didn’t buy shoes for Tesema: “shoe is not common in rural areas; even all of my children don’t have shoes. And also I am very poor farmer, there are a lot of things which should be prioritized in my family instead of shoes and
clothe.”
“What kind of food are you providing him” I said to the old man although I understood what he would say. “Nothing special I give him, I provide him with the food that is accessible at home, commonly Shiro with Enger, he said”.

I started imagining the life of Tesema, and I found it more than painful. HIV/AIDS made him lost a lot: beyond losing both his parents, he received HIV from them and loses both his eyes due to chronicle infection. He was also suffering due lack of good care and support. What happened to Tesema forced me to look behind the positive results of the HIV/AIDS prevention and controlee program. I started pointing out the gaps of the programme in the case of Tesema. First, I said to myself, it couldn’t address his parents with effective HIV/AIDS prevention education, as a result he lose his parents with HIV/AIDS. Second, it couldn’t provide his parents with PMTCT service, as a result he contacted HIV. Third, even it couldn’t provide him with proper care and support with opportunistic infection treatment, as a result he lose his both eyes, and was in torturing life.

I couldn’t stop myself from its internal dialogue, rather a question came to my mind for endless discourse - how is the life of other children living with HIV? Because, what happened to Tesema had a basic message regarding others.
While I was in this situation, the slow sound of the old man brought me out of my question. “We have to go” he said. I don’t know why but I scared, may be due to my inability to do something better for Tesema than just giving advice for his ‘care giver’ on how to handle him. After shaking my hand with his both hands, and offering me thanks, the old man started moving forward, the child also continued walking over the sharp stones.

Story by - Haileyesuse Tsehay
Written by - Betre Yacob
CVM Amhara Regional Project IEC Department

AIDS: mare non più in tempesta per i pescatori tanzaniani

“Questo corso di formazione è stato molto importante per noi e le nostre comunità perché ora saremo in grado di diffondere informazioni esatte sul tema dell’HIV e dei diritti di genere”. Machano Khatibu, 49 anni, pescatore

“Il corso di formazione ci darà la possibilità di proteggere la nostra generazione e le prossime dall’ulteriore diffusione del virus dell’HIV e l’opportunità in futuro di affrontare e superare da soli la vulnerabilità delle nostre comunità alla diffusione dell’epidemia”. Idd Hassan, 25 anni, venditore di patatine fritte e Marian Mohamed, 22 anni, disoccupata.

Le parole di Machano, Idd e Marian sono colme di entusiasmo e fiducia nella possibilità di un cambiamento futuro, entusiasmo che essi hanno manifestato alla conclusione del corso di formazione svoltosi dal 2 al 5 Agosto a favore di donne e uomini che vivono nelle comunità di pescatori del Distretto di Bagamoyo. L’attività rientra nell’ambito dell’intervento che il CVM, in collaborazione con i partner locali, sta realizzando nelle zone costiere grazie al contributo della Regione Marche e del Comune di Torre San Patrizio (FM), con l’obiettivo di rafforzare la capacità di donne e ragazze di rispondere alla diffusione dell’epidemia dell’HIV.

È proprio l’universo femminile che in queste aree subisce maggiormente le conseguenze di estrema povertà e della mancanza di un sistema giuridico che sia in grado di proteggere i loro diritti. La vulnerabilità alla diffusione del virus HIV è una delle conseguenze più gravi.

Come afferma Marian, “le donne del mio villaggio non conoscono i loro diritti, non hanno alcun potere decisionale sia nell’ambito pubblico, sia nel contesto familiare; la violenza di genere è ancora un fenomeno molto diffuso”.

Il corso ha dato la possibilità ad 80 persone, tra cui uomini e donne di diversa età, di conoscere i rischi e le conseguenze connesse all’HIV e alle altre malattie sessualmente trasmissibili, quali sono i diritti umani e, nello specifico, quelli delle donne e dei bambini, di apprendere l’importanza dei servizi sanitari, in particolare del servizio domiciliare per le persone sieropositive, e del sostegno psicologico, morale e materiale necessario alle persone già affette dal virus per vivere la malattia in maniera positiva.

