mercoledì 5 dicembre 2012


UNITY, BERE ACQUA AVVELENATA PER NON MORIRE DI SETE





Il camino fuma in lontananza, “hanno fatto ripartire la produzione di petrolio”, sostiene laconico Afayo: piccolo, magro, spalle larghe, capelli rasati a zero come la maggior parte dei sudsudanesi, viene dal sud Afayo e ha molti caratteri in comune con gli africani che già conosco, parlando in inglese usa frasi come: “Mangerò il Natale a Bentiu” per dire “Trascorrerò il Natale a Bentiu” oppure usa la parola “dolce” per riferirsi a qualsiasi cosa saporita, anche fra quella salate: quell’animale (una specie di faraona selvatica) è piu dolce del pollo”, un uso molto strano per noi italiani. Afayo ha lo sguardo timido, spesso abbassa la testa quando gli si pone una domanda, parla poco e mai a caso, a volte quando non vuole dire le cose si morde le grandi e larghe labbra carnose, ha una bocca larga ma la usa poco, in compenso sorride molto, sorride spesso. Quella bocca la ricorderò per sempre, dopo aver trascorso una domenica sera ad illuminarla con la luce del mio telefonino (la luce sul telefonino ha cambiato la vita di chi vive in Africa) mentre un dottore ugandese gli strappava un dente cariato. Afayo è uno degli autisti della nostra organizzazione, avrà 25 anni ma è un ragazzo calmo, posato e responsabile, non beve e guida a velocità moderata, sempre, non suona troppo il clacson, qualità rara qui, non insulta passanti distratti, bimbi giocosi e lenti vecchi cenciosi che pullulano sulle polverose strade del Sud Sudan. Afayo è una brava persona ed è facile lavorare con lui, mi piace davvero molto e quando viaggiamo insieme è bello fare una chiacchierata con lui.




Sono in Sud Sudan da 4 mesi ormai, ma se penso ai miei primi e ormai già lontani ricordi mi sembra di aver vissuto in due paesi completamente diversi. Sono arrivato che le pianure del Sud Sudan settentrionale erano una distesa di smeraldo peloso, una coperta verde di erba alta punteggiata da alberi verdi e rigogliosi, tanti acquitrini, vaste pianure allagate a perdita d’occhio, il fango era il compagno delle mie giornate. Nei campi profughi regnava il fango, mescolato alle tracce biologiche dell’esistenza di questi esseri umani fuggiti dalle montagne Nuba. sulle montagne si spara, e queste anime disperate sono finite nel fango di Pariang a tirare avanti mangiando polenta di sorgo e lenticchie, ricevute una volta al mese dall’Altro Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Sulle montagne Nuba si continua a sparare e la gente continua a fuggire, circa 2,000 a settimana passano il confine ma qui il fango si è asciugato ed è diventato rossa terra polverosa che il vento di fine novembre alza e porta, sulla pelle, negli occhi, fra I capelli e più lontano.
Ad Addis Abeba i pasciuti politici di Juba e Khartoum hanno firmato scartoffie simbolicamente importanti ma che difficilmente risolveranno una delle questioni più complesse dell’attuale situazione geo-politica internazionale. La creazione dello Stato del Sud Sudan ha creato almeno altrettanti problemi di quanti non ne abbia risolti: incertezza sui confini e molti territori contestati, traffici commerciali bloccati con pesanti conseguenze sulla sicurezza alimentare ed il costo della vita per gli Stati del Sud Sudan settentrionale legati a doppio filo a Khartoum, tensioni fra i due eserciti alle prese con la guerriglia del Darfur, delle montagne Nuba e dello Stato del Nilo Blu, tutti situati in Sudan ma al confine col Sud Sudan, tutti alleati contro Khartoum e ora saldati in un Fronte Nazionale, segretamente ma poi neanche tanto, appoggiato dal governo Sud Sudanese. Ma il fattore di gran lunga più importante della contesa è la maledizione nera, chiamato anche, ingannevolmente, “oro nero”.





Lo Stato di Unity (cioè Unità) galleggia letteralmente sul petrolio, niente a che vedere con gli immensi giacimenti petroliferi dell’ Iran, dell’Iraq, della Nigeria o del Venezuela ma pur sempre importanti riserve di petrolio. Il  territorio è piatto, appoggiato sui detriti millenari del serpeggiante e maestoso Nilo bianco e ricoperto di una spessa vegetazione secca e giallastra, almeno in questo periodo dell’anno. Questa non è l’Africa da cartolina, non è l’ Africa di turisti con cappelli ridicoli e vestiti come David Livingstone e nemmeno l’Africa delle spiagge bianche con le mucche e le donne avvolte da vestiti colorati, questa è l’arida terra dei falchi e a giudicare dal numero di falchi, anche la terra delle vipere e dei serpenti. Un ambiente duro, secco, primitivo, dove ogni goccia d’acqua è preziosa e i falchi la fanno da padroni. In mezzo a questa campagna dura ed incontaminata ci sono stormi di uccelli bellissimi, gialli, in stormi di alcune centinaia che volano di campo in campo a mangiare il sorgo dei poveri contadini, oppure rossi, come il sangue versato durante le battaglie combattute da secoli fra Dinka e Nuer, tribù sorelle impegnate da sempre in una eterna ed infinita lotta all’ultima mucca. Le mucche sì, talmente importanti e rispettate che l’impostazione culturale dinka impone alle donne di starne lontane dalla cura delle mucche, troppo importanti perché se ne occupino degli essere “deboli ed inaffidabili” come le donne. L’unica cosa che le donne possono fare con le mucche è mungerle, per tutto il resto l’uomo la fa da padrone e decide, e spesso è l’unica cosa che fa. L’uomo solitamente delega alle donne tutto il resto: il compito di crescere i bambini e le bambine, sfamarli, lavarli, educarli e pensare a tutto ciò che serve per la casa dalla legna all’acqua, dall’agricoltura al piccolo commercio. Dinka e Nuer popoli guerrieri e fieri, dall’orgoglio feroce, impulsive, distruttivo e autodistruttivo, un orgoglio che si riflette nella vita di tutti I giorni con conseguenze violente in una terra dove sopravvive solo il più forte. Basta guardarli in faccia i Dinka e I Nuer, sguardi severi, volti spigolosi, fronti basse, rigate per lungo da cicatrici rituali che affondano le radici in una storia senza tempo, profondità e memoria.
La piatta pianura intatta e selvaggia è stuprata da oasi di modernità volgare, dietro una curva compare un mastodontico deposito di petrolio, appena fuori un villaggio di fango e malaria ecco le tubature dell’ oleodotto che porta questo veleno nero a Port Sudan. E allora forse si capisce perché questa zona di confine sia cosi importante ed ambita. Ecco che forse si spiegano le lunghe colonne di auto con mitragliatori, mortai e cannoni di gruppi ribelli in sfilata in pieno giorno, braccia di menti fredde e corrotte che siedono a pancia piena dietro agli scranni dei parlamenti nazionali. Sulle montagne Nuba si uccide e si è uccisi, si fugge dalle bombe la vera partita si gioca altrove: Juba, Khartoum, Washington, Pechino, Bruxelles. I falchi , I corvi e gli avvoltoi che giocano sulla pelle dei sudanesi, giovani e vecchi, Dinka o Nuer non importa, tutti fili d’erba della battaglia fra elefanti malati che combattono per un mondo sempre più a rischio.
Basta guardarsi attorno mentre si percorrono le polverose piste di polvere di Unity per capire perché il 100% dei pozzi d’acqua della contea di Koch sono gravemente contaminate e l’acqua non adatta per il consumo umano. Pozzi avvelenati da metalli pesanti che staranno nella terra argillosa, dura e secca per secoli, souvenir ai posteri di una maledizione nera che prima o poi finirà. E le ONG che fanno? Al momento raccomandano che è meglio berla quell’acqua inquinata piuttosto che morire di sete, pensiero freddo, razionale e sensato ma terribilmente triste ed ingiusto. Cosi si chiude la riunione delle ONG, un grido di rabbia e disperazione mi si soffoca in gola, in fondo non ci si può far niente, per ora…

Stefano Battain, 
ex volontario CVM, ora in Sud Sudan



lunedì 3 dicembre 2012

"In Etiopia niente è scontato". Un arrivo tra sorrisi, colori e ...scarafaggi!


27 Novembre 2012

Eccomi atterrata ad Addis Abeba, con un'ora di ritardo accumulato già prima di partire a causa di qualche guasto che ha provocato un black out nell'abitacolo dell'aereo. La partenza, quindi, non è stata molto rilassante, ma poco dopo il decollo mi sono rilassata al punto che non ho sentito il trambusto che all'una e mezza di notte le hostess stavano facendo per servire la cena!!!! Ma siccome la fame c'era ed era tanta mi sono gustata una cenetta, piccante, prima di ricadere nelle braccia di Morfeo.
Abbandonato Morfeo, il mio viso è stato illuminato da una luce arancione che emergeva dall'oscurità della notte, di quella che può esistere solo al di sopra delle nuvole, dove ero io, appunto.
Un'accogliente alba calda mi ha accompagnato fino a Bole Airport, l'aeroporto di Addis! Questo viaggio verso il Nuovo è stato un piacevole levitare verso l'alto in compagnia di una forte emozione che mi impediva di comprendere fino in fondo i veri sentimenti che stavo provando. Alla domanda “come ti senti?” ho saputo sempre e solo rispondere “strana”. In effetti così mi sentivo, strana: riuscivo ad immaginare solo fino al momento dell'imbarco, oltre la mia mente non riusciva ad arrivare. Come se il mondo, la mia vita, finisse una volta salita a bordo dell'aereo che mi avrebbe portato ad Addis. E se ci rifletto ne comprendo il motivo. Sono a una svolta, ho lasciato quanto conosco per andare incontro a quanto ancora non conosco. Mi sono svuotata per riempirmi, per ricevere. E' cresciuta in me una forte curiosità, la sana curiosità che permette all'animo di esplorare, scoprire e rendere proprio.
Una volta atterrata e sbrigate le pratiche burocratiche del visto, ovvero solo la verifica in quanto sul passaporto avevo già il Business Visa valido per 3 mesi, mi sono ritrovata davanti Antonella e Valentina, le due ragazze volontarie del CVM che vivono ad Addis. Fino ad ora ho omesso, volutamente, un importante elemento: non ho viaggiato sola. Ritengo sia importante precisarlo perché affrontare il viaggio di transizione con una persona che vivrà la tua stessa, no stessa no, simile, ecco sì simile esperienza possa essere di sostegno!
Il motivo per cui fino a questo momento non ho citato Giulia, la ragazza che ha viaggiato con me appunto, è dovuto all'emotività: le emozioni sono solo esclusivamente personali. Ho preferito lasciare correre liberamente il pensiero seguendo le emozioni che ho provato durante il viaggio. Comunque, all'aeroporto Antonella e Valentina, come stavo scrivendo, sono venute a prenderci con l'auto.
La prima cosa che ho notato, da subito, è la dimestichezza con cui le due ragazze che ormai vivono ad Addis da un anno interagiscono con le persone locali e soprattutto con il traffico!! A vedere il caos ordinato che avvolge tutte le strade è sorprendente. Tante auto, poche regole rispettate, ma poco clacson e molta calma. Un caos ordinato, appunto!
Dopo aver consumato una buona colazione in un bar fidato (dove anche i farengi -i bianchi senza distinzione di genere né di razza- possono consumare senza preoccupazioni di “attacchi” vari al proprio intestino) abbiamo fatto un passaggio veloce all'ufficio del CVM, in cui abbiamo conosciuto le persone dello staff locale (di cui ahimè ho difficoltà, molta, a ricordare i nomi) e abbiamo visto le nostre future postazioni per questi prossimi quindici giorni, per quanto riguarda me, e per i prossimi trenta giorni, per quanto riguarda Giulia.
Lungo la strada, la stradina sterrata che collega la “via” dell'ufficio del CVM alla strada principale (un lungo viale, asfaltato e caotico), Antonella si è fermata davanti una botteguccia in legno per comprare le ricariche per le schede sim appena consegnateci dalla segretaria del CVM. Non mi è ancora chiaro quanto costi la vita ad Addis, ma dal poco che ho potuto vedere non penso molto: esistono ricariche da poco più di 1 €.
E' evidente che la mia ultima affermazione è ancora molto legata a un confronto con il mio Paese di origine. Per me 1 € può avere poco valore, per il costo della vita in Etiopia non lo so ancora,ma potrebbe essere paragonabile alle nostre ricariche da 10 €. Ritengo che questi aspetti all'inizio uno li noti in rapporto al costo della vita nel proprio Paese, in seguito, penso che uno cominci a fare i calcoli non più rapportandosi al costo della vita nel proprio Paese, bensì al costo della vita nel Paese in cui risiede. Così, potrebbe anche scoprire che se non percepisce caro il costo della vita, questo può esserlo per una persona locale che vive e lavora da sempre in quel Paese.
Arrivate a casa, dopo aver percorso un paio di viali asfaltati e caotici attraverso i quali, per farsi strada, Antonella sfoggiava all'occorrenza un bel sorriso e un gesto elegante con il braccio fuori dal finestrino e dopo aver percorso una stradina in pendenza non sterrata ma “acciottolata” (i ciottoli sono pietre enormi sconnesse fra loro), siamo state accolte da un bel balcone “vista Addis”.
Il mio pomeriggio è trascorso disfacendo le valigie, selezionando i vestiti che terrò per Addis, provare a riempire il piccolo borsone di scorta solo con i vestiti che metterò in questi quindici giorni ad Addis e a rifare la altre due valigie. Ero veramente stanca, il letto mi chiamava, mi proponeva di sdraiarmi e abbandonarmi in un bel sonno ristoratore. Giulia aveva ascoltato il letto, io fino a quando non avessi finito il travaso delle tre valigie non avrei potuto. Il travaso è stato molto utile: fra circa quindici giorni prenderò l'autobus di linea che mi porterà a Debre Markos. Impensabile e impossibile prenderlo con 2 valigie da venti-tre chili l'una! In mattinata all'ufficio ho conosciuto Geremow, il referente e responsabile dello staff di Debre Markos, con cui collaborerò molto nei prossimi mesi, il quale mi ha proposto di lasciargli il bagaglio più pesante che avrebbe portato lui a Debre Markos rientrando il giorno dopo. Perfetto: disfatto, rifatto e fatto valigie!
Alle 14,30 locali, siamo arrivate alle ore 8 con cena ancora sullo stomaco, mi sono fatta una bella doccia ristoratrice per poter uscire. Non avevo però fatto i conti con la stanchezza: appena rientrata nella camera dopo la doccia, il letto ha cominciato a invitarmi in modo insistente e io, questa volta, ho deciso di accettare l'invito. Morfeo mi ha avvolto in un morbido abbraccio per circa tre ore.
Una volta svegliata ho incontrato Giulia che era già in piedi da un'oretta circa: abbiamo deciso di andare incontro ad Antonella che rientrava dall'ufficio a piedi. Affacciandomi dalla porta di ingresso ho notato che ormai il sole era definitivamente calato e la notte aveva preso il sopravvento. Erano solo le 18! Abbiamo percorso il proseguimento della stradina dell'andata che risulta in parte acciottolata, sempre con sassi grandi sconnessi, e in parte sterrata. Cerchiamo di identificare Antonella fra i corpi che incrociamo. Forse sarebbe meglio dire fra le sagome dei corpi che incrociamo, solo quello riusciamo a vedere: delle sagome scure avvolte nel buio. Finalmente siamo giunte alla strada principale, uno dei viali asfaltati e caotici. Abbiamo aspettato per circa mezz'oretta sull'incrocio della stradina con il viale circondate da tante figure scure, per la pelle e per il buio della sera, che salgono e scendono dai vari pulmini che accostano qualche istante a una fermata a noi sconosciuta e “invisibile”, non indicata ma da tutti conosciuta.
Abbiamo intravisto Antonella giungere con passo rilassato e a proprio agio. In quel momento ho pensato che è proprio così che voglio godermi Addis e le altre cittadine in cui mi troverò a vivere, proprio così: rilassata e libera di percorrere le strade. Al momento questa sensazione non la provo ancora e questo mi dispiace e mi sconforta. In un attimo però penso: sono qui da ieri, ovvero quello che sto raccontando l'ho appena vissuto, come potrei sentirmi a mio agio e rilassata in una città come Addis se non la conosco? Quindi la fiducia mi riempe di nuovo!
Con Antonella abbiamo ripercorso la strada che avevamo percorso in macchina la mattina e ci siamo fermate in una botteguccia in legno e lamiera che vende del buon pane: anche in questo caso pane fidato! In effetti, buono e senza effetti collaterali. Lungo la strada Antonella ci informa che è meglio evitare di percorrerla la sera, al buio, insomma la notte, e questo non solo per una generale precauzione ma anche per evitare di incontrare le iene: la casa si trova in una zona verde dove risiedono alcune iene. Lei stessa una sera ne ha vista una, piccina. Questo particolare è stato registrato dalla mia mente: non ho voglia di correre incontro al pericolo!
La zona in cui è ubicata la casa è su una piccola collinetta e per raggiungerla si percorre una stradina acciottolata al cui inizio si trovano le bottegucce in legno-lamiera che vendono di tutto un po' (in realtà devo ancora capire cosa vendono, per ora ho scoperto solo quella del pane) che poco dopo lasciano lo spazio a una serie di muri con alto filo spianto arrotolato in cima e portoni a intervalli irregolari. All'interno dei portoni si trovano le varie case: diverse case basse che hanno un unico accesso alla strada, il portone appunto. Anche la nostra casa si trova all'interno di un piccolo agglomerato, compound. La nostra è la prima e, forse, per questo gode di una vista piacevole: Addis.
Una mezz'oretta dopo il nostro arrivo a casa, ci ha raggiunte anche Valentina. Abbiamo cenato con una buona pasta al pesto di marca italiana e alle 21,30 eravamo già a letto.
La prima giornata e la prima notte ad Addis sono trascorse velocemente.

28 Novembre 2012

La notte è trascorsa serena, illuminata dalla bianca luce della luna piena. La paura delle pulci ha suggestionato a tal punto la mia mente che sentivo tanti insettini punzecchiarmi: mi grattavo di continuo. Finalmente ho capito che era tutto solo frutto della mia mente: non c'era nulla nel letto. Mi sono addormentata serenamente, per svegliarmi di colpo per una perdita di sangue dal naso: normale, l'altitudine (2355 mt, non raggiunti salendo piano piano ma arrivando dal cielo, quindi direttamente dall'alto senza dare modo al fisico di abituarsi all'alta pressione).
Al mattino abbiamo fatto una buona colazione con pane&nutella e poi in macchina abbiamo raggiunto l'ufficio. Io e Giulia ci siamo sistemate alle nostre nuove e momentanee postazioni e, acceso il pc, ci siamo messe subito ad analizzare i vari file, ognuna per i propri progetti. Quanti file! Tantissimi file! La mia domanda ricorrente è: come si fa a gestire una tale quantità di dati se i dati fra loro a prima vista sembrano incomparabili e, soprattutto, se più persone ci mettono mano? Una risposta ancora non è giunta. Penso di averne compreso il motivo: non c'è modo! Infatti il mio ruolo è proprio quello di creare un archivio unico, con tutti i file completi, con dati coerenti e in ordine. OHPS!
A pranzo siamo andate in un ristorantino-caffè dove io e Giulia abbiamo ordinato una ndjera (acida, quella vera) con una salsa calda di ceci poco piccante. Il sapore mi è piaciuto, ma per i miei gusti pranzare solo con quella diventa impegnativo per lo stomaco: appena rientrata in ufficio lo stomaco mi si è gonfiato uno sproposito. Il sapore della salsa mista all'acido della ndjera è sparito solo dopo aver cenato. Oggi a pranzo mangerò qualcosa di meno “penetrante”, spero.
La permanenza ad Addis è fondamentale per un buon ambientamento. Necessario! Specifico l'utilizzo di questo ultimo termine perché rientrando a casa a piedi (saremo uscite che erano le 18,30 ma era buio come fossero almeno le 22,30 ) ci siamo fermate in diverse bottegucce per fare la spesa. Utilissimo vedere come si fa la spesa e come bisogna fare per non essere prese in giro solo perché farengi. Non esistono, chiaramente, supermercati: sono tutte bottegucce lungo il marciapiede (pane, verdura, frutta, drogheria – che vende di tutto un po' come ricariche telefoniche, shampoo, integratori, rotoli singoli di carta igienica, olio, etc). Abbiamo comprato il pane in un'altra botteguccia rispetto a quella della sera precedente. Questa si trova su un incrocio alquanto caotico. Ma non mi soffermo sulla descrizione della piccolissima botteguccia da cui si affaccia una bella ragazza con il capo velato in un bel “chador” zafferano (penso sia somala, la zona dell'ufficio è una zona a prevalenza somala), bensì segnalo che il pane era davvero molto molto buono, ma purtroppo non ci si può fidare solo del sapore e della freschezza: Valentina a cena ha preso una delle pagnotte invitanti (io avevo praticamente già finito la mia, senza soffermarmi molto sulla sua estetica) e nello spezzarla si è accorta di un piccolo scarafaggio semi secco incastrato nella crosta...è stato anche cotto!
Non è mia intenzione aprire una sezione dedicata a questi “begli” animaletti simpatici. Non ho ben capito se possa definirli proprio scarafaggi, sicuramente fanno parte della loro grande famiglia! In cucina ce ne sono un po': alcuni chef, altri aiuti cuoco e altri semplicemente camerieri. Questi sono i ruoli che gli abbiamo dato: sono ovunque. Sinceramente temevo di patirli di più, ma in realtà vedo che appena possono scappano. Comunque sono della specie piccola e rossiccia, non quella nera e grande. Non ne capisco il motivo, ma per ora non li patisco molto, forse perché sono in casa con altre tre persone. A Debre Markos sarò sola, li capirò quale sia la mia vera reazione, ma considerato che ci dovrò rimanere almeno un anno, sarà bene che la mia reazione non si discosti da quella avuta qui ad Addis!
Alle 21,30 circa Giulia e Valentina si sono messe in salone, chi a leggere un libro trovato in casa chi a lavorare al pc. Io e Antonella siamo andate a letto. Io non avevo sonno, ma condivido la camera con lei e non volevo poi disturbarla nell'andare a dormire. In realtà, però, quando mi sono messa sotto le coperte (avrò almeno 3 strati di coperte, che subito mi scaldano e vanno davvero bene, ma che durante la notte mi fanno svegliare dal caldo e mi fan finire il mio sonno ristoratore in canottiera – non avrei mai pensato di riuscire a dormire in canottiera , per via degli insetti, ma qui siamo ad Addis, no a Debre Matkos!), stavo scrivendo che quando mi sono messa sotto le coperte mi sono gustata per un momento il riverbero della bella luce bianca della luna piena che filtrava dalle tende ( non ci sono persiane) e, cullata da questo abbraccio lunare, mi sono addormentata quasi subito.

29 Novembre 2012

Ripercorre a ritroso nel tempo la giornata precedente alle volte diventa difficile. Può dipendere da più fattori: confusione dovuta all'ambientamento, estraneità ai fatti in quanto ancora estranea alla realtà, susseguirsi di eventi e sensazioni personali difficilmente condivisibili per iscritto.
È bene però sottolineare quanto sia utile fare questo percorso a ritroso, per memorizzare ogni aspetto della giornata, ogni incontro, ogni parola, ogni gesto, ogni sguardo, ogni conversazione, ogni sensazione, bella e brutta. Tutto, memorizzare il TUTTO.
Anche ieri mattina dopo una ricca colazione (e qui apro una parentesi: sto mangiando tantissimo a causa di una dieta ricca di carboidrati; il pane è buonissimo, morbidissimo, sembra quasi una brioche!) abbiamo percorso a piedi i tre chilometri che separano la casa dall'ufficio. Quindi uscite di casa abbiamo percorso la stradina dissestata e sterrata, facendo il solito slalom fra i diversi ricordini dei diversi animali del circondario (capre, gatti, cani e iene) . Non siamo sole, siamo immerse in un fiume di donne, uomini, bambini e bambine che si accingono ad affrontare il giorno. E' molto piacevole la passeggiata, anzi la camminata: dovendo rispettare degli orari non ci si può permettere di passeggiare, ma camminare abbastanza veloci.
Incrociamo tante persone, tanti sguardi e tanti sorrisi. Alcune persone le incontriamo ogni volta che percorriamo la strada e Antonella le saluta dando loro la mano e pronunciando il saluto in amarico. A seguire, in coretto, io e Giulia ripetiamo il gesto e il saluto! Molte di quelle che salutiamo ogni giorno sono persone che hanno un negozietto o che semplicemente vendono qualcosa sul ciglio della strada. È sempre molto piacevole notare la radiosità dei sorrisi con cui queste persone accolgono chiunque. Quando quei sorrisi accolgono te, ti senti contagiato. La giornata inizia sempre così, con una bella lunga passeggiata circondata da persone indaffarate ma gioiose. Questa è una differenza che si nota immediatamente pensando alle strade delle nostre città.
Lungo tutto il percorso siamo accompagnate dal caos ordinato delle strade. All'inizio, ovvero solo tre giorni fa, avevo un po' di timore ad attraversare i viali considerato il caos che regna e la totale indifferenza nei confronti dei pedoni. Adesso mi sembra di aver capito quando cogliere il momento per attraversare e come attraversare (sempre un po' in diagonale è meglio, ti sposti in avanti e la macchina tarda un po' di più ad arrivare alla tua altezza).
Questa camminata di primo mattino è davvero ristoratrice. Respiri tanto inquinamento, davvero tanto poiché le macchine sicuramente non sono Euro 1 e tanto meno Euro 4 e le marmitte non sono sicuramente catalitiche. Quindi, polveroni neri e odore irrespirabile di gasolio e motore si mescola all'aria fresca mattutina. Ma, dicevo, è ristoratrice perché è piacevole ciò che i tuoi occhi vedono. E mi riferisco alle persone. La squallida sporcizia delle strade non sorprende. La vitalità delle persone, sorprende. Sorprende soprattutto un occhio “occidentale”.
Quanti bei bambini incontriamo, ognuno con la divisa della propria scuola. Con che passo spigliato e deciso si dirigono da soli, ancora molto piccoli, all'ingresso della propria scuola. Zainetto in spalla, per qualcuno, niente per qualcun altro, e quasi tutti con il baracchino per il pranzo. Un piccolo contenitore cilindrico di alluminio con dentro quanto può permettersi di dare il genitore al proprio figlio per il pasto.
La sensazione che ho provato la prima volta che ho percorso la strada per andare in ufficio è stata molto forte. Davvero molto forte. Ho provato un fortissimo desiderio di immergermi. Voglio immergermi completamente, impregnarmi della realtà che mi circonda, di questa nuova realtà, delle persone che la caratterizzano. Immergermi nei diversi odori che percepisco lungo i tre chilometri di strada, tanti e diversi fra loro: l'odore delle cucine dei ristoranti, penetrante, l'odore del mercato, fatto di gente, di cose e di animali, l'odore della strada, della sporcizia della strada e l'odore delle persone. Voglio immergermi nella lingua, nella musica..Ritengo che riuscire a immergersi pienamente sia sinonimo di comprendere e, alle volte, condividere.
Oggi non mi soffermo sul lavoro svolto in ufficio (anche perché ho ben poco da segnalare se non che ho dovuto fare tante fotocopie per aiutare Antonella ad archiviare molte ricevute di tanti mesi addietro...e oggi continueremo, effettivamente è un lungo lavoro), ma mi soffermo sugli incontri. Sì, sugli incontri che si fanno per strada o semplicemente nella pizzeria dove si va a gustare una buonissima pizza in cui il cameriere sbaglia l'ordinazione e noi un po' a malincuore decidiamo di non fargliela cambiare. Le volte che il cameriere si è scusato mi hanno sorpreso. Alla fine sul conto ha indicato il prezzo, più basso, della pizza che avremmo voluto mangiare. Anche in questo caso io e Giulia abbiamo appreso una nozione in più che oltre ad averci sorpreso ci ha fatto riflettere: gli errori dei camerieri li pagano i camerieri stessi. Avessimo ridato indietro la pizza, il cameriere avrebbe dovuto pagarla.
Mi voglio anche soffermare sul piacevole ambiente di un localino vicino all'ufficio con due- tre tavolini che offre degli squisiti spritz! Sì, spritz: avocado, mango, papaya e un frutto rosa mai sentito di cui non ricordo il nome, tutto pestato ( non frullato) e versato in un bicchiere enorme che si presenta come una creazione artistica di più strati colorati che fra loro si mescolano dando vita a forme diverse. Me lo sono davvero gustato temendo qualche effetto collaterale per noi farengi: nulla! Fantastico! L'abbiamo gustato in “compagnia” di un cliente che aveva ordinato un'altra decorazione artistica che ci ha incuriosito: con un bel sorriso e con una calma molto piacevole, il giovane ci ha illustrato il suo piatto, ovvero una colorata insalata fresca, molto molto invitante! Non era l'unico compagno con cui abbiamo gustato questo delizioso “frullato”. Infatti nel piccolo localino-negozietto (vende anche frutta, verdura acqua e biscotti) c'era una famiglia con due bambini piccolini di 4 anni circa, molto incuriositi dalla nostra presenza. Effettivamente fino ad oggi gli unici bianchi che ho visto siamo noi: nessuno nella zona della casa, nessuno per strada e nessuno nella zona dell'ufficio. Capisco, quindi, la curiosità di vedere delle ragazze farengi a gustare una colorata creazione artistica che già da sola attira la curiosità dei piccini, e non.
Mi voglio soffermare sugli incontri che si fanno per strada per chiedere informazioni su una scuola di amarico. La gentilezza delle persone e la sorpresa di quando capiscono, in un inglese per farengi e un amarico stentato di qualche parola imparata per la sopravvivenza quotidiana, l'intenzione di voler imparare la loro lingua. Una ragazza era così piacevolmente colpita che dopo averci dato qualche indicazione circa un cartello che indicava una scuola e su una scuola che lei conosceva, ma lontana, alla fine ci ha anche ringraziate. Ma eravamo noi a chiedere le informazioni, quindi noi a dover ringraziare!!! Semplicemente notare come le persone vogliano aiutarti, darti le informazioni che cerchi e, se non riescono loro, assistere a come coinvolgono altri passanti. Senza alcuna formalità, senza alcuna diffidenza. Ecco, questo mi fa' sorridere: il semplice notare i semplici gesti cui mi rendo conto di essere un po' disabituata, forse.
Oppure posso soffermarmi sulle manine piccole piccole di un bambino di circa tre anni che appena ci ha visto ci è venuto incontro per salutarci e darci la manina. Chiaramente con quei begli occhioni neri e quel sorriso disarmante. Presa la manina il piccolino stringe forte e si incammina con noi: il genitore sorridendo lo richiama a sé. Salutiamo il bambino con un grande ciao con la mano e un bel sorriso subito ricambiato.
Ancora potrei soffermarmi su quanto gli occhi vedono, che può sembrare loro strano vedere in una città, specialmente in una capitale. Come un signore che in bici trasporta sulle spalle intorno al collo una capra viva che gli si aggrappa serenamente con le zampe. Scena che abbiamo trovato comica e ci ha fatto ridere per la naturalezza con cui era vissuta, da entrambi.
Io e Giulia abbiamo notato che ci sono diverse capre nella nostra zona. L'arcano è stato scoperto: risiediamo nella zona del mercato delle capre! Questo spiega perché stamattina un signore teneva per la zampa una capra nera, quasi trascinandola, che capeggiava un gruppetto di altre tre o quattro caprette che la seguivano trotterellando. Abbiamo trovato comica anche questa scena, soprattutto alle 7,30 del mattino quando tutte le persone si avviano verso le loro attività: chi in giacca e cravatta, chi con i tacchi alti e un vestito elegante, chi con la divisa della scuola che frequenta, chi con semplici vestiti, sempre gli stessi, usurati e sporchi, con qualche sacchetto in mano per andare al mercato a vendere uova, chi con pantaloni, felpa, sandali e occhiali da sole per percorrere i tre chilometri che le porteranno all'ufficio del CVM.
Mentre stavo preparando i bagagli a Torino mi sono ricordata che mi era stato consigliato, vivamente consigliato, di portare una torcia per il buio della sera. È una delle ultime cose che ho comprato. Non immaginavo quanto buio dovesse illuminare. Da me, in occidente, sono abituata ad avere la luce “a comando” e le strade ben illuminate. Anzi, quando una strada non è ben illuminata perché ha pochi lampioni è sempre bene non percorrerla, specialmente da sola. Ecco, qui ad Addis Abeba, ribadisco qui in Capitale, la luce non è mai data per scontata. Non va sempre “a comando” e, soprattutto, la sera, verso le 18, è bene avere con sé una torcia, una pila: le strade sono buie e illuminate solo dai fari delle macchine lungo i viali trafficati e dalla luce delle bottegucce lungo il marciapiede, in alternativa solo dalla benevole luce della luna piena (quando è piena). Nella zona dove risiediamo non ci sono luci. Ieri sera siamo rientrate verso le 19,30: senza la pila di Antonella sarebbe risultato davvero difficile capire dove mettere i piedi e guardarsi intorno. Una bella lezione a pochi giorni dall'arrivo l'ho imparata: a Torino do sempre molte cose per scontate, in Etiopia non posso dare nulla per scontato, mai. Sto imparando, sono passati solo tre giorni dall'arrivo e so che ho ancora molto da scoprire per poter comprendere davvero. Sono all'inizio.

Lisa, volontaria CVM in Etiopia 

Etiopia...le prime emozioni di Giulia


Addis Abeba, 28 novembre 2012

Ed eccoci qui! Ieri mattina un'alba troppo rossa, proprio da clichè africano, mi ha svegliato attraverso il finestrino dell'aereo, e poco dopo abbiamo cominciato la discesa su Addis. Tutt'intorno l'altopiano etiopico si presentava avvolto in una leggera nebbiolina, che poi ho rivisto circondare la città anche stamattina e che rende il panorama simile a quello di un paesaggio incantato. Si distinguevano bene, comunque, i confini dei campi coltivati che ritagliavano il terreno in forme irregolari. La vegetazione è già quasi tutta ingiallita, soprattutto l'erba, anche se l'ultima stagione delle piogge è finita relativamente da poco e la prossima è ancora lontana..
Le formalità in aeroporto sono state molto veloci, il poliziotto che mi ha fatto entrare in Etiopia era sorridente e parlava un po' di italiano e il funzionario della dogana ci ha fatto passare senza problemi. Fuori ad aspettare me e Lisa c'erano Valentina ed Antonella, che ci hanno portato a conoscere i nostri colleghi dello staff dell'ufficio di Addis e poi alla foresteria del CVM a riposare. L'accoglienza è stata proprio squisita.
Io e Lisa siamo uscite solo un po' verso sera, passeggiando per le viuzze intorno alla casa. Aveva già fatto buio quindi bisognava stare attenti a dove si mettevano i piedi, visto che le uniche luci provenivano invitanti dai negozietti sui bordi delle strade. Attorno a casa abbiamo parecchi panifici, ortolani e botteghe di scatolame vario, bibite e detersivi e ovviamente rimangono aperti tutti fino a tardi quindi credo che non rischieremo mai di restare senza spesa... C'è anche un grande mercato di bancarelle ma ieri non abbiamo fatto in tempo ad andarci, spero tanto ci andremo stasera. Andare al mercato per me è sempre una festa.
Ufficio e foresteria sono abbastanza vicini, si può spostarsi a piedi tra uno e l'altro. L'ufficio si trova in un quartiere in cui vivono molte famiglie di origine somala, per cui la maggior parte delle donne che ho visto per strada hanno il capo coperto. Si sente il muezzin cantare per chiamare alla preghiera.
A volte i bambini che incrociamo sul marciapiede ci salutano con un sorriso unito a un “Hello!” o “Salam!”, qualcuno ci ha anche porto la mano cerimoniosamente.
Il clima è fantastico, sembra la nostra primavera, con un'aria frizzantina la mattina e la sera e calda durante la giornata. Niente umidità, altro che il Veneto Orientale.... Oggi si comincia con le varie formalità burocratiche, consolato, Charity e così via. Dopodomani però farò già la prima uscita sul campo, andremo in Wolayta, nel Sud, a visitare gli ultimi interventi realizzati dal CVM e poi accompagneremo un giro di monitoraggio dell'Ufficio Tecnico Locale del Ministero degli Affari Esteri. Forse proseguirò per una prima puntatina a Bonga, dove poi mi trasferirò stabilmente nel giro di un mesetto, quindi sono molto impaziente!

Soddo (Wolayta, SNNP Region), 1 dicembre 2012
Ieri mattina siamo partiti col pick-up da Addis Abeba e preso la strada verso Sud. Ecco l'Etiopia. Abbiamo corso per ore sull'altopiano, bellissimo. È evidente come questo paese sia densamente popolato (anche se non come l'Italia o il Bangladesh per fortuna!), non ci sono mai stati tratti in cui non incontrassimo abitazioni o persone. Appena usciti dalla città le case in muratura o cemento hanno lasciato il posto a capanne a pianta circolare, le pareti fatte in legno e fango e il tetto a cono con il telaio di legno e ricoperto di paglia. Quasi tutte sono ornate con dei bellissimi dipinti attorno alla porta. Per tutto il giorno abbiamo corso in mezzo a queste capanne, che mi piacciono moltissimo, senza che la loro architettura cambiasse mentre passavamo da una regione a un'altra.
Abbiamo fatto una tappa nella cittadina di Durame per lasciare una volontaria presso una piccola scuola costruita e gestita da una ONG. Ci siamo fermati solo pochi minuti perché volevamo riprendere subito il viaggio per arrivare a Soddo prima che facesse buio, però l'accoglienza che ci hanno fatto i bambini é stata allo stesso tempo squisita e commovente. Non so perché fossero così felici di vederci e perché ci facessero così tanti sorrisi, forse solo perché costituivamo una novità che rompeva la monotonia del loro pomeriggio, o perché effettivamente eravamo degli ospiti, dei visitatori, ma anche se arrivavamo a mani vuote si sono fatti tutti intorno a noi a salutarci e stringerci la mano, maestri e personale della scuola al completo. Quando siamo ripartiti ho tenuto lo sguardo fisso fuori dal finestrino per non far vedere che piangevo. Un pinco pallino gira tutto il mondo, conosce gente e città lontanissime, magari si illude di sapere già un sacco di cose ma poi come resistere a una simile accoglienza?
Oggi invece siamo andati a visitare alcuni impianti costruiti da poco nei villaggi attorno a Soddo. Soddo è una cittadina piuttosto grande, ma tutt'intorno i villaggi sono costituiti da queste capanne circolari distribuite nella campagna, di solito senza qualcosa che assomigli a un “centro” o una piazza principale come si ha nei paesini italiani. L'unico elemento che caratterizza ogni villaggio è un grande albero dalla larga chioma. Il primo che ho visto, vicino a Durame, mi ha fatto scappare un urlo perché era altissimo e sembrava avere mille anni o giù di lì... Le capanne spesso hanno dei cespugli di fiori accanto alla porta, e ho visto molte anfore e recipienti di terracotta o di ceramica nera. Il paesaggio è molto bucolico, insomma, ma poi tutto l'incanto svanisce quando arriva il momento di concentrarsi sul motivo per cui sono qui, cioè i problemi nell'approvvigionamento di acqua potabile e la mancanza di servizi igienici. Abbiamo visitato i punti in cui sono stati riabilitati dal CVM dei pozzi dotati di pompa manuale (uno pescava addirittura a 60 metri di profondità per cui l'acqua ci metteva parecchi minuti a risalire) e vari fontanili realizzati a partire da sorgenti spontanee, presso queste ultime c'era la coda di donne e bambini che aspettavano il proprio turno per riempire la tanica da 25 litri. Per quanto mi fossi già trovata in situazioni simili, in altri paesi, tutta la giornata è stata una tempesta di emozioni diverse, non è facile trovarsi di fronte a un mondo così diverso, dare un senso a queste differenze, ci vorranno parecchi mesi per abituarsi a vivere tutti i giorni in mezzo alla conseguenze delle ingiustizie che si consumano in questo pianeta senza esserne continuamente sopraffatta. Possibile che non si voglia fare di più?  Ogni volta che ci siamo fermati presso un impianto siamo stati circondati di bambini sorridenti e ridacchianti, gli adulti sono venuti a salutarci e a vedere cosa volevamo nel loro villaggio... In alcuni casi gli abitanti del villaggio si sono mostrati attenti ed interessati alle migliorie che suggerivamo, in altri non sembravano molto intenzionati a metterli in pratica...quanto avrei voluto poter eliminare la distanza enorme che c'era tra me e loro a causa dell'impossibilità di comunicare direttamente. Per qualsiasi cosa avevo bisogno di due interpreti, il nostro tecnico dell'ufficio di Wolayta che traduceva dall'inglese all'amarico (la lingua più diffusa in Etiopia, un tempo era l'unica ufficiale) e poi di un altro tecnico locale che traducesse dall'amarico al wolaytigno, la lingua che si parla qui. Non vedo l'ora di cominciare a studiare per lo meno l'amarico, non è possibile lavorare con delle persone con cui è impossibile parlare, non so se va bene quello che sto facendo, non posso capire di cosa hanno bisogno, cosa pensano del nostro lavoro...

Giulia, Ingegnere in Etiopia con CVM

martedì 16 ottobre 2012

Il diritto allo studio delle donne africane


“Se educhi un uomo, tu educhi un individuo. Ma se educhi una donna, educhi un’ intera nazione” -  Kwagyir Aggrey

Si stanno facendo sempre più impegnativi i progetti che CVM sta realizzando a favore dell’istruzione delle giovani donne in Africa e molti altri ancora - con queste finalità - andrebbero sostenuti. Soprattutto per molti giovani donne provenienti da famiglie povere e numerose rimane ancora un sogno irraggiungibile quello di poter completare un corso di studi che possa consentire loro di aspirare ad un futuro economicamente indipendente e, magari, di supporto per i propri familiari.
E’ con questo fine che, da anni, CVM offre un sostegno economico a molte di loro, affinché possano accedere a corsi di formazione professionale o a corsi preparatori allo studio universitario, senza trascurare la necessaria attenzione ad aumentare la loro consapevolezza relativa ai propri diritti in una società che le vede, troppo spesso, destinatarie di abusi e sfruttamento.
Il sostegno ha anche altre importanti valenze, infatti, si basa spesso su “fondi rotativi” il che significa che, completato il corso e trovato un lavoro, le ragazze ripagano il prestito dando, a loro volta, la possibilità ad altre studentesse di essere sostenute nello studio.
Finora i risultati sono stati molto positivi: per i progetti di questo tipo avviati in Etiopia , 60 ragazze hanno potuto iscriversi -  nel 2009 -  alle scuole superiori, 30 per prepararsi a corsi universitari e 30 per accedere a scuole di formazione professionale. Analogamente, in Tanzania, 12 giovani donne inserite nel programma promosso da CVM hanno conseguito la laurea e sono già impegnate in stage o stanno cercando lavoro. Ma la richiesta delle ragazze ad una propria istruzione e formazione cresce sempre più, così come - ovviamente - cresce la necessità di reperire fondi da destinare a questi progetti.
Tra le molte giovani che hanno fatto richiesta di accedere al programma c’è,  ad esempio, Neema Maftaha di 21 anni. Neema proviene dal villaggio di Saadani nel distretto di Bagamoyo in Tanzania; la sua è una famiglia molto numerosa, con la sola madre - che lavora in agricoltura - e sei tra fratelli e sorelle (tutti più grandi di lei) e non tutti con un lavoro. Neema ha richiesto di poter frequentare un corso di avviamento professionale:
Sono entrata nel progetto e nell’associazione - dice Neema  - per migliorare la mia vita e quella della mia famiglia e per riuscire a soddisfare i miei bisogni. Ecco perché al termine del corso vorrei trovare un lavoro”
Da un punto di vista strettamente economico, un supporto come quello a Neema, comprende il sostegno economico per la partecipazione al corso di avviamento professionale, la fornitura di materiale per l’avvio dell’attività, workshop mensili e destinati alle ragazze sui diritti delle donne nelle relazioni familiari, supporto per attività ricreative e per la produzione di brochure sul diritto all’educazione, training in salute riproduttiva e basilari nozioni di economia; il tutto per un impegno complessivo di poco più di 500,00 euro.
Altro esempio,  quello di Anna Saimoni, anche lei dal villaggio di Saadani  in Tanzania; Anna vive con sua madre - commerciante di pesce - suo fratello che è pescatore e sua sorella minore. Anche Anna ha richiesto di prendere parte ad un progetto di formazione professionale perché dice:
“Ho deciso di unirmi al progetto affinché possa rendermi indipendente e nello stesso tempo per incoraggiare altre persone della comunità a fare altrettanto.  Per migliorare le mie conoscenze, per una occupazione futura.”
Proprio dalle parole di Anna si comprende quanto sia importante che l’esempio di alcune sia poi trasmesso ad altre giovani; la consapevolezza delle proprie potenzialità  è un’esigenza  molto avvertita e da condividere con altri, per finire di coinvolgere positivamente tutta la propria comunità.  

Stefano Battain, 
ex volontario CVM, ora in Sud Sudan


Una “business analysis” un po’ speciale



Di nuovo costretta al di fuori del parco nazionale di Saadani per le strette regole dell’ente gestore.. d’altronde avrebbe poco senso pagare più per il mio ingresso che per le attività che implementiamo. La dottoressa che mi accoglie di solito a Mkange è fuori città e così Peace mi propone di andarmene a Miono. Conosco poco questo villaggio, la gente, le guesthouses… mi sono sempre fermata poco qui, l’unica volta in visita di monitoraggio con Marian. Potevo prenderla male, ma che senso avrebbe avuto.. qui, anche una persona impostata come me, impara a vivere l’avventura! Ed ho scoperto che le avventure possono andar bene come male, non siamo noi spesso a decidere la direzione, ma sicuramente molto dipende dallo spirito con cui lo viviamo, quello sì che fa la differenza…
E così, zaino scout alle spalle, parto con un pikipiki (moto, taxi locale) alla volta di Miono. Mezz’ora sotto il sole fra le campagne della Ward di Mkange.. che spettacolo.. che natura..  tutti al mio passaggio si girano, una mzungo, su una moto, con uno zaino così grande, in giro per quelle strade non si vede spesso.. sicuramente è l’evento del giorno! Così come il mio arrivo a Miono, tutti si stupiscono del fatto che io sia sola e che decida di fermarmi per due notti lì.. e soprattutto che io parli kiswahili.. e vi giuro che per quanto il mio kiswahili sia ancora scarso, per loro è una gioia ed un onore sentire che io sia capace di salutarli.
Vengo accolta da Rabia, segretaria del gruppo di microcredito locale, che Peace aveva prontamente avvertito del mio arrivo. Strano il fatto che lei sembra più preoccupata di me della mia permanenza a Miono. Per quanto mi considerino diversa da loro a partire dal colore della pelle, ai modi di fare, al modo di parlare, lo spirito materno di queste donne e il loro senso di protezione nei miei confronti viene sempre fuori in un baleno. Rabia mi porta a fare due passi per il villaggio ed a vedere il suo lavoro, vende kanga, kitende e pezzi di stoffa vari in giro per la città. Proprio vicino alla guesthouse incontriamo anche un’altra donna del gruppo di Miono, Bishum, lei prepara colazioni, chapati, mandazi, zuppe e thè.. è fatta, l’indomani il nostro giro inizierà da lei! 
E così è stato, dopo un’ottima colazione e 2/3 richieste di matrimonio nel locale di Bishum insieme a Rabia siamo partite alla volta di Mandera poiché molte donne del gruppo di microcredito vivono lì. Prima fermata, Sofia, leader del gruppo, donna molto composta e silenziosa, ha perso il marito diversi anni fa, e dopo un periodo di praticantato a Dar con la sorella, ora ha aperto un salone di bellezza a Mandera grazie al prestito ricevuto. Dopo i doverosi saluti, qualche domanda e salutata Rubia che se ne va a Chalinze a depositare i ripaga menti mensili del gruppo, propongo a Sofia di mettersi alla prova con i miei capelli!  Osservate le prime due clienti ci mettiamo al lavoro! Shampoo, bigodini e casco, tutto alla modica cifra di 0,75 €! sui miei capelli il tutto non reggerà molto, ma vi giuro che tranne la prova del casco con il caldo che già faceva, ne è valsa davvero la pena di trascorrere 3 ore lì! Accompagnata da Sofia ce ne andiamo poi a trovare Joyce: lei e i due bambini hanno appena finito di mangiare un piatto di ugali (polenta bianca), la sua casa è ancora in costruzione e mi porta a fare un giro per i campi..  i polli sono fuori a passeggiare, le banane son quasi pronte e gli spinaci sabato verranno raccolti e venduti! Terza tappa è il locale di Ester, vende bevande vicino alla strada che porta a Msata. Ci sediamo un po’ nel suo locale a fare due chiacchiere e ne approfittiamo per ascoltare insieme a tre masai un discorso di Nyerere, si sta avvicinando il Nyerere day. Oltre al locale Ester ha iniziato ad allevare polli, capre e con mio grande stupore maiali! È la prima volta che li vedo qui in Tanzania! Sono ancora piccoli.. chissà come starà il maiale del mio nonnino in Italia, quest’anno  non ho avuto l’onore di conoscerlo!!
Passiamo poi velocemente a salutare Hamida e Mwanaidi, la prima ha un piccolo negozietto dove vende un po’ di tutto, mentre la seconda prepara colazioni. Con loro ci facciamo una bella chiacchierata sulle differenze tra l’Italia e la Tanzania, io elogiando le qualità della seconda e loro della prima, ma tutte concordiamo che le donne di una volta, qui come in Italia non  crescono più! Donne forti come le nostre mamme e le nostre nonne sono ormai una razza in via di estinzione, mentre noi giovani ci crogioliamo nel nostro benessere! Ultima tappa, