mercoledì 29 dicembre 2010

Insieme per cambiare vita (Domestiche in Etiopia)


Tra le cinquanta e le ottanta enjere al giorno (una sorta di pane etiope piatto e spugnoso che accompagna ogni pietanza) per un guadagno che può andare dai 100 ai 160 ETB (da 5 a 8 euro circa): sono questi i dati di partenza dell’attività avviata dall’associazione di ex housemaid di Debre Markos, nata grazie al sostegno del CVM (Comunità Volontari per il Mondo). Sono una decina di donne ma soprattutto ragazze, alcune giovanissime, che fino a qualche mese fa lavoravano come domestiche in casa d’altri, in condizioni spesso disumane, faticando per quindici ore al giorno in cambio di salari bassi, quando venivano pagati, e dovendo sottostare a soprusi e maltrattamenti di ogni tipo. Alcune di loro sono state anche violentate dai maschi delle famiglie in cui prestavano servizio, a volte ne è scaturita una gravidanza, ma mai hanno avuto giustizia per l’abuso subito. Ora per loro si apre una nuova strada: hanno abbandonato le precedenti attività e, grazie ad un progetto del CVM e ad un primo aiuto economico fornito dall’ONG (circa 20.000 ETB), hanno formato un’associazione legale e avviato una propria attività: la preparazione e la vendita dell’enjera. Hanno il loro laboratorio, ampio e munito di tutto il necessario, ricavato in una casa presa in affitto, e hanno organizzato dei turni con due gruppi che lavorano a giorni alterni.
I preparativi per dar vita a questa nuova realtà sono cominciati due mesi fa con la selezione delle domestiche, grazie alla collaborazione dell’associazione di donne povere anch’essa supportata dal CVM, cui ha fatto seguito un’attenta valutazione per la scelta dell’attività e poi l’acquisto dei materiali. Da due settimane il laboratorio ha preso a funzionare a pieno ritmo e le ragazze sono entusiaste, hanno una gran voglia di fare perché questa è la loro grande occasione. Alcune di loro le avevo incontrate appena arrivata in Etiopia, erano afflitte per le loro condizioni, disperate per l’impossibilità di cambiare vita, sopraffatte dal peso di tante difficoltà e troppi sacrifici, tutti da affrontare da sole, senza poter contare sull’aiuto di nessuno. Ora nei loro occhi scorgo una nuova speranza, vedo una vitalità che prima non c’era, uno spiraglio di fiducia che cerca di farsi strada. “La nostra vita sta cambiando, prima eravamo costrette a sottostare agli ordini di padroni spesso crudeli e non potevamo fare nulla contro i maltrattamenti che ci impartivano. Ora abbiamo una nostra attività, siamo noi a gestire il nostro lavoro, discutiamo insieme, prendiamo insieme le decisioni, non siamo più sottomesse alle imposizioni altrui”, spiega la coordinatrice dell’associazione, Maymanot Tefera. “Prima eravamo sempre in angoscia, temevamo le violenze degli uomini per cui lavoravamo, ora questo rischio non c’è più”, aggiunge subito Masitea Mengistu, mentre allatta il suo bambino che porta quotidianamente al lavoro. Per essere agli inizi l’attività sta andando bene, ma è necessario ampliarla e le forze per farlo ci sono: “Per ora riforniamo un solo hotel, dobbiamo trovare altri clienti per avere un guadagno che ci permetta di vivere solo con questa entrata. Adesso alcune di noi fanno anche altri piccoli lavoretti, come vendere la canna da zucchero lungo la strada, ma quando avremo più acquirenti da questa attività trarremo tutte le risorse necessarie. Lavoreremo sodo e amplieremo la nostra produzione”, spiega Embet Linger. Con l’importo iniziale che hanno ricevuto hanno comprato il necessario per partire con la preparazione dell’enjera, spendendo circa 6.000 ETB (circa 300 euro) e depositando il restante in un conto bancario comune, in vista del futuro e di possibili necessità improvvise. Qualche timore c’è ancora e finché non troveranno nuovi clienti resterà, ma nell’aria c’è un forte ottimismo, una gran voglia di fare e il fatto di essere insieme, unite, di poter contare le une sulle altre, di non essere più sole ad affrontare le difficoltà infonde a tutte una sicurezza prima sconosciuta. Nella ricerca di nuovi acquirenti, possono poi contare sull’appoggio del CVM e tramite questa ONG dell’Ufficio del Microcredito, che si sta dando da fare per aiutarle ad ampliare l’attività.

Camilla Corradini (Volontaria CVM in Etiopia)

martedì 28 dicembre 2010

È Natale...


Carissimi,
Vorrei approfittare di un tranquillo momento serale, con le consegne fatte per far a tutti voi un piccolo saluto ed un augurio, come gia' molti di voi hanno fatto.
Ci stiamo lasciando alle spalle un anno non semplice, con molti cambiamenti e difficolta' ma anche pieno di senso e di prospettive nuove. Vorrei ringraziare tutti voi per la collaborazione e la serieta' con cui avete fatto il vostro lavoro in quest'anno. Credo che lo spirito che ci anima e' quello che fa la differenza nel nostro lavoro. A differenza delle imprese, nei momenti di difficolta' non possiamo far affidamento sugli utili accantonati negli anni di abbondanza. Le nostre riserve sono per persone nel momento del bisogno sanno dare quel di piu' che fa la differenza.
Il piacere di lavorare serenamente insieme e' un elemento importante del nostro quotidiano e fa la diffierenza.

Dopo domani e' Natale. Bethlemme e' lontana, lontana geograficamente, nel tempo ed a volte anche nel senso. E' difficile dare un senso al pupazzetto nel presepe o sotto l'albero. Tutto sommato non e' brutto da vedersi e non ci ispira sensazioni particolari.
Mi viene pero' da pensare alle tante Bethlem che ci sono in giro per il mondo e che ci saranno anche dopo domani, mentre noi, giustamente anche, stapperemo lo spumante alla fine di un buon pranzo.
L'immagine piu' recente che ho negli occhi e' quella dei mucchi di cartoni, alcuni con persone dentro, altri mucchietti vuoti in attesa della notte, sotto le pensilline della stazione Ostienze a Roma, domenica 19 dicembre, con le persone che passavano ai lati per andare a prendere il treno.
Penso anche alle tante "capanne" dell'Etiopia, che conosco meglio, dove a volte siamo stati invitati a prendere il caffe' per ringraziarci di un lavoro che abbiamo fatto. Con le mucche che sbuffano dietro la schiena. In quelle stesse capanne dove noi passiamo solamente per una "pausa caffe", si vive, si nasce e si muore, si cresce e si invecchia. Con le galline che razzolano per terra, le mucche che ruminano da un lato e qualche topo che a volte passeggia sui travi in alto. In queste capanne si partorisce distese su una pelle di mucca, messa sopra un piano di terra rialzato che funge da letto. Qui non non si raccolgono le cellule del cordone ombelicale e non c'e' il problema di quanti embrioni si possono o non si possono congelare. Abramo e Sara probabilmente vivevano in un posto simile a questo. Fuori della capanna ci sono sempre gli alberi, se non le quercie, dove sedersi all'ombra per parlare con gli ospiti, mentre le donne dentro preparano da mangiare. Certo in queste capanne non si ammazza il vitello grasso per festeggiare ed intrattenere gli ospiti perche ci sono solo poche vacche rinsecchite.
Quando penso a Bethlem penso a questo piu' che al presepe con le luci che pure fa tanto aria di Natale.

Credo che si addice proprio ai nostri tempi, ed a questi giorni, la frase del profeta "vanita' delle vanita', tutto e' vanita'".
Se pero' questi piccoli segni e questi momenti ci aiutano ad andare con la mente, ed a sentirci un po' piu' vicini alle tante Bethlem del Mondo e della Storia, allora, solo allora, non sara' pura vanita'.

L'anno che ci si apre davanti contiene tante speranze insieme alle tante difficolta'.
Si apriranno percorsi nuovi, strade ed opportunita' nuove, da percorrere ed esplorare, con fiducia. Qualche compagno di viaggio cambia strada e forse qualche nuovo compagno di strada si unira' a noi per fare un pezzo insieme. Di tutto questo siamo grati a Dio perche' "tutto e' cosa buona" e "niente di quello che e' stato seminato andra' perduto".

Approfittiamo in questi momenti per sentirci anche un po' piu' vicini a quelli accanto a noi che soffrono. Penso al Papa' di Chiara che passera' il Natale in ospedale, ed al papa' di Daniela che oramai da tempo il Natale lo celebra convivendo con la sua infermita'. Come non c'è una ragione per la sofferenza dei bambini africani, cosi' anche ci sfugge il senso della sofferenza intorno e vicino a noi. Cionostante cosi' come un gesto d'affetto puo' fare la differenza per una persona cara che soffre, analogamente un piccolo passo verso la giustizia fa la differenza per un mondo un po' migliore.

Auguri di Buon Natale e per un proficuo 2011 ma anche di pace e serenita'

Pace e Bene


Attilio Ascani, Direttore CVM

martedì 21 dicembre 2010

Tihitna, dal lavoro di muratore al sogno di studiare (D.Marcos - Etiopia)


Potersi iscrivere a scuola è sempre stata una sfida per Tihitna Goshia, i soldi in casa non bastavano mai e il desiderio di istruirsi si scontrava con la decisa opposizione del padre che riteneva fosse più importante avere un lavoro già da giovanissime piuttosto che studiare.

Per i primi sei anni o gradi (la scuola in Etiopia è divisa in gradi) era riuscita ad avere un seppur minimo appoggio della famiglia che le aveva permesso di seguire le lezioni, ma quando al settimo aveva manifestato l’intenzione di proseguire nella sua formazione erano scoppiati i problemi: i suoi genitori non avevano i soldi necessari e avevano insistito affinché si trovasse un’occupazione. Un’idea che proprio non piaceva a Tihitna, che con un’aria rassegnata ma tutto d’un fiato racconta di essersi rivolta in lacrime al fratello, Bizualem. Fu lui, che dall’originaria woreda di Gozamen a quel tempo si era già trasferito nella città di Debre Elias, ad aiutarla accogliendola in casa. Purtroppo però la situazione economica del fratello non era migliore di quella dei genitori e anche lui non poteva permettersi il costo della sua istruzione, le consigliò quindi di lavorare come domestica, donna di servizio a tempo pieno per una famiglia. Tihitna non era certo entusiasta di questa soluzione, ma era altrettanto consapevole che di alternative non ce n’erano: se non voleva abbandonare la scuola quella era l’unica via. In un primo momento sembrò anche aver trovato un buon accordo con i datori di lavoro: “Acconsentirono a lasciarmi il tempo per seguire le lezioni, loro avrebbero coperto le mie spese scolastiche e io mi sarei occupata della mansioni domestiche senza percepire alcuno stipendio”, spiega con il sorriso, poi fa una pausa e il volto si fa in un attimo serio. “Era molto difficile vivere così – continua con la testa china -: lavorare prima e dopo la scuola, e poi trovare pure il tempo per studiare. Dovevo guardare i bambini dei padroni, di cui uno di appena sei mesi, preparare l’enjera (una sorta di pane spugnoso che accompagna ogni portata in Etiopia) e la tella (la birra locale), e occuparmi della casa. Dovevo anche andare a prendere l’acqua, la fonte era molto lontano dall’abitazione e questa era la cosa che odiavo di più, dover camminare parecchio con pesanti anfore per l’acqua”. Tihitna però strinse i denti e cercò di resistere, almeno fino a quanto le fu concesso di andare a scuola: ad un certo punto, però, i datori di lavoro decisero di non coprire più le sue spese e alla richiesta di un nuovo quaderno per gli esercizi si opposero fermamente, sostenendo che lei fosse lì per accudire i bambini e non per studiare. Nel ricordare quei giorni il volto si fa teso, la delusione per quegli atteggiamenti brucia ancora dentro di lei e il racconto diventa concitato. Lei però non aveva mezzi per difendersi, l’unica cosa che poteva fare era abbandonare la casa e chiedere di nuovo aiuto al fratello. Così fece e per un po’ restò da lui. La scuola fortunatamente era quasi al termine e per il breve periodo che si fermò a casa sua, Bizualem riuscì ad aiutarla. Finite le lezioni, la ragazzina tornò a casa, dove nel frattempo la situazione era precipitata: i genitori avevano infatti divorziato e il capofamiglia era andato a vivere altrove.

A quel punto, però, la madre si sentì libera di assecondare i sogni di formazione della figlia: prima di tutto prese in prestito dei soldi dai vicini, poi vendette un bue per restituire il denaro e averne a sufficienza per la giovane. Nel frattempo Tihitna non restava a guardare, non è tipo da star con le mani in mano: così si diede da fare per guadagnare qualcosina, lavorando giornalmente come muratore nella costruzione di edifici. Sono molte le donne e le ragazze in Etiopia impiegate nei cantieri edili, pubblici e privati. Per le studentesse spesso è l’unico modo per avere il denaro sufficiente per pagarsi la scuola. “Guadagnavo 15 ETB al giorno, stavamo costruendo un palazzo. Era molto faticoso – dice volgendo lo sguardo verso l’alto -. Quando si fanno questi lavori si hanno costantemente le mani ferite e poi io avevo sempre paura di cadere. Di buono, in questo tipo di occupazione, c’è che di notte non si lavora, mentre quando ero una domestica alcune mansioni mi tenevano impegnata anche fino a tarda ora”. Ripensando a quei giorni ricorda inoltre che gli incidenti erano frequentissimi, e non c’è da stupirsi viste la totale mancanza del rispetto di misure di sicurezza. In quei cantieri si lavora senza tute, le ragazze con la gonna, senza guanti, elmetti o altri sistemi di protezione. Anche lei una volta ha avuto un incidente: “Mi feci male ad un polso – racconta toccandosi il braccio e la mano destra -, ma non potevo fermarmi perché rischiavo di perdere il lavoro. Avevo un gran dolore ma dovevo resistere”, precisa aggiungendo con lo sguardo basso che non aveva nessun contratto a tutelarla.

Fu grazie a quei lavori estivi nella realizzazione di palazzi e strade e all’aiuto della madre e del fratello che Tihitna poté continuare la sua formazione. Fu anche in grado di prendere in affitto una piccola stanza in città per alcuni periodi. Durante i mesi delle lezioni si dedicava solo allo studio, mentre d’estate cercava puntualmente un posto nei cantieri. Ad un certo punto anche il padre si decise a concedergli un piccolo aiuto, anche se non era disposto a coprire tutte le spese. Quegli anni, comunque, non furono facili per lei: lavorando solo d’estate i soldi a disposizione durante l’anno erano comunque sempre pochissimi e i sacrifici da fare molti. Spesso il cibo non bastava per il pranzo e riusciva a mangiare qualcosa solo a colazione e cena. Si trattava comunque di un’alimentazione estremamente povera: quasi mai la carne e spesso neanche l’enjera, nonostante sia uno degli alimenti principali della dieta etiope. Purtroppo, in questa già precaria e delicata situazione, sopraggiunse un altro drammatico evento, fonte di dolore e disorientamento per la ragazza: mentre frequentava il nono anno di scuola la madre si ammalò gravemente, fu ricoverata in ospedale ma inutilmente e in poco tempo morì. Una disgrazia per Tihitna e i suoi fratelli, un colpo duro da superare. La ragazza per un mese smise di seguire le lezioni e se ne tornò nel suo kebele d’origine, con il rischio di perdere un anno. Dopo quella grande perdita lei, il fratello e la sorella cominciarono a vivere tutti insieme, in condizioni sempre più precarie. Dopo il matrimonio del ragazzo, però, la situazione si complicò ulteriormente perché la moglie non vedeva di buon occhio la presenza in casa delle sorelle del consorte. La tensione era sempre alta, fino a diventare insopportabile tante da spingere la più piccola a cercare altrove lavoro come housemaid. “Io ne avevo passate già tante ed ero pronta a sopportare i comportamenti rudi della moglie di mio fratello, ma lei era giovanissima e non ce la faceva. Così se ne andò, trovò lavoro come domestica in una casa, ma non so dove. Da allora non ho più avuto contatti con lei”, spiega sommariamente senza soffermarsi sui dettagli e sui suoi sentimenti.

Un anno fa è arrivato il momento di scegliere la scuola, dopo la formazione di base: a quel punto Tihitna si è buttata su un istituto tecnico e sull’indirizzo ‘Machining’ (Meccanica). Avrebbe voluto seguire un corso per infermiera ma quel genere di scuole costano troppo e lei non ha i soldi sufficienti: “Gli indirizzi tecnici sono più economici e questo che faccio io dura solo due anni, perciò l’ho scelto – puntualizza sorridendo dolcemente -. Non avrei potuto permettermi una scuola più costosa o la cui durata fosse di tre anni”. Pur di studiare si è accontenta dell’unico corso che le era accessibile anche se, rivela nascondendo vergognosamente il volto dietro le mani, non sa esattamente quale professione potrebbe fare da grande dopo tali studi. Nonostante tutto questo non la scoraggia poi molto e lei una sorta di progetto per il suo futuro in mente già ce l’ha, e anche abbastanza chiaro: “Vorrei lavorare per un ufficio governativo o una ditta privata, non importa molto il settore, e con i soldi che guadagnerei mi pagherei un corso serale che mi piace di più”. Non è una sprovveduta e sa bene che tutto ciò non è semplice da realizzare, ma la voglia è grande e il difficile passato non ha scalfito il suo ottimismo. È veramente convinta di voler metter in pratica questa idea, lavorare e studiare ciò che le piace, quando ne parla trasmette una gran forza d’animo che spinge a pensare che ce la possa veramente fare.

Camilla Corradini (Volontaria CVM in Etiopia)

venerdì 10 dicembre 2010

La donna del "Millennium" (Microcredito - RF)


Sorride dolcemente Almaz Wurku, mentre stringe forte tra le mani il libretto del conto bancario di Millennium, l’associazione di persone afflitte dall’HIV di cui fa parte: lei, infatti, è una delle beneficiarie del revolving fund (fondo rotativo) che l’ufficio di Injibara del CVM ha avviato in quella città per aiutare alcuni malati di AIDS che versavano in condizioni critiche. Quel libretto dimostra che ha ben investito i soldi ricevuti e che si sta impegnando per restituire l’intera cifra, 1.200 ETB (circa 57 euro), entro dieci mesi. Quel prestito per lei è stato fondamentale per rialzarsi dopo una serie di disavventure, per occuparsi delle sue due figlie e reagire a tutti i brutti scherzi che la vita le ha fatto. Ne ha dovute affrontare tante e i suoi occhi cupi lo lasciano intuire chiaramente; mentre ne parla, però, appare tranquilla. Riesce a sorridere e rivangare momenti terribili con una serenità e una disponibilità che colpiscono, forse ha imparato a convivere con quel pesante passato; forse ha deciso che è il momento di smettere di soffrire e cogliere le buone opportunità che le vengono offerte per cambiare finalmente il corso della sua vita.

Almaz ha circa trentaquattro anni, ma ne dimostra molti di più; è originaria di Bahir Dar, capoluogo della regione Amhara, a circa duecento chilometri da Injibara. Rimase orfana quando aveva dieci anni e fino a diciotto visse con uno zio benestante che si prese cura di lei permettendole di studiare: “I miei genitori erano anziani e malati, non conosco la causa della loro morte. A quel tempo non c’erano molte informazione sulle malattie e dell’HIV non si sapeva praticamente nulla. Dopo la loro scomparsa, mi trasferii da mio zio e lì cominciai ad andare a scuola, sono arrivata al nono grado (il che significa che ha completato l’istruzione primaria e iniziato il secondo livello di scuola, praticamente ha smesso di studiare nel momento in cui si è sposata). Lui era buono con me e non c’erano problemi”. Quando aveva diciotto anni, un uomo molto più grande di lei, sui trentasei anni, la chiese in sposa e sia lei che lo zio acconsentirono; il matrimonio secondo il rito tradizionale, che prevede la scrittura di un accordo alla presenza degli scimaghilli (anziani molto rispettati all’interno della comunità), fu celebrato a Bahir Dar ma la coppia si trasferì a vivere ad Injibara, luogo di provenienza dell’uomo. “Ero contenta di sposarmi, lui mi piaceva. Ma presto cominciarono i problemi e tutto cambiò”, spiega guardando in alto con un’espressione che è un misto tra un sorriso e una smorfietta di rassegnazione. Il marito era un commerciante e spesso stava giorni interi per lavoro in altre località; fu probabilmente durante uno di quei viaggi che incontrò la donna con la quale instaurò una relazione extraconiugale e mise al mondo un figlio. In un primo momento Almaz non si rese conto di quanto stava accadendo, poi cominciò ad insospettirsi perché le assenze dell’uomo erano sempre più lunghe e lui era ogni volta più restio a darle i soldi per la casa e per le due figlie che nel frattempo erano nate dalla loro unione, Emawayusm Wurkinhe e Wusitina Belay. Quest’ultima ha cambiato cognome perché delusa dal padre che non si è mai occupato di loro.

Quel marito che scompariva sempre più spesso e non l’aiutava quasi mai spinse Almaz ad indagare, chiedendo informazioni a conoscenti e amici venne a sapere che l’uomo aveva un’altra donna e che era con lei che trascorreva gran parte del suo tempo. Una terribile scoperta che la ferì profondamente (...). Così, in un batter di ciglia Almaz si ritrovò sola, senza proprietà e soldi, e con due figlie piccole di cui occuparsi. Lei però non si lasciò sopraffare da quelle complicazioni, affittò una piccola casa a 40 ETB e cercò di guadagnare un po’ facendo la lavandaia e preparando enjera da rivendere ai vicini. In cambio questi ultimi, se poteva, le davano oltre ai soldi che le spettavano come salario anche qualche cosa da mangiare per le figlie. Non furono tempi facili per la donna, nel ricordarli però non emergono lamentale, rabbia o autocommiserazione, ma la consapevole accettazione della sua situazione: “Era molto difficile coprire tutte le spese e purtroppo non riuscivo a mandare le mie figlie a scuola, ma non avevo altre possibilità”. (...)

Quasi due anni fa, pensando di migliorare la sua situazione e consigliata anche dai vicini, Almaz decise di unirsi di nuovo ad un uomo. Ormai erano passati circa sei anni da quando era finito il suo primo matrimonio e trovare marito poteva essere la soluzione ai suoi problemi economici. “Quest’uomo mi chiese in moglie e i miei vicini mi suggerirono che andando a vivere con lui avrei risparmiato i soldi dell’affitto e insieme, lavorando entrambi, avremmo avuto più denaro per le nostre necessità e per quelle delle mie bambine. In verità non lo amavo ma poteva essere effettivamente un modo per migliorare la mia condizione”, ammette senza vergogna. Lui era vedovo e a quanto sapeva lei la prima moglie era morta di parto. Forse, però, questa non era proprio la verità e Almaz si trovò ben presto a fare i conti con un altro problema, più grosso di quelli affrontati fino a quel momento.

Dopo alcuni mesi dall’inizio della relazione con quest’uomo, cominciò infatti ad avvertire dei fastidi, continui mal di testa e forti dolori addominali. Visto che i disturbi non si placavano, Almaz si confrontò con una donna malata di HIV e decise di sottoporsi all’analisi del sangue; purtroppo i suoi sospetti erano fondati: aveva contratto il virus dell’AIDS. Quando lo scoprì il primo pensiero fu per le sue figlie, era disperata all’idea che anche loro potessero essere sieropositive: “Uscii dal centro ambulatoriale dove mi avevano dato i risultati del test e feci tutta la strada fino a casa con il terrore che le avessi contagiate, perché non separavamo gli strumenti taglianti come aghi e forbici. Era per loro che ero preoccupatissima in quel momento, non tanto per me. Decisi che avrebbero dovuto fare subito il test, già il giorno dopo. Quella notte rimasi sveglia, la paura per le mie figlie non mi lasciò dormire. Quando diedi loro la notizia scoppiarono a piangere ma cercai di rassicurarle. Dopo che fecero l’analisi del sangue ci tranquillizzammo un po’ perché risultarono negative e io spiegai loro che di me non si dovevano preoccupare, però avremmo dovuto usare subito delle precauzioni come tenere separati gli strumenti taglianti che adoperavo io da quelli loro”. Almaz non era una tabula rasa in merito all’HIV come molte sue coetanee, aveva infatti una discreta conoscenza del virus grazie ad un corso sulle cure domiciliari di base seguito quando era a Bahir Dar: “Avevo partecipato ad un training. In verità non mi volevo occupare delle persone malate, anzi la cosa mi spaventava un po’, ma nel kebele cercavano volontarie per quel corso e io accettai perché pagavano”, ammette vergognosa dopo una serie di tentennamenti e tentavi di addurre motivazioni diverse. Quanto appreso durante quegli incontri l’aiutò un po’ ad affrontare quella scoperta tanto dura da mandar giù, ma non alleviò molto il dispiacere che quella terribile verità le stava causando. La questione che la tormentava, poi, era legata a come aveva contratto il virus e fin dall’inizio non ebbe grossi dubbi: “È stato il mio secondo marito a trasmettermelo, ne sono sicura. Io prima era negativa, avevo fatto già il test”, precisa con la solita aria pacata e disponibile. Almaz si era infatti sottoposta altre tre volte all’analisi del sangue: quando aveva partecipato al corso sull’HIV, durante un incontro di donne e dopo il divorzio dal primo marito quando aveva scoperto che lui la tradiva. Era sempre risultata negativa. A quel punto il pensiero corse di nuovo alla storia della prima moglie del suo compagno: “Quando qualche conoscente mi aveva detto che sospettava che fosse morta di HIV e non di parto, mi ero preoccupata ma poi avevo chiesto chiarimenti a mia suocera e lei aveva confermato la versione di mio marito e non avevo fatto il test. Quando scoprì il mio stato ero arrabbiatissima, scioccata e mi tornò in mente quella storia. Cominciai a domandarmi perché avevo incontrato quell’uomo. Ero disperata, perché sapevo che prima di stare con lui non ero malata”. Ad avvalorare la sua ipotesi fu anche l’atteggiamento dell’uomo che si rifiutò ostinatamente di sottoporsi al test: lei glielo chiese subito ma lui non accettò mai, sostenendo che era stato il primo marito di Almaz a contagiarla e che il suo sangue, invece, era di un gruppo che difficilmente viene attaccato dal virus. La notizia della malattia e la reazione scontrosa del marito spinsero Almaz ad andarsene di casa, a lasciarlo e ricominciare per l’ennesima volta una vita da sola con le sue bambine. I ricordi di quei giorni sono un po’ sfumati come pure i pensieri che le passarono per la mente in quel periodo di smarrimento e confusione: “Se lui era veramente negativo era giusto che si trovasse una donna non malata, quindi era meglio che ci lasciassimo”, dice in un primo momento aggiungendo poi: “Nel suo volto c’erano i segni dell’HIV e io son convinta che prima di lui non ero sieropositiva. È stato lui a contagiarmi", precisa guardando verso l’alto e alzando il tono della voce.

Così, circa un anno fa, Almaz è tornata di nuovo a vivere da sola con le sue figlie mantenendosi commerciando con il mais, prendendone a credito grosse quantità e rivendendolo al mercato. Purtroppo però la loro situazione economica era più che critica, quell’attività non riusciva a decollare e ad assicurarle un’entrata fissa e decente: erano costrette a vivere nella miseria, spesso senza avere le risorse necessarie neanche per due pasti al giorno, ridotte a volte a cibarsi solo di kolo (misto di noccioline e cereali tostati). “A volte mia figlia mi aiutava a lavare i vestiti quando non andava a lezione così potevamo guadagnare più soldi, ma non erano mai sufficienti. Anche per il materiale scolastico spesso non c’era denaro ed ero costretta a chiedere continui prestiti e favori ai vicini”.

Cinque mesi fa le cose, però, hanno cominciato a girare dal verso giusto e per lei e le sue figlie si è aperto uno spiraglio di luce: grazie ad una conoscenza fatta ai tempi del corso sull’HIV è venuta a sapere dell’esistenza dell’associazione Millenium e ha cominciato a frequentarla. È stata poi selezionata per partecipare ad un corso sulla gestione dei soldi e l’avvio di attività commerciali e le è stato concesso il prestito di 1.200 ETB, da restituire entro undici mesi. Quando avrà versato tutta la somma, quel denaro verrà consegnato ad un’altra donna nelle sue stesse condizioni. Con quel prestito ha potuto incrementare la sua attività: “Prima ero costretta a prendere a credito il mais presso i commercianti di Injibara a prezzi alti, rivendendolo ci guadavano ben poco, due o tre ETB a quintale. Ora posso acquistarlo da rifornitori in altre zone perché posso pagare nel momento in cui compro, così lo prendo in posti dove lo pago di meno e rivendendolo il guadagno è più altro: 20 ETB a quintale. In questo modo la mia attività mi assicura un’entrata ben più alta”, spiega in modo dettagliato, precisando che ciò le permette di soddisfare le esigenze della sua famiglia, senza chiedere in continuazione aiuto ai vicini. Ora hanno cibo a sufficienza ed è in grado di coprire i costi per l’istruzione di Emawayusm e Wusitina, sottolinea con il sorriso. Far parte di quell’associazione non ha voluto dire per lei solo ricevere una somma di denaro, ma avere anche un punto di riferimento a cui rivolgersi, qualcuno con cui condividere le difficoltà, soprattutto quelle legate al virus di cui è affetta.

“Far parte di Millennium – spiega mentre continua a stropicciare il libretto bancario – mi ha permesso di entrare in contatto con tante persone come me, malate di HIV. Prima ne conoscevo poche. All’inizio mi sentivo sola, come se fossi l’unica con l’AIDS, ora so che non è così”. Il futuro non la preoccupa molto, grazie al corso fatto sa come deve comportarsi e a dire il vero non è stata oggetto neanche di forti discriminazioni, questo le dà un po’ di sicurezza. L’aver inoltre accertato che le sue figlie sono sane è la cosa che più conta per lei. “Ora prendo le medicine anti-retrovirali e sto meglio. La mia maggior preoccupazione era per loro, ora che sono sicura che stanno bene non ho paura per l’avvenire”, ribatte seria. Tanta forza e fiducia arriva anche dal fatto che la sua attività stia andando bene, è convinta che potrà restituire tutto il debito nei tempi previsti: “Ho già ricominciato a pagare. Se riconsegnerò l’intera somma, forse in futuro il CVM sarà disposto ad aiutarmi di nuovo e potrò beneficiare di un altro prestito. L’idea sarebbe quella di aprire un piccolo ristorante”. Il suo sogno in realtà sarebbe quello di tornare a vivere a Bahir Dar, ma sa che per lei là sarebbe impossibile dato che ogni cosa è più costosa, quindi ha deciso di restare ad Injibara e cercare di rimettere in piedi la sua vita, dopo tutte le brutte vicissitudini che l’hanno colpita.

Camilla Corradini (Volontaria CVM - Etiopia)

giovedì 18 novembre 2010

Posti letto per le studentesse povere


Anche quest’anno il CVM ha dato ad alcune ragazze che provengono dalle aree rurali la possibilità di proseguire gli studi in città lontane dalle loro abitazioni, potendo usufruire di un alloggio gratuito. Rispetto al passato, però, c’è una novità: sono aumentati i posti disponibili e si pensa di avviare una piccola attività affinché le giovani abbiano anche una fonte di reddito.
Già dall’anno scorso l’ONG ha messo a disposizione di alcune studentesse povere una struttura nella woreda-città di Bichena, nell’East Gojjam, nella regione Amhara: all’interno dell’area della scuola preparatoria, ma in una posizione distanziata rispetto alle classi in modo che non sia raggiungibili dagli altri alunni, due edifici sono stati attrezzati con il necessario per vivere e studiare, letti con materassi, armadi, tavoli, sedie, spazio per cucinare e bagno. I posti disponibili sono venti: delle ragazze ospitate l’anno scorso, nove hanno concluso questo livello di istruzione e ora sono all’università; per i posti rimasti vuoti sono state subito selezionate altre studentesse bisognose.
Da quest’anno, però, il CVM ha deciso di offrire questo tipo di contributo anche ad alcune ragazze povere iscritte alla scuola secondaria ad Amanuel, nella woreda di Machakel sempre nell’East Gojjam: lì era già stato aperto l’anno passato un ostello per studentesse in condizioni di indigenza, per iniziativa della SIDA (Sweden International Developping Agency), con dodici posti letto; l’ingresso in campo dell’ONG italiana ha permesso di completare la struttura, non del tutto finita precedentemente, e di ampliare il numero di coloro che vi possono abitare portandolo a venti. Queste giovani hanno anche seguito un breve corso di formazione sull’allevamento dei polli, proposto nell’ottica di avviare a breve questo tipo di attività, che potrebbe assicurare loro un’entrata per coprire le spese scolastiche.
“Non avrei i soldi per affittare una stanza. – spiega Yengus Lake, che vive nella struttura di Amanuel ed è orfana di entrambi i genitori - Prima, quand’ero nella mia kebele (quartiere, villaggio, ndr), lavoravo per pagarmi il necessario per andare a scuola e vivevo con mia nonna che è poverissima, a malapena avevamo il cibo per mangiare. Là, però, non c’era la possibilità di frequentare il nono e il decimo grado scolastico: occorreva venire in città, ma qui io non mi sarei mai potuta pagare da sola una stanza in affitto. Ora posso vivere nell’ostello gratuitamente; così, lavorando come donna delle pulizie a scuola, riesco a coprire le spese per cibo e altre necessità”. L’aver un posto nell’ostello per molte di queste studentesse vuol dire poter proseguire gli studi oltre la scuola primaria: gli istituti per i successivi livelli di istruzione sono solo nei centri più grandi e loro, essendo originarie delle aree rurali, dovrebbero trasferirsi in città e affittare una stanza, ma questo comporterebbe spese che non sarebbero in grado di sostenere.
Negli ostelli hanno trovato posti ideali per studiare e risiedere e possono usare quei pochi soldi a loro disposizione per cibo, quaderni, libri e uniformi. Tra le ragazze, poi, si crea un clima di collaborazione e sostegno che le aiuta ad affrontare i problemi, da quelli nello studio alle difficoltà quotidiane, fino alla carenza di cibo. “La mia famiglia è poverissima e per farmi studiare i miei genitori si devono privare di tante cose, stando qui la scuola diventa un peso minore per loro. – racconta Yayesh Tadesse, una delle beneficiarie del progetto in Bichena - Qui poi possiamo studiare con calma, nessuno ci viene a disturbare, gli esterni non possono entrare nell’area a noi riservata. La scuola inoltre è vicinissima e questo è un grosso vantaggio. Le altre per me, poi, sono come sorelle”.
L’ospitalità nell’ostello comprende anche la partecipazione a corsi su life skill ed HIV, tenuti da esperti che forniscono così utili informazioni alle ragazze aiutandole ad affrontare i problemi quotidiani e a difendersi dai pericoli connessi all’essere donna, ma non solo.

Camilla Corradini (Volontaria in Etiopia)

giovedì 28 ottobre 2010

Al lavoro per pubblicizzare il PMTCT


Una serie di sessioni fotografiche specifiche, pensate appositamente per cogliere le sfumature culturali delle varie zone della regione Amhara, carpirne gli ambienti e i costumi mettendo in primo piano la gente che realmente abita quelle aree, il tutto per avere le immagini giuste che possano promuovere efficacemente il PMTCT (Protection of Mother To Child Transmission), il sistema di prevenzione della trasmissione dell’HIV da madre a figlio. Con questo scopo si è svolto la scorsa settimana il breve viaggio che ha visto alcuni membri etiopi del CVM, Haileyesus, Betre e Meteke, un volontario italiano, Ugo, e un fotografo professionista, Salomon, percorrere chilometri e chilometri in giro per la regione, passando per i grandi centri ma soprattutto fermandosi nelle aree rurali. L’ONG italiana sta infatti lavorando ad un’importante campagna pubblicitaria in collaborazione con l’HAPCO (l’ufficio preposto al controllo e alla prevenzione dell’HIV), affinché si diffonda una maggior consapevolezza dei rischi che ci sono nelle gravidanze quando la madre è sieropositiva, delle modalità di prevenzione, della necessità di effettuare controlli medici nelle strutture apposite e dell’importanza che tutta la comunità si impegni per promuovere comportamenti e pratiche utili a bloccare la trasmissione del virus al nascituro. Purtroppo, specie nelle aree rurali, la conoscenza in merito all’AIDS è ancora troppo bassa; specialmente in caso di gravidanza e al momento del parto, non c’è nessuna particolare attenzione o rispetto delle norme e delle precauzioni che permetterebbero di ridurre i rischi. Un alto numero di donne incinte non si sottopone a nessuna visita e moltissime partoriscono ancora in casa senza il medico.
La campagna pubblicitaria sarà focalizzata su un messaggio semplice ma ricco di significato: tutta la comunità, dai livelli più bassi alle autorità religiose e alle figure che godono di particolare rispetto, è responsabile per un futuro senza bambini afflitti dall’HIV. Le sessioni fotografiche sono ormai concluse, con non poche difficoltà nate dai timori della gente a lasciarsi immortalare per comparire poi nei materiali informativi; ora è in corso la fase di editing grafico e per fine novembre tutto il materiale pubblicitario sarà pronto e distribuito, un po’ ovunque, nella regione Amhara.

Camilla Corradini - Volontaria CVM, Etiopia

mercoledì 13 ottobre 2010

Kedest Lefalem, la giovane attrice della "Biruh Tesfa"


Non importa se non c’è il palco e neanche i vestiti di scena, quando la rappresentazione prende il via lei si immedesima completamente nel suo ruolo, ci mette convinzione, passione, riuscendo a captare l’interesse degli osservatori e mantenere l’attenzione generale alta fino al termine della storia. Certo, il merito è anche degli altri ragazzini che con lei danno vita allo spettacolo, ma di sicuro Kedest Lefalem è tra i più coinvolti e sembra particolarmente portata per la realizzazione dei ‘drama’, le brevi recite che vengono usate come strumento educativo per trasmettere importanti messaggi a grandi e piccoli. È una dei membri della “Biruh Tesfa”, l’associazione di orfani di Debre Markos nata grazie all’ONG Comunità Volontari per il Mondo (CVM). Quest’ultima cerca di togliere i ragazzini dalla strada, quando possibile affidarli alle cure di familiari o persone fidate e garantire loro la possibilità di andare a scuola. Ma li coinvolge anche in una serie di attività importanti per una crescita equilibrata e tra queste c’è anche la realizzazione di recite. Esiste uno specifico gruppo all’interno dell’associazione che si dedica a questo e Kedest ne è la responsabile.
Ha una particolare passione per le rappresentazioni teatrali, le piace scrivere le storie da mettere in scena ma anche interpretarle. A casa spesso compone piccoli poemi e racconti che poi, negli incontri che l’associazione tiene tutte le domeniche mattina, insieme agli altri membri del gruppo mostra davanti a tutti i ragazzini della “Biruh Tesfa”. Di norma gli spettacoli parlano di orfani e di bambini di strada, delle loro vite difficili, delle sofferenze e dei problemi che devono affrontare, ma anche di cosa possono e devono fare per cambiare le cose. Gli spettacoli però trattano pure di HIV, dello sfruttamento delle giovani ragazze che lavorano come serve in case altrui e, in generale, dei comportamenti corretti che bambini e giovani dovrebbero adottare. “Di pratiche sbagliate ma molto diffuse ce ne sono tante – ci spiega seria e posata -, questi spettacoli sono utili per spiegare in modo semplice ciò che non è corretto e cancellare le brutte abitudini. Ciò di cui preferisco scrivere è dei ragazzini di strada miei coetanei e degli altri membri dell’associazione: abbiamo problemi simili, alcuni di noi vengono dalla strada”. Certo, racconta cercando di sottolineare l’importanza del suo ruolo, coinvolgere i bambini più piccoli nelle recite è difficile:“in un primo momento vogliono partecipare di spontanea volontà, però poi si vergognano a recitare davanti agli altri e alla fine si tirano indietro. In genere sono soprattutto le femmine a voler prender parte agli spettacoli, mentre i maschi si fanno meno avanti. Io di solito scrivo le storie a casa, ma la domenica tutti noi membri del gruppo teatrale ne discutiamo insieme e decidiamo cosa mettere in scena, poi la settimana successiva facciamo la recita”.
Se ufficialmente è responsabile di questo gruppo di piccoli attori e in questo compito è palesemente a suo agio, è anche vero che il suo attivismo e la sua partecipazione emergono lampanti pure in altri momenti di vita dell’associazione. Kedest, infatti, è tra i membri che gestiscono gli incontri della domenica e che si impegnano per coinvolgere i più piccoli e i nuovi arrivati nelle varie iniziative. Con loro tira fuori i tratti da leader del suo carattere, la sua forza trainante. Recentemente è stata anche scelta come uno dei rappresentanti dell’East Gojjam per il network regionale che collega le varie associazioni di orfani.

Ormai sono cinque anni che il CVM ha preso a cuore il suo caso e l’ha inserita nei progetti rivolti ai ragazzini orfani e meno fortunati. È entrata in contatto con l’ONG italiana grazie ad alcuni coetanei che conoscevano l’associazione e ne hanno parlato con lei; poi l’amministrazione della kebele (come dire quartiere, circoscrizione) ha accertato il suo stato di povertà, condizione necessaria per essere ammessa nel gruppo dei ragazzini supportati dal CVM, che ha quindi cominciato ad aiutarla.
Kedest ha ormai 14 anni, anche se il suo fisico alto e snello e il suo sguardo profondo la fanno sembrare più grande. Ha un carattere forte, è decisa, determinata e nella folla di ragazzini coinvolti nelle attività dell’organizzazione la sua personalità non passa inosservata. È originaria di Dejen, nell’East Gojjam, a circa settanta chilometri da Debre Markos. Ha perso entrambi i genitori quand’era molto piccola: aveva appena un anno quando è venuto a mancare il padre, di cui non sa praticamente nulla, neanche la causa della morte; due anni più tardi è rimasta orfana anche della madre, scomparsa in seguito a una malattia di cui non conosce il nome. Quando la mamma ha cominciato a non star bene, l’ha portata a vivere a Debre Markos, da una zia paterna. Dopo qualche mese, anche la madre e la sorella più grande si sono trasferite nella stessa città, ma da parenti materni. La donna però poco dopo è peggiorata ed è morta. Kedest non ricorda molto di quel periodo, con il suo modo di parlare veloce e spedito racconta solo che la zia paterna non le ha permesso di partecipare al funerale della madre, alla quale non ha potuto dare l’ultimo saluto. Purtroppo, spiega con lo sguardo rassegnato, dopo quella disgrazia ha perso ogni contatto con la sorella: in modo un po’ confuso e facendo trapelare una certa timidezza, dice di non averla più vista. Forse la incontra anche per strada a Debre Markos qualche volta, ma dopo tanti anni non è neanche in grado di riconoscerla: sono ormai due perfette estranee. Qualche tempo fa, aggiunge in modo frettoloso e approssimativo, quasi non volesse affrontare l’argomento, ha chiesto alla zia di cercarla, la donna ha accettato di farlo ma in realtà non si è mai mossa in questo senso. Così, anche l’unica persona in vita del ristretto nucleo familiare, per lei, è come se non ci fosse più. Difficile capire come si senta per questa separazione; nell’affrontare la questione, non lascia trasparire molte emozioni e dalle sue parole appare una situazione quasi normale.
Dalla scomparsa della madre è sempre rimasta a vivere insieme alla zia, con la quale ha un buon rapporto, spiega sorridendo: “A sette anni ho cominciato ad andare a scuola – aggiunge fiera – e lei mi ha sempre incitato a studiare. Mia zia ha anche un figlio, avuto dal primo marito, ma ha trent’anni e vive in un’altra città, a Nazarat, e lavora in ospedale”. Qualche problema in verità c’è in casa, con il secondo consorte della zia, ammette Kedest cambiando tono e facendo scomparire il sorriso: “È scontroso e ha sempre dei comportamenti rudi”, rivela senza vergogna e con una certa sicurezza, precisando che all’uomo non fa piacere ospitare parenti in casa. Una contrarietà che non è legata solo alla sua presenza, in precedenza infatti altri parenti della zia hanno passato alcuni periodi a Debre Markos con loro: “Provenivano dalla campagna ed erano qui per andare a scuola. Due sono tornati nelle zone rurali d’origine, mentre uno è all’università”. A peggiorare le cose c’è poi il fatto, a quanto precisa ancora, che l’uomo a volte beve e litiga con la zia. “Se io mi intrometto mi picchia. Capita – continua seria gesticolando – che sia violento anche con me, se non faccio i lavori domestici e se i risultati a scuola non sono soddisfacenti”. Kedest, come la tradizione vuole, deve aiutare in casa: lavare i vestiti, pulire e badare agli animali. Non le è poi permesso allontanarsi troppo spesso dall’abitazione, molto raramente la zia acconsente a farla uscire per altri motivi che non siano le lezioni a scuola: è una femmina e per questo corre maggiori rischi rispetto ai coetanei dell’altro sesso, quindi va controllata di più. Non è la giovane a spiegarcelo ma il project facilitator del CVM di Debre Markos, Geremew Aklessa: all’inizio la donna era anche preoccupata quando la ragazzina usciva per partecipare agli incontri dell’ONG e spesso si opponeva; per questo, i responsabili l’hanno invitata ad alcune iniziative, le hanno mostrato cosa fanno i bambini facendole comprendere che non c’è nulla di cui preoccuparsi, anzi per Kedest quelle attività sono delle importanti occasioni di crescita e formazione. Così, ora la ragazzina è più libera di partecipare alle riunioni e di passare il tempo con i compagni della “Biruh Tesfa”.
L’incontro con il CVM è stato molto importante per la giovane: nonostante abbia qualcuno che si occupi di lei e non sia quindi costretta a vivere per strada o a lavorare come sguattera in qualche casa, non si può dire che la sua situazione sia facile. Oltre al fatto di aver perso entrambi i genitori quando era ancora piccolina e di non sapere nulla della sorella, Kedest deve fare pure i conti con i problemi economici della zia. La donna, infatti, non lavora e oltre alla pensione del marito le uniche entrate vengono dall’allevamento di alcuni animali da cortile. Per il cibo i soldi bastano, ma per tutto il resto si devono fare grossi sacrifici e le difficoltà maggiori riguardano le spese necessarie per permetterle di studiare. Ora è all’ottavo grado di scuola (la scuola in Etiopia è divisa in gradi, l’ottavo è l’ultimo della scuola primaria), ma se è arrivata fino a qui è solo grazie al supporto del CVM, è lei stessa che con voce seria lo spiega: “Se non ci fosse stata questa ONG non avrei potuto continuare a studiare: fornisce uniformi e materiali scolastici a me e agli altri ragazzini che non potrebbero procurarseli da soli”. Il CVM in verità l’aiuta anche in altro modo: quando la scuola è chiusa cerca di inserirla nei progetti di IGA, in modo da assicurarle un piccolo guadagno. All’inizio ha venduto il grano, mentre recentemente le è stata affidata una pecora da allevare. Rispetto al passato, ora ha qualche possibilità in più di costruirsi un futuro dignitoso, può permettersi di fare progetti: cosa vuol fare di preciso da grande ancora non lo sa, vorrebbe dedicarsi di più alla recitazione, ma anche l’idea di insegnare non le dispiace, di sicuro sa che vuol frequentare l’università. In fondo, per decidere ha ancora tempo, ciò che conta è che ora ha una speranza per l’avvenire.

Camilla Corradini (Volontaria CVM - Etiopia)

venerdì 1 ottobre 2010

Yerab: quando la vita ricomincia... nonostante tutto


Ora gestisce due piccoli esercizi commerciali, dove vende bevande alcoliche, tè, caffè ed enjera, e ci mostra con orgoglio gli spazi in cui esercita queste attività, ma per ottenere ciò che ha ora Yerab Yesmanem ne ha dovute passere tante e più di una volta se l’è vista veramente brutta.
Vive a Debre Markos ormai da undici anni, ma è originaria di Abazashi nella woreda di Sinan, dalla quale se ne andò quando rimase vedova e senza mezzi per sfamare i suoi due figli. I problemi però erano cominciati ben prima. Il padre morì quando lei era ancora una bambina: ammalatosi improvvisamente se ne andò in poco più di due settimane, senza aver fatto ricorso alle visite di un medico e senza scoprire quale fosse il suo problema. Quando aveva quindici anni, la madre la forzò a sposare, contro la sua volontà, un uomo che non conosceva perché “la tradizione voleva così”: “A quel tempo - spiega con un velo di tristezza negli occhi, mentre fissa il vuoto – non era comune che le ragazze andassero a scuola e ricevessero un’educazione, in più mia madre era molto povera e c’erano altri tre figli, due maschi e una femmina, di cui occuparsi. L’unica alternativa che mi si presentava era quella di sposarmi. Non ero contenta ma questa è la nostra cultura, allora le cose non erano come ora e non potevo fare diversamente”. Nonostante quel matrimonio non fosse da lei né cercato né voluto, ben presto Yerab cominciò ad affezionarsi e ad amare quell’uomo che la madre aveva scelto per lei. Lui proveniva da una famiglia di agricoltori e i suoi genitori, al momento delle nozze, gli regalarono un terreno che diventò la principale fonte di sostentamento per la giovane coppia. Nel ricordare la vita con il marito sorride dolcemente, quasi vergognosa: con lui stava abbastanza bene, non la picchiava e non era rude, anche se c’erano comunque alcune tensioni. I problemi sorgevano quando lui minacciava di voler vendicare l’assassinio del nonno paventando la volontà di vendere gli animali per comprare un fucile, idea che Yerab non condivideva affatto, o quelle volte che si recava in città per il mercato e, dopo essersi ubriacato, trascorreva la nottata fuori casa. Specie in quest’ultimo caso, lei tornava a vivere dalla madre e lui, ogni volta, andava a riprendersela chiedendo scusa. Da quel matrimonio sono nati due figli: la dolce Bayelign e il fratellino Yechalem, che attualmente hanno rispettivamente 15 e 12 anni. Purtroppo, alla gioia per la nascita del secondo seguì un triste momento per Yerab: la madre cominciò a star male, bloccata a letto da continui spasmi di vomito. I soldi per portarla in ospedale non c’erano e il marito di Yerab non era disposto a vendere i capi di bestiame per ottenere la somma necessaria per le cure. Così, la donna usufruì solo dell’acqua santa a cui spesso la tradizione ricorre in caso di malattia, ma senza ricavarne benefici, e dopo tre mesi morì. Un brutto colpo per Yerab, ma questo era solo l’inizio.
A distanza di un anno, si trovò di nuovo ad affrontare la malattia di una persona cara, questa volta si trattava del marito e la situazione fu ancora più difficile per lei. L’uomo cominciò a tossire pesantemente e ad aggravarsi giorno dopo giorno: in ospedale gli diagnosticarono la tubercolosi. Per tre mesi rimase a letto in casa, sotto le vigili cure della moglie, mentre i fratelli di lui e di lei si occupavano dei campi. Per poterlo curare nella maniera migliore Yerab chiese anche un prestito ai vicini di casa, ma non ci fu nulla da fare per l’uomo che morì lasciandola sola con i due bimbi, di cui il più piccolo di appena un anno. La seconda perdita in poco tempo e ancora più difficile da sopportare. Ora, tutte le responsabilità erano sulle sue spalle: in un primo momento riuscì a mandare avanti la casa e sfamare se stessa e i piccoli, grazie alle riserve che avevano messo da parte precedentemente, come si usa fare nelle aree rurali. Dopo circa un anno, le scorte però finirono e le cose cominciarono a complicarsi terribilmente, anche perché per restituire i soldi presi in prestito dai vicini fu costretta a vendere gli unici animali che possedeva, un bue e una mucca. Come se quanto finora successo non fosse abbastanza, ci si mise anche la famiglia del defunto a crearle problemi: quando l’uomo era in vita i suoi genitori avevano sempre preteso parte del raccolto, ma ora che lui era venuto a mancare volevano addirittura indietro il terreno e, per di più, pretendevano in custodia anche uno dei figli della coppia. Yerab non poté far altro che restituire il campo, ma si rifiutò di dare loro in custodia i bambini. La questione, però, a quel punto era come sfamarli e assicurare loro una vita dignitosa. Nei suoi sogni c’era anche quello di poterli mandare a scuola e far in modo che ricevessero quell’educazione di cui lei era stata privata.
Yerab era veramente disperata, giovane ma già con tanta sofferenza nel cuore e duri pesi da sopportare, senza opportunità e con un futuro davanti che si prospettava tutto in salita. La zona rurale dove viveva non le offriva molte chance, così decise di buttarsi, di rischiare spostandosi sola in città. Con la scusa di andare al mercato lasciò i due bambini al fratello e, senza rivelare le sue reali intenzioni, si trasferì a Debre Markos, dove trovò quasi subito un’occupazione come domestica a casa di un commerciante. L’uomo aveva un piccolo bar dove vendeva birra e altri alcolici e Yerab si divedeva tra i servizi in casa, dalle sei del mattino a mezzanotte, per i quali percepiva 15 ETB (circa 83 centesimi di euro) al mese, e il lavoro al locale, dove non era però solo una semplice cameriera. L’estremo bisogno di soldi la spinse, infatti, a lavorare come prostituita per gli avventori del bar. “Era molto dura, – racconta con un filo di voce – ma avevo tanto bisogno di denaro, volevo guadagnarne il più possibile per essere in grado di allevare i miei figli. Volevo tornare presto a riprendermeli a casa di mio fratello e portarli a vivere con me”. Yerab sapeva che prostituendosi avrebbe corso dei rischi, ma per i suoi bambini era disposta a fare di tutto: “Qualcosa sull’HIV avevo sentito, anche se non ero ben informata. Sapevo che era meglio usare il preservativo e chiedevo ai clienti di indossarlo, ma spesso si rifiutavano. Se volevo i soldi dovevo accettare di avere rapporti sessuali senza precauzioni e alla fine per il denaro acconsentivo”. Poco dopo il suo arrivo a Debre Markos il fratello l’andò a cercare, lei gli spiegò che stava lavorando come domestica per accumulare i soldi per crescere i figli ma tenne segreta la sua seconda occupazione, così l’uomo accettò di occuparsi per un po’ dei nipoti in attesa del suo ritorno. Per sei mesi Yerab fece quella terribile vita, fino a quando riuscì ad accumulare 800 ETB e ad affittare una casa per cinquanta ETB al mese. A quel punto comprò il necessario per avviare una piccola attività, inizialmente quanto serviva per vendere tè e pane poi col tempo anche birra ed enjera. Dopo tre settimane tornò nella sua zona d’origine per riprendersi i figli e portarli con sé a Debre Markos. Il più grande aveva ormai sei anni: l’età giusta per andare a scuola ma anche per piccoli lavoretti. Fece in modo che iniziasse a studiare ma gli comprò anche il set per lavorare come lustrascarpe nel tempo libero così che poteva anche lui contribuire all’economia familiare. Le entrate restavano tuttavia troppo limitate per i bisogni della famiglia e Yerab cercò aiuto dagli uffici governativi, affinché le dessero un prestito in modo da poter incrementare la sua attività. Ottenuto il denaro, da restituire in due anni, la situazione sembrava migliorare a poco a poco: le vendite stavano lievemente crescendo, lei poteva comprarsi i materiali necessari per preparare thè e quant’altro, che di solito prendeva in prestito dai vicini, e ora anche il secondo figlio poteva andare a scuola. Sembrava finalmente aver trovato la sua strada e, ricorda con uno sguardo pieno di rammarico, raggiunto una certa serenità.
Purtroppo però in agguato c’era un altro nemico da combattere ed era alquanto minaccioso: quattro anni fa Yerab cominciò a star male, dolori di testa e gastrite. Purtroppo, nonostante le prime cure la sua salute continuava a peggiorare vistosamente e i dottori le consigliarono di fare il test dell’HIV. In quel momento le sue conoscenze sull’AIDS erano maggiori dei tempi in cui lavorava come prostituta, aveva infatti avuto la possibilità di partecipare ad uno dei training che gli uffici governativi organizzano con le ONG e aveva chiari in mente quali erano i rischi che correva. Non fu facile per lei sottoporsi a quell’esame del sangue, la paura era tanta: “Mi domandavo come avrei fatto ad accudire i miei figli se fossi risultata sieropositiva e temevo che i miei clienti non avrebbero più voluto bere e mangiare quanto preparavo”, spiega con un’espressione di rassegnazione. Tentennò un po’ cercando di prendere tempo, poi cedette e si sottopose al test: purtroppo per lei il risultato era quello tanto temuto, aveva contratto il virus e quei disturbi erano i sintomi di quella terribile malattia chiamata AIDS. Quello è stato un momento orribile per Yerab, terrorizzata dal quel virus mortale ma ancora di più dal rischio di essere discriminata; anche le cure antiretrovirali la spaventavano, ne temeva gli effetti e non si convinceva a cominciarle. La malattia era però lì, non poteva ignorarla e alla fine si fece forza e l’affrontò, iniziando ad assumere le medicine prescritte dai medici. Tra le indicazioni fornitegli dal personale sanitario c’erano anche quelle per iscriversi ad un’associazione di persone malate di HIV con sede a Debre Markos, promossa dall’ONG italiana Comunità Volontari per il Mondo insieme a degli uffici governativi come l’HAPCO. Nonostante stesse prendendo confidenza con la malattia, quel virus e le conseguenze che poteva avere nella sua vita all’interno della comunità la intimorivano veramente troppo così Yerab aspettò oltre sei mesi prima di contattare l’associazione. Si decise solo quando scoprì che anche un suo vicino di casa ne faceva parte e che ne era molto soddisfatto: a quel punto mise da parte le sue remore e si avvicinò al gruppo. Un passo importante perché in quel momento prese coscienza del fatto che ci sono tante persone come lei, affette dall’HIV ma che conducono una vita normale. Lì capì che non era sola, che non deve avere paura a rivelare il suo stato e che c’è gente disposta ad aiutarla se ha buona volontà e voglia di lavorare.
Le cose però stavano di nuovo per precipitare: se all’inizio le medicine non le avevano creato disturbi particolari, col passare dei mesi, forse a causa di un’alimentazione non adeguata e del troppo lavoro, Yerab cominciò a star sempre più male fino ad essere costretta a letto per lunghissimi periodi. Troppo debole per occuparsi della sua attività commerciale, troppo faticoso stare davanti al fuoco per preparare le bevande, con continui dolori addominali che non la lasciavano in pace. Il suo fisico non riusciva ad adattarsi ai pesanti antiretrovirali. Quella situazione proseguì per circa un anno tra alti e bassi, in cui la donna non poté lavorare in modo regolare e il suo bar cominciò a perdere clienti. I soldi non bastavano mai e i bambini erano costretti entrambi a piccoli lavoretti per racimolare un po’ di denaro. Circa tre anni fa, finalmente il suo fisico cominciò a reagire meglio alle cure e lei, piano piano, riprese in mano la sua vita. Quei mesi però avevano sortito pesanti effetti anche sulla sua attività di commerciante e le vendite stentavano a riprendersi. A quel punto arrivò l’aiuto prezioso dell’associazione: Yerab seguì i training per i malati di AIDS in basic business skills in vista della concessione di un prestito. Un anno fa le sono stati concessi tremila ETB: con quei soldi ha comprato nuove materie prime per preparare bevande e piatti e ha potuto affittare un’altra stanza da usare come bar. Ora vende alcolici e non alcolici accompagnati da enjera in casa e in un piccolo localino a pochi metri da dove vive. Per gestire questi due spazi ha pure assunto due giovani aiutanti. Adesso è più serena, il peso della sofferenza e delle difficoltà affrontate non l’abbandonano mai, quando parla nei suoi occhi c’è sempre un velo di tristezza, ma i momenti più bui sono passati e riesce a prendersi cura di sé, dei suoi due figli e della giovane sorella trasferitasi a vivere con lei. “Sto meglio – ammette sorridendo -. Ciò che voglio ora è restituire i soldi che ho avuto in prestito e risparmiarne altri per costruirmi una casa tutta mia. Desidero poi che i miei figli ricevano un’educazione e trovino un buon lavoro”.

Camilla Corradini
(Volontaria CVM in Etiopia)

venerdì 24 settembre 2010

Il Capodanno dei bambini di strada a Lumami


Se per il mondo in generale l’11 settembre oggi è associato al terribile attacco alle Torri Gemelle di New York, per il popolo etiope questa data ha storicamente un significato totalmente diverso ed è occasione di festa grande: è il 1° giorno del mese di Meskerem, il primo giorno dell’anno. Il calendario di questo Paese e il nostro sono infatti molto diversi e nei giorni scorsi gli Abesha (come viene chiamata la popolazione locale) hanno dato il benvenuto al 2003. Il capodanno è un’occasione speciale in cui la famiglia si ritrova: chi lavora o studia lontano da genitori e parenti, se ha le possibilità economiche e il tempo sufficiente, di solito affronta viaggi spesso lunghi e massacranti per trascorrere con i propri cari questa ricorrenza. Le persone se ne stanno con familiari e vicini: nei giorni precedenti i meno poveri si procurano pecore o polli e, il primo dell’anno, già dal mattino presto cominciano i preparativi per cucinare le specialità tipiche. Si comincia a mangiare alle 9 e si continua fino a sera, chiacchierando in famiglia e facendo visita a vicini o parenti. Sui piatti abbondano enjera con carne (pecora o pollo cucinati in diversi modi), yogurt, hambascia (pane tipico), kolo (noccioline), il tutto accompagnato da tella (la birra locale fatta in casa) e dall’immancabile cerimonia del caffè. A benedire la ricorrenza ci pensano i preti ortodossi che, muniti di grandi tamburi, girano per le case cantando e danzando - la preghiera è fatta anche di questo - e ricevendo in cambio piccole donazioni. In famiglia, poi, è usanza regalarsi qualche abito nuovo; in molti però non possono permetterselo, così in genere c’è l’abitudine di lavare il misero guardaroba che ognuno possiede. Davanti ad ogni casa è una distesa di vestiti, non di rado consumati e strappati, messi ad asciugare.
Se per tradizione questa è una data speciale, per i milioni di bambini di strada che affollano ogni angolo d’Etiopia è un giorno come un altro, ricco solo di sofferenze e privazioni. Niente famiglia con cui passare il tempo, niente cibo da gustare per salutare l’anno vecchio e accogliere il nuovo. Per loro non c’è festa e non c’è il calore dei parenti, ma solo l’ennesima battaglia giornaliera per conquistare qualcosa da mettere sotto i denti. Molti di loro, forse, non sanno neanche cosa vuol dire celebrare il capodanno con i propri cari, poiché sono finiti in strada quand’erano veramente piccolissimi e non hanno mai avuto nessuno che si occupasse di loro.
Nella città di Lumami in Awabal woreda, però, quest’anno il capodanno è arrivato anche per alcuni di questi sfortunati ragazzini: quasi duecento orfani hanno potuto festeggiare tale ricorrenza circondati da persone che hanno a cuore la loro vita e che provano a fare qualcosa affinché anche loro abbiano una piccola speranza per il futuro. Non importa se il primo dell’anno è arrivato con qualche giorno di anticipo (per questioni pratiche l’evento è stato infatti organizzato il 6 settembre), ciò che conta è aver regalato a questi sfortunati bambini un momento di gioia, aver fatto sentir loro un po’ d’affetto, accompagnato da cibo per tutti da gustare senza prima aver lottato per ottenerlo. La cerimonia è stata organizzata da un gruppo di giovani studenti universitari, trentasei in tutto, con l’appoggio dei colleghi del college, di gente comune che volontariamente ha cucinato e messo a disposizione materiali e denaro. A sostenere l’iniziativa anche l’HAPCO (l’Ufficio per la Prevenzione e il Controllo dell’HIV/AIDS), diversi uffici governativi e qualche Organizzazione non governativa.
Sotto un tendone traballante fatto di storti bastoni e pezzi di plastica strappati, lungo la via principale di Lumami, in modo da attirare l’attenzione dei passanti e sensibilizzare così quanta più gente possibile, sono stati riuniti circa duecento orfani, spesso vittime dell’AIDS che ha ucciso i loro genitori, lasciandoli privi di sostentamento e costringendoli a vivere per strada. Qualcuno magari ha ancora un genitore in vita o qualche altro familiare, ma spesso le condizioni di povertà sono tali che, anche se ci sono parenti, questi non possono prendersi cura di loro. Tra questi duecento ragazzini di strada anche una ventina di quelli rientrati nei progetti di sostegno che il CVM sta mettendo in campo nella woreda di Lumami.
Essendo una festa di certo non poteva mancare la musica, che tra l’altro è una compagna fedele della vita degli Etiopi, sparata a tutto volume, com’è abitudine, tramite una pianola, un amplificatore e grosse casse, appositamente montati per l’occasione. Tanto per cominciare dalle necessità base, la festa ha preso il via con la distribuzione del cibo ai bambini presenti: al bando il tradizionale rispetto che vuole gli adulti serviti per primi: quello era il giorno dei ragazzi di strada e loro dovevano esser al centro dell’attenzione. Per prima cosa quindi hanno mangiato i bambini e solo dopo ospiti e organizzatori. Enjera (sorta di pane etiope preparato dal cereale teff), carne, pane e acqua per tutti: un lusso per chi è abituato a vivere degli scarti degli hotel, quando riesce a trovarne. I ragazzini non hanno di certo fatto complimenti e si sono buttati come lupi affamati sui piatti, non lasciando neanche un rimasuglio e stando ben attenti a raccogliere tutto, anche ciò che scivolava sui vestiti. Poi è stata la volta dei saluti e delle dichiarazioni di ospiti e organizzatori, che hanno ribadito la volontà di potenziare le iniziative a favore degli orfani nella woreda di Lumami.
Infine il momento dei doni: l’avvio del nuovo anno scolastico era alle porte e ai ragazzini servono quaderni e penne, ma anche uniformi e vestiti, perché molti di loro sono praticamente coperti di stracci sporchi e non ci poteva essere occasione migliore di questa per consegnare loro un po’ di materiale utile. È stata la generosità della gente a rendere ciò possibile: è grazie alle donazioni della popolazione, delle persone comuni, che gli organizzatori hanno infatti potuto offrire il pranzo ai ragazzini di strada e comprar loro il necessario per la scuola, qualche divisa e alcune magliette. Per questa volta la comunità è riuscita a raccogliere materiale per circa 6.600 ETB (€ 366 circa).
Purtroppo, però, i ragazzini orfani sono veramente tanti ed aiutarli tutti è praticamente impossibile: dei duecento invitati alla cerimonia solo per una settantina c’erano quaderni e vestiti, gli altri dovranno aspettare, per loro anche quest’anno niente istruzione. È triste, molto triste ed ingiusto, ma non c’è alternativa. Gli studenti universitari si sono dati tanto da fare per raccogliere soldi e materiali facendo promozione in giro, andando di casa in casa e organizzando serate musicali, ma le donazioni non sono state sufficienti. Se per tutti e duecento c’era un pasto caldo per festeggiare il nuovo anno, solo per meno della metà c’era anche il supporto materiale in vista dell’inizio della scuola. Ed è ancora più scoraggiante se si pensa che, in realtà, nella woreda in questione sono oltre mille gli orfani che avrebbero bisogno di aiuto, ma non ci sono i mezzi per tutti, neanche per la metà di loro.
I fortunati sono stati chiamati uno alla volta dagli organizzatori, ad incitarli una musica fatta da mani battute a ritmo: ognuno si faceva spazio tra la folla e andava a prendersi il suo “regalo”. Alcuni piccolissimi, altri un po’ più grandi. Quasi tutti con indosso abiti lisi e rotti, non della giusta misura, rattoppati e sporchi, tanti senza scarpe ai piedi. I volti spesso segnati da una vita difficile trascorsa nella strada, senza nessuno a proteggerli e senza la minima conoscenza delle norme igieniche. Era commovente vederli procedere, chi intimorito chi fiero e sorridente, mentre i compagni, anche quelli per i quali non c’era alcun dono, schioccavano le mani per festeggiarli e partecipare con fervore alla loro gioia.
Questa volta il capodanno è stato un giorno speciale anche per loro, la speranza è che non sia l’ultimo che festeggeranno, che la generosità della gente renda possibile aprire delle strade per il futuro di questi bimbi sfortunati e ci siano altri giorni come quello da poco trascorso, in cui il cibo non manca e l’istruzione non sia solo un sogno irraggiungibile.

Camilla Corradini
Volontaria CVM, Etiopia

giovedì 23 settembre 2010

Netsanet Eiigu, consulente delle donne incinte per la prevenzione dell'HIV


L’HIV le ha portato via il suo primo bambino quando aveva appena tre anni, ma il desiderio di avere un altro figlio dopo quella grande perdita era così grande che Netsanet Eiigu ha voluto sfidare quel terribile virus, che ha colpito lei e il marito, e metterne al mondo un altro, nonostante questa volta fosse consapevole della malattia e di ciò che essa comporta. Ha deciso, però, anche di non tenere per sé quella dolorosa esperienza, ma di farla diventare un’occasione di crescita, di formazione, di presa di coscienza per tante donne, soprattutto per quelle incinte. Per questo ha accettato il lavoro di consulente offertogli dal centro sanitario di Debre Markos, nell’East Gojjam: tre volte alla settimana incontra future mamme per dare loro utili informazioni sul virus, su come prevenire la trasmissione, ma anche per diffondere buone pratiche igieniche ed evitare la trasmissione di tante malattie.

Ci racconta la sua storia, ospitandoci proprio nella stanza del centro dove di solito si confronta con le donne incinte, è seduta sulla piccola seggiolina in paglia, che usa per la cerimonia del caffè che accompagna ogni incontro. Il volto è serio, cupo, all’inizio sembra quasi disinteressata alla nostra presenza, poi però comincia a parlare senza esitazioni e si lascia andare a riflessioni e racconti narrati con dovizia di particolari, ma sempre tenendo bene a freno le emozioni. I suoi occhi profondi guardano me con un’intensità che mette quasi in imbarazzo, ma che non lascia trapelare, se non in rari casi, ciò che c’è dietro: difficile cogliere espressioni tristi o smorfie dettate dai brutti ricordi, e ancor più rari sono gli attimi in cui concede sorrisi. I lineamenti sono dolci e quasi stonano con quell’atteggiamento cupo, ma forse il suo passato, pieno di dolore e complicazioni, l’ha indurita e spinta a crearsi una sorta di scudo dietro al quale, quasi inconsciamente, cerca di difendersi. Se la perdita del primo figlio è stato il momento peggiore della sua vita, non è sicuramente l’unico episodio triste e fonte di sofferenza.
Netsanet viene della città di Digotsion nella woreda di Bibugn, piuttosto lontano da Debre Markos; la madre morì quando lei aveva 15 anni dopo aver sofferto per tanto tempo di emorroidi, mai curate a dovere. Per la donna era stato un lungo susseguirsi di alti e bassi, con disturbi che si accentuavano e si attenuavano ma senza mai lasciarla, sempre trascurati fino a quando la situazione non precipitò costringendola a letto e, nel giro di un mese, portandola alla morte. Un dolore grandissimo per la giovane Netsanet, che viveva sola con la madre poiché frutto di una relazione extraconiugale con un uomo che aveva già un’altra famiglia. Fu proprio con quest’ultima che lei si trasferì a vivere una volta rimasta orfana, ma fin dall’inizio fu chiaro che quella convivenza non poteva durare: la matrigna non voleva quella ragazzina tra i piedi, simbolo dei tradimenti del marito, che per altro oltre a Netsanet aveva altri figli al di fuori del matrimonio. La donna maltrattava la ragazza, non solo a parole, e le impediva di andare a scuola.

Quei divieti e quegli atteggiamenti ostili erano insopportabili per la giovane e al tempo stesso erano causa di continue discussioni tra i coniugi. Il comportamento del padre, infatti, era ben diverso da quello della matrigna: era affettuoso con la figlia, tentava di difenderla, ma per questo doveva continuamente scontrarsi con la donna. Per mettere fine a quella situazione dilaniante per tutti, Netsanet lasciò quella casa e si trasferì a vivere con un’amica, vendendo tella (la birra locale fatta in casa) per mantenersi. Fu durante quell’attività che conobbe Alemu Awoke, all’epoca giovane militare. Tra loro sbocciò subito una relazione che in poco tempo portò al matrimonio, ma anche quella nuova vita le stava per riservare brutte sorprese: “Lui beveva molto ed era violento, litigavamo spesso e mi picchiava, anche quando sono rimasta incinta”, racconta la donna con il volto serio e compito, come se non volesse ricordare quei momenti. “È successo anche quando ero al nono mese di gravidanza, ma io mi difesi con un bastone”, aggiunge con lo sguardo fisso verso un punto lontano. Quelle accese liti non ebbero conseguenze fisiche per i due, ma furono la causa della loro prima separazione, o meglio ciò che spinse l’uomo ad abbandonarla e andare a vivere a Debre Markos. La povera Netsanet si ritrovò di punto in bianco di nuovo sola e con un bambino che sarebbe arrivato a brevissimo. Fortunatamente il legame con il padre era ancora forte e lui non le voltò le spalle: avvertito dai vicini, la raggiunse e la prese a vivere con lui, questa volta con il consenso inaspettato della moglie. Il parto si svolse in ospedale, grazie all’aiuto della famiglia, e la giovane poté trascorrere i primi due mesi in una sorta di serenità domestica con il nuovo arrivato, Kaldikan, anche se privata dell’affetto del compagno e del piacere di condividere con lui quei momenti.

Aveva appena ricominciato ad organizzare la propria vita, per l’ennesima volta da capo, quando Alemu tornò da lei per fare pace e riprendersela a vivere con lui, portandola a Debre Markos. Netsanet non ci pensò due volte: ciò che la lega a quell’uomo era ed è troppo forte per dirgli di no, lei lo amava e lo ama, lo ammette sinceramente e un po’ vergognosa, continuando a distogliere lo sguardo, chiudendosi su stessa e facendosi sempre più piccola. Purtroppo, però, nonostante quel sentimento il loro rapporto non sembrava trovare la strada giusta per funzionare come si conviene a una coppia sposata: l’uomo continuava ad essere rude, le liti proseguivano frequenti e, spesso, lui se ne andava per giorni, trasferendosi in una città vicina. A peggiorare quella delicata situazione, sempre in bilico e sul rischio di esplodere, si aggiunse qualcosa di ancora più grave: la malattia del piccolo Kalkidan. Un momento terribile per Netsanet, in cui ogni giorno portava con sé una nuova sofferenza: il peggioramento del bambino, il ricovero in ospedale, poi la diagnosi che identificava nell’AIDS la causa di quei malesseri. Non c’era tempo da perdere, la donna prese subito appuntamento con il medico per le necessarie analisi e le cure ma Kaldikin, purtroppo, a quell’appuntamento non arrivò mai. Il suo corpicino, troppo debole e provato, cedette prima, la morte lo strappò dalle braccia della madre senza darle la possibilità di lottare con lui. Quante lacrime versate, che gran dolore per quanto accaduto, quanti interrogativi ai quali non era semplice trovare risposte. Un’esperienza tragica, che all’inizio Netsanet dovette affrontare da sola perché il marito se ne era di nuovo andato qualche giorno prima del ricovero del bimbo e lei non sapeva dove fosse. Nonostante tutto ciò, quando Alemu tornò, lo riprese anche questa volta con sé e, dopo avergli raccontato quanto successo, con lui pianse di nuovo accoratamente quell’enorme perdita. Una morte troppo repentina per essere accettata, che portava con sé un altro problema impossibile da ignorare: con grande probabilità uno di loro o entrambi aveva contratto l’HIV. Fecero il test, in un primo momento risultò positiva solo lei, mentre l’esito di lui, negativo, doveva esser riconfermato dopo tre mesi. Ma al termine di quei lunghi novanta giorni le analisi rivelarono un’altra verità: anche lui era malato. A quel punto al tanto dolore si aggiungeva anche la consapevolezza che erano stati loro a trasmettere al piccolo quella malattia spaventosa.

Forse Netsanet non vuole che si scavi troppo nel suo passato e in quello del suo uomo, ma spiega di non sapere come hanno contratto il virus: “Io non ho avuto relazioni sessuali con altri uomini e non penso che sia stato lui a contagiarmi, – dice seria, ma senza dilungarsi troppo – forse l’ho preso quando ho curato una sorella malata, poi morta probabilmente per l’AIDS, o forse usando qualche strumento tagliante preso in prestito dai vicini e non pulito. Prima per queste pratiche non c’era nessuna attenzione”.

L’aver scoperto di essere entrambi malati li convinse, però, che potevano continuare a vivere insieme, che non c’erano motivi per separarsi, che avrebbero potuto sostenersi a vicenda. La perdita del piccolo Kalkidan aveva però lasciato un vuoto troppo grande per la giovane, il desiderio materno stroncato così presto ardeva ancora forte dentro di lei. Paure e timori erano lì, ma Netsanet non riusciva a rassegnarsi all’idea di non avere bambini. Per questo cercò aiuto al centro sanitario di Debre Markos e lì scoprì che aveva una possibilità, che esistono sistemi di prevenzione, che poteva assumere delle medicine per diminuire le possibilità di trasmissione del virus ad un eventuale nascituro. Finalmente una bella notizia per lei, ma come convincere il marito? Con la solita espressione seria che non volendo rivela tanta sofferenza, racconta che lui era contrario: “Aveva paura che nascesse malato e poi avevamo anche tanti problemi economici. Lui aveva smesso con il servizio militare a causa di problemi a una gamba e faceva lavori giornalieri, in genere nella costruzione di palazzi”. Lei però non era disposta a cedere, quel bambino lo voleva, confessa con tono perentorio, lo desiderava così tanto da essere pronta ad insistere con il marito fino allo sfinimento pur di metterlo al mondo e alla fine riuscì nel suo intento. Certo a quel punto le cose non sarebbero state semplici: c’era tutta la trafila all’ospedale da seguire rigidamente, affinché il bambino nascesse sano e al contempo il costante timore che potesse succedere qualcosa, che si potesse ripetere la storia del primogenito.

Le cose però non possono andare sempre nel verso sbagliato, in mezzo a tanta sofferenza ci deve pure essere lo spazio per un sospiro di sollievo e, dopo il parto, per Netsanet è arrivato quel momento: il secondogenito è nato sano, niente virus per lui. L’ha chiamato Yohanis e ora ha tre anni. Purtroppo però questo raggio di luce nella sua vita è stato offuscato da un altro dispiacere: Alemu l’ha di nuovo lasciata; a dispetto di quanto era sembrato in un primo momento, con il passare dei mesi le sue capacità di gestire il virus hanno cominciato a vacillare. Ai disturbi fisici si sono aggiunti problemi psicologici. Ora lei vive da sola con il bimbo. È molto dura per lei senza quell’uomo che, nonostante i tanti problemi e i maltrattamenti, continua a volere accanto: il suo sguardo quando lo dice si perde nel vuoto, il volto è contratto. Non si lascia andare a smancerie, è immobile sulla sua seggiolina, le braccia conserte e serrate, ma le parole e quelle poche espressioni che si lascia sfuggire rivelano tanta solitudine. Dopo quello che lui le ha fatto, sembra quasi una follia che lei ancora desideri il suo ritorno, ma è così, lo dice senza nessuna vergogna, come se fosse la cosa più normale del mondo nonostante il loro passato.

Ora, comunque, non è del tutto sola: durante le visite al centro sanitario per le cure nei mesi della gravidanza ha conosciuto i membri di Beza, la grande associazione di persone malate di HIV di Debre Markos nata anche con il sostegno del CVM. Un gruppo che fornisce supporto psicologico ma anche materiale. Per un periodo lei ed altre donne affette dal virus hanno gestito un piccolo bar dove vendevano tè e pane, purtroppo ora è chiuso perché alcune di loro sono morte e altre sono malate e non riescono a lavorare. L’associazione ultimamente però l’aiuta anche fornendogli discrete quantità di olio e grano. Da tempo, inoltre, lavora al centro sanitario: tre volte a settimana incontra le donne incinte, organizza la cerimonia del caffè e con altre colleghe, anch’esse malate di HIV, cerca di trasmettere alle future mamme preziosi consigli sul virus e non solo. La sua esperienza è un grande esempio per quelle donne: alcune come lei hanno l’AIDS e lottano per non trasmetterlo al nascituro. “Sono molto contenta di lavorare qui, penso al mio passato, alla mia storia e so che raccontandola e condividendo la mia esperienza con altre donne faccio una cosa utile. Può essere loro di esempio. Possono capire che con l’HIV si può convivere e che si possono far nascere bimbi sani, se si seguono i consigli del medico, se si adottano le necessarie precauzioni e si prendono le medicine”.

Camilla Corradini
Volontaria CVM, Etiopia

giovedì 2 settembre 2010

Amuneggh, l'ex housemaid cercatrice di legna


Gira per le strade di Debre Markos con grandi cesti pieni di legna e se la si guarda bene si scopre che con lei c’è un piccolo scricciolo, la sua bambina di poco più di un anno: è Amuneggh Mengestu e per sopravvivere raccoglie bastoni nel bosco e li rivende al mercato. Un lavoro faticoso, che la tiene occupata tutta la settimana per diverse ore al giorno e non le assicura neanche una vita dignitosa, ma purtroppo per lei non ci sono altre opportunità. In fondo, ci racconta timidamente, meglio questo che essere un’housemaid in casa d’altri. Lei lo è stata per un po’ e ne porta con sé terribili ricordi.
Amuneggh è originaria di un villaggio di campagna, Yezangira, 30 chilometri da Debre Markos. Dice di avere 19 anni ma a guardarla bene ne dimostra molti di meno. Tre anni fa è rimasta orfana, in poco tempo se ne son andati entrambi i genitori: prima il padre, morto forse per malattia, a quanto le hanno raccontato i vicini; la mamma sembra non abbia retto il colpo e dopo la scomparsa del marito si è ammalata, l’hanno anche portata all’ospedale ma per un solo giorno, poi di nuovo a casa, sempre a letto. Un mese di sofferenze e infine la morte anche per lei. Niente fratelli o sorelle con cui condividere quel terribile momento; così, trovatasi sola, Amuneggh ha lasciato il paesino e ha camminato fino a Debre Markos, dove vive una cugina con la sua famiglia, composta dal marito e dai loro cinque figli. Loro l’hanno ospitata per un mese, ma la sua presenza non era gradita, troppo poveri per accollarsi un’altra bocca da sfamare. L’hanno così aiutata a trovare un posto come housemaid, cameriera tutto fare, presso una famiglia di Addis Abeba. Amuneggh è partita alla volta della capitale, ma ad aspettarla non c’erano i fasti e le opportunità della grande città, bensì sfruttamento, solitudine, dure mansioni e nessun momento di riposo. Era costretta a lavorare 18 ore al giorno, anche di notte mentre tutti dormivano. Preparava l’enjera, i pasti, puliva la casa, lavava i panni, si occupava dei quattro bambini della famiglia, specie del più piccolo di appena due anni. Lavoro e soltanto lavoro, tutta la settimana senza neanche qualche ora libera e per soli 30 ETB (circa € 1,76) da riscuotere ogni trenta giorni. Dopo un mese di sfruttamento e atteggiamenti bruschi, Amuneghh non ce l’ha fatta più e ha chiesto di poter lasciare la casa e tornare a Debre Markos; in risposta a quella sua implorazione sono arrivate le percosse del capofamiglia. Fortunatamente la moglie del datore di lavoro, forse mossa da un’insolita pietà, per una volta ha messo da parte quei comportamenti rudi che di norma riservava alla ragazzina e le ha dato i soldi per andarsene via. La giovanissima orfana è tornata di nuovo dalla cugina, ancora una volta accolta come una scocciatura. Per un mese si è fermata a Debre Markos, dove ha guadagnato qualche soldo raccogliendo legna e rivendendola al mercato, poi è arrivata la seconda opportunità di lavoro come cameriera, ancora una volta trovata tramite la cugina, ma questa volta a Bahir Dar. Amuneggh è partita di nuovo pronta ad affrontare questa esperienza. Come nella capitale, anche nella nuova casa i guadagni erano veramente magri, ma le condizioni di lavoro più sopportabili: lavorava quattordici ore, invece che diciotto e aveva un giorno libero alla settimana, di solito la domenica. Le mansioni erano le stesse: cucinare, pulire, lavare i panni e occuparsi dei figli più piccoli di due e sette anni. Anche questa volta la giovane non ha trovato particolare comprensione da parte dei datori di lavoro: ancora atteggiamenti scostanti, ostilità, rimproveri, ma sicuramente un po’ meglio che nella famiglia di Addis Abeba e le cose sembravano procedere. Un’illusione per la ragazza, che ben presto si sarebbe scontrata con la cattiveria dell’uomo.
Dopo solo un mese nella nuova casa il giovane figlio del padrone, un ragazzo di 18 anni, ha infatti abusato di lei. Un’esperienza drammatica che non potrà mai dimenticare e i suoi occhi lo rivelano chiaramente. L’ingenua Amuneggh ha cercato aiuto dal capofamiglia e da sua moglie raccontando loro il terribile fatto, ma i due non le hanno creduto e hanno preferito dar credito alla versione del figlio: “Un uomo da fuori era arrivato e l’aveva stuprata”. Pesantemente violata, non creduta e per giunta cacciata via: già, perché il terrore che fosse rimasta incinta ha spinto i suoi datori di lavoro a rimandarla a Debre Markos. Come giustificare un’aiutante incinta? A quali problemi potevano andare in contro? Cosa avrebbe potuto pensare la comunità? Meglio lavarsene le mani subito senza neanche aver appurato la reale presenza di una gravidanza in corso, più facile cercarsi un’altra aiutante domestica, di ragazze povere disposte a lavorare in difficili condizioni ce ne sono molte. Inutili i tentativi di far cambiare loro idea per non perdere il lavoro, Amuneggh ha dovuto raccogliere le sue poche cose e ripartire alla volta di Debre Markos per bussare per l’ennesima volta alla porta della cugina e ricominciare a lavorare come raccoglitrice e rivenditrice di legna, per assicurarsi un posto in casa dei parenti ai quali in cambio dell’ospitalità consegna periodicamente somme di denaro. Non possono fare altrimenti: vivono in una casa in affitto, un’unica stanza non grande, pagano 60 ETB (circa € 3,52) al mese per stare lì, poi ci sono il cibo e le altre necessità a cui provvedere. La cugina e il marito, inoltre, sono malati di AIDS e l’uomo non ha un’occupazione fissa, ma fa qualche lavoro giornaliero quando non sta male. Anche ad Amuneggh, da quando è tornata, tocca fare la sua parte per mandare avanti la baracca.
Ritornata a Debre Markos, purtroppo per lei, le difficoltà non erano finite: la violenza sessuale aveva veramente procurato conseguenze che non si potevano ignorare, la giovane dopo lo stupro era rimasta incinta come temevano i datori di lavoro. Ancora un problema in più in una vita fatta di tristi momenti e continue complicazioni. Amuneggh però non poteva fermarsi, ha così continuato a lavorare. Nove mesi vissuti come se non fosse stata in dolce attesa, costretta dal bisogno di soldi a faticare normalmente: camminate nei boschi per raccogliere la legna e poi al mercato per rivenderla, enormi pesi sulle spalle nonostante il pancione crescesse, niente riposo e nessuna visita o controllo in ospedale. Impossibile chiedere aiuto alla famiglia del giovane che l’aveva messa incinta: sono rimasti a Bahir Dar e la ragazza non ha soldi per recarsi là e parlare con loro, tantomeno i parenti possono aiutarli, troppo poveri per perdere giornate di lavoro. Poi il momento del parto: in casa, anche questa volta niente clinica, ma per fortuna nessuna evidente complicazione a quanto riferisce con un’ingenuità disarmante, quasi non si rendesse conto dei rischi corsi. Per lei però non ci potevano essere i tradizionali 40 giorni in casa, di solito rispettati in Etiopia per ogni partoriente. Solo due settimane a letto per riprendersi un po’ e poi di nuovo cestone sulla schiena e via nel bosco.
Ora, però, c’è anche un’altra creaturina di cui occuparsi: Amuneggh l’ha chiamata Hulunayhue Nibiret, che vuol dire ‘ho visto molte cose’. Una scelta che porta con sé tutto il dolore e la sofferenza provati negli anni nonostante la giovane età, un nome che sta a ricordare le terribili esperienze vissute, i problemi e le difficoltà. Quella bimba però c’è, nonostante sia il frutto di una violenza, e Amuneggh non l’abbandona. Il problema, dopo il parto, era come fare a lavorare. Dove lasciare la piccola? Non c’è nessuno ad aiutarla: la cugina deve pensare per sé e i suoi figli non possono e non vogliono occuparsene, così Amuneggh si carica anche la neonata addosso, a volte in un cesto sulla testa, e spesso se la porta con sé nel bosco. Un peso in più, una difficoltà in più, specie al ritorno quando c’è la legna raccolta. Due viaggi al giorno nel bosco, se è stanca solo uno, tutta la settimana senza sosta. Poi al mercato per rivendere quanto raccolto guadagnando tra i 6 i 10 ETB giornalieri (da € 0,35 a € 0,58 circa). Poco per vivere, sfamare due bocche e versare la sua parte di affitto alla cugina.
Racconta che a volte non ci sono i soldi per fare tutti i pasti e mai per mangiare la carne: si nutre con i più economici pane, enjera e shiro. Per lei non ci sono altre opportunità per ora, lo ripete spesso, con un filo di voce e una tristezza negli occhi, pensando a quei coetanei che hanno trovato lavori migliori. Lei ha cercato un’occupazione come lavapanni o preparatrice di enjera, ma non ha trovato nulla. La legna ora è la sua unica fonte di sopravvivenza. Ripensando al passato, però, dice di star meglio e rivela che non tornerebbe mai a lavorare come cameriera per una famiglia. Troppo brutte le esperienze vissute, le cattiverie subite e ora traspare forte la paura degli uomini. Purtroppo in queste condizioni per Amuneggh non c’è opportunità neanche di formarsi, educarsi, nonostante il grande desiderio di studiare: non è mai andata a scuola, né quand’era a casa con la famiglia né dopo, quand’era aiutante in casa d’altri, perché i datori di lavoro non glielo hanno permesso. Non sa né leggere né scrivere. Ora, poi, con una figlia da sfamare è impensabile riuscire a trovare tempo e soldi per andare a scuola. Resta un sogno che un giorno spera di realizzare, insieme a quello di cambiare lavoro, magari vendere caffè e latte in un piccolo negozietto. Una speranza in più gliela sta dando l’Associazione di Donne Povere di Debre Markos. La coordinatrice, Hesbalam Mekonan, è una sua vicina di casa e l’ha trascinata nel gruppo: per ora non è un membro, ma l’associazione cerca di aiutare le housemaid e le ex housemaid. Amuneggh partecipa agli incontri della domenica, dove le donne approfondiscono temi quali l’HIV/AIDS e tutte le questioni ad essa relative, i loro diritti, le dannose pratiche di mutilazione femminile. È grazie a loro che la ragazza ora conosce meglio il virus, prima non ne aveva mai parlato con nessuno e praticamente non ne sapeva nulla. Non aveva mai fatto il test, neanche dopo la violenza o prima del parto. Le donne dell’associazione l’hanno spronata a farlo e due mesi fa, impaurita, si è recata in una clinica con la bimba: fortunatamente sono risultate entrambe negative. Per il momento, purtroppo, l’associazione non ha modo di coinvolgerla nel proprio lavoro e di assicurarle un guadagno, non ci sono le condizioni per dare un’occupazione anche alle cameriere o ex cameriere, ma cerca di sostenerle favorendo la loro educazione. Per il futuro, però, ci sono grandi progetti: il gruppo di donne povere da poco ha cominciato a vendere il latte e, con i guadagni di questa attività e della vendita di animali che alleva, vorrebbe aprire un piccolo bar-ristorante. Un localino che darebbe in gestione proprio alle giovani in difficoltà come Amuneggh. Sembra un sogno difficile da realizzare, ma la ragazza e la coordinatrice ci credono sul serio e, parlandone, i loro occhi si illuminano e i volti si riempiono di grandi sorrisi, mentre la mente già immagina il futuro bar pieno di clienti.

Camilla Corradini
Volontaria - Etiopia