Il corso è stato inoltre l’occasione per invitare uomini e donne a discutere ed analizzare insieme i ruoli di genere all’interno della coppia e al di fuori, e l’opportunità di affrontare il tema della prevenzione all’HIV in maniera congiunta così da poter formulare strategie di azione che prevedano il diretto coinvolgimento di entrambi i generi.

La collaborazione tra uomo e donna, la condivisione dei problemi e la formulazione congiunta delle possibili soluzioni che tengano conto di entrambe le prospettive, rappresentano l’unica via di uscita verso una seria presa di coscienza del problema dell’HIV e l’affermazione graduale della parità di genere. Sicuramente costituiscono anche la via più sostenibile.


Valentina Romagnoletti

(Volontaria CVM in Servizio Civile - Tanzania)

giovedì 11 agosto 2011

Siccità nel Corno d'Africa: il Condizionale dei media e l'Imperativo dell'emergenza


Nella capitale Addis Abeba le TV estere raccontano la tragedia, i dati preoccupano, il realizzare che stiamo parlando di persone lascia senza respiro, il recarsi nei luoghi terrorizza.

La Somalia e la regione somala dell’Etiopia hanno visto fallire la stagione delle piogge che attendevano per riempire di nuovo i pozzi e far crescere le coltivazioni. I numeri sono esorbitanti, si parla di una zona con 8 milioni di persone in emergenza, 1500-2000 persone in arrivo ai campi di emergenza ogni giorno. Il confine tra Somalia ed Etiopia è uno dei punti più caldi, sono stati aperti già tre campi (zona Dolo Addo) ma la gente viene fermata al confine, il flusso è troppo alto e le condizioni sono sempre più difficili (le prime epidemie già iniziano a scoppiare all’interno dei campi).

Al momento sono due le regioni dell’Etiopia in ginocchio, mentre altre stanno attendendo di comprendere il loro destino ma i segni non lasciano ben sperare.

La parte sud dell’Etiopia ha visto praticamente fallire 4 stagioni consecutive e così anche le poche riserve sono state consumate. Ora il bestiame muore, perfino i cammelli sfiniti si accasciano a terra. Purtroppo ora si dovrà attendere la prossima stagione delle piogge che in queste zone è tra settembre e ottobre, quindi prima di novembre la situazione non si risolleverà, anche in caso di fenomeni climatici positivi in autunno. Il prezzo dei beni alimentari è alle stelle con un’inflazione del 38% nell’ultimo anno. Costi che impediscono alla popolazione di comprare il necessario per vivere.

Ma altre zone ora temono succeda lo stesso. Piove infatti nelle zone in cui ora è la stagione delle piogge, ma non abbastanza. L’acqua serve solo a inumidire il terreno e infangare le strade (piste), bloccando i mezzi in passaggio, ma non ricarica le falde superficiali da cui dipende la popolazione, da cui dipendono le coltivazioni. Anche qui (SNNPRS, come in Tigrai e Gambela) la precedente stagione delle piogge è stata molto modesta e ha quindi portato a livello di allarme la situazione. Se anche agosto e settembre continueranno con lo stesso trend di luglio, i raccolti saranno minimi, non sufficienti ad affrontare un anno, e le dimensioni della catastrofe si moltiplicheranno.

Il Wolayta, zona in cui CVM lavora, la gente teme il peggio. La popolazione dipende molto dalla produzione di mais e patate, ma quest’anno la situazione è critica, probabilmente il raccolto sarà quasi nullo. Con una densità di popolazione altissima, il Wolayta soffrirà di nuovo di crisi alimentari e sanitarie. Le richieste di aiuto dalle autorità locali aumentano ogni giorno. Difficile adattarsi ad un paradosso: un’area relativamente verde e con corsi d’acqua superficiali discreti soffrirà una siccità con pochi precedenti a causa della mancanza di infrastrutture.

Mentre nei media si combattono le guerre del “si poteva” e “si sarebbe dovuto”, la prima preoccupazione delle persone qui sono le risorse idriche, da cui dipende la loro vita.

CVM continua il suo lavoro per approvvigionare di acqua potabile le comunità locali. Purtroppo il Wolayta è un’area in costante emergenza, ove solo un lavoro continuativo e capillare con le comunità potrà cambiare la situazione.


Anna Rubert (Rappresentante Paese CVM - Etiopia)

lunedì 1 agosto 2011

WANAWAKE TUNAWEZA WANAUME WAWAJIBIKE – Noi donne possiamo rendere gli uomini responsabili


Wanawake tunaweza wanaume wawajibike… Questo il ritornello di una delle numerose canzoni intonate dalle ragazze durante il corso per educatrici alla pari promosso da CVM nelle comunità di pescatori del Distretto di Bagamoyo. Cantano, sorridono, unite ci credono… affinché queste parole non svaniscano nell’aria, ma si trasformino in realtà.


Giovani donne, belle, sorridenti, occhi vispi, alcune studentesse, altre già da alcuni anni a lavoro nonostante la giovane età… un frammento della gioventù tanzaniana e dei suoi problemi. Sono loro le sessanta ragazze beneficiare del corso, tutte di età compresa tra i 18 e 21 anni.

In classe sono stati trattati diversi argomenti: HIV e AIDS, come si trasmette e come si previene, diritti di genere e dell’infanzia, cambiamento comportamentale e life skills, le abilità necessarie ad affrontare le sfide e le difficoltà della vita quotidiana in maniera positiva. Ciascuno di essi allo stesso modo importante affinché le giovani, una volta tornate nei loro villaggi, siano in grado di promuovere un cambiamento comportamentale tra i loro coetanei e correggere le abitudini che espongono i giovani al rischio di contrarre il virus dell’HIV.

La loro stessa vita è testimonianza della condizione in cui vivono la maggior parte delle ragazze qui in Tanzania, intrappolate tra mille ostacoli che non consentono loro di sviluppare le capacità necessarie per dire no allo sfruttamento, in ogni sua forma, per uscire dalla povertà più assoluta, per far valere i loro diritti, nella vita quotidiana e all’interno del matrimonio.

Chausiku ha 20 anni, è già sposata e ha un bimbo di tre anni. Nei suoi occhi una vitalità e una gioia incredibili, nonostante immagino che la sua vita non sia stata proprio facile. Viene da Pande, un villaggio costiero dove si recano molti pescatori dall’isola di Mafia per riparare le proprie navi. Si fermano nel villaggio alcuni giorni e il tempo dell’attesa per la riparazione si trasforma in una vera e propria caccia alle ragazze… Ce ne sono molte ad attenderli, tra loro si passano voce quando li vedono arrivare, sanno che hanno soldi da spendere, abbastanza affinché possano guadagnare i soldi sufficienti per un pasto. È proprio così, numerose donne e ragazze non hanno abbastanza denaro per comprare cibo per sé e la propria famiglia, non hanno lavoro viste le scarse opportunità d’ impiego disponibili in questi villaggi e la via più facile rimane scambiare rapporti sessuali per pochi spiccioli.

Evodia, 19 anni, viene da Kiharaka, altra comunità costiera del Distretto. Nel suo villaggio tra le ragazze è diffusa l’abitudine di assumere comportamenti a rischio contagio non solo per ottenere un pò di cibo ma anche per avere la possibilità di acquistare luxuries, come vestiti, cellulare o permettersi l’entrata nelle discoteche locali. A volte è sufficiente l’acquisto di una semplice bibita affinché le giovani cedano alle avances di ragazzi e adulti.

Fatuma ha 20 anni e viene da Kaole. Ha abbandonato la scuola prima di concludere il secondo grado di istruzione, il Form IV, e ora è una sarta da circa un anno. Nel suo villaggio la maggior parte delle persone non sa come prevenire l’HIV, alcuni non conoscono nemmeno come utilizzare correttamente un preservativo. Le ragazze iniziano ad avere rapporti sessuali all’età di 14 anni e i casi di gravidanze precoci non sono rari. Accade anche che gli uomini che non vogliono prendersi cura e responsabilità del bambino paghino per farle abortire, mettendo in pericolo anche la loro vita. L’aborto è illegale in questo paese; le ragazze spesso ricorrono a metodi rudimentali che possono causare loro gravi infezioni o, se sono fortunate, i loro partner possono pagare un medico per effettuare l’operazione in condizioni clandestine.

Anna ha 18 anni e frequenta il college dove studia Hotel Management. Vive ad Ukuni, un piccolo villaggio vicino a Bagamoyo. Racconta che nella comunità in cui vive, le ragazzine iniziano ad avere rapporti sessuali all’età di 10 anni. Alcune, mentendo ai loro genitori dicendo che si recano a scuola, si portano i vestiti per cambiarsi quando escono di casa al fine di incontrare i loro partner. Avere il fidanzato rafforza il loro status sociale, per questo molte decidono di avere rapporti sessuali ignorando le conseguenze che queste relazioni possono portare alla loro salute. I loro partner sono principalmente conducenti di piki piki, anch’essi giovanissimi, inesperti, inconsci della possibilità di contagiare e a loro volta trasmettere il virus attraverso rapporti non protetti. Anche qui sono numerosi i casi di gravidanze precoci: Anna dice che il 90 % delle ragazze di età compresa tra 16 e 18 anni ha interrotto almeno una gravidanza.

Amina, 21 anni, viene da Razaba, un villaggio costiero particolarmente isolato soprattutto nella stagione delle piogge a causa dell’assenza di una vera e propria strada. Nel villaggio la povertà è dilagante, le famiglie non sono in grado di prendersi cura di tutti i propri figli e considerano i guadagni che le loro figlie portano all’interno del nucleo famigliare come modo per accrescere il loro reddito; ma non si chiedono come quei soldi siano guadagnati dalle loro bambine.

Questo solo un piccolo scorcio delle problematiche della gioventù tanzaniana: ragazze che non hanno il potere di opporsi ai desideri degli uomini perché dipendono economicamente da loro, siano essi mariti, partner occasionali, padri o fratelli; ragazze che non hanno opportunità di continuare gli studi perché le loro famiglie sono troppo povere o preferiscono dare precedenza all’educazione dei figli maschi; ragazze che per vivere la spensieratezza adolescenziale, stare al passo con i tempi e guadagnarsi uno status sociale tra i loro coetanei espongono la loro vita al pericolo delle malattie sessualmente trasmissibili solo per il desiderio di avere un cellulare o un vestito nuovo.

Quale la soluzione? Quale la via d’uscita? L’educazione e l’acquisizione delle capacità per decidere consapevolmente della propria vita e guardare al futuro con la volontà di raggiungere un pieno sviluppo della propria persona.

Ed è questo lo scopo delle attività che il CVM promuove nel Distretto di Bagamoyo, facilitare la nuova generazione a prendere coscienza dell’importanza del proprio ruolo nella diffusione delle conoscenze necessarie per sconfiggere l’epidemia dell’HIV.

Winnie è una ragazza come loro, ha 20 anni e attualmente sta svolgendo un periodo di volontariato presso la sede locale del CVM, a Bagamoyo. Sono rimasta colpita dalla testimonianza che ha deciso di condividere con le partecipanti alla conclusione del corso di formazione. Era piccola quando lei e sua mamma sono state abbandonate dal padre; sua madre è cuoca e ha cercato di non farle mancare nulla nella vita. Ha sempre frequentato scuole pubbliche, quelle in cui la maggior parte dei giovani tanzaniani studiano, poiché sua mamma non poteva permettersi la retta di quelle private. Winnie si è impegnata nello studio e sua madre ha fatto di tutto per farla proseguire negli studi… Ora attende la comunicazione per l’ammissione all’università e si trova di fronte alla sue coetanee dicendo: “Non abbiamo bisogno degli uomini per sopravvivere, ce la possiamo fare da sole… I 10.000 scellini che sono in grado di darci in cambio di favori sessuali non potranno mai cambiarci la vita in maniera positiva, ma solo permetterci di soddisfare qualche futile desiderio… L’importante è procedere nel nostro percorso educativo, trovare un lavoro e contribuire al cambiamento della mentalità e del comportamento dei giovani affinché possano pensare al proprio futuro in maniera positiva e costruttiva”.

Una via alternativa alla miseria e alla dipendenza economica esiste, è un processo che richiede tempo ma è realizzabile e Winnie e sua mamma ne sono la testimonianza. Winnie è in grado di decidere per sé, è in grado di evitare persone e situazioni che potrebbero mettere in pericolo la propria salute e sicurezza, è decisa e sa quello che vuole fare nella vita, ne è protagonista.


Valentina Romagnoletti (Volontaria CVM - Tanzania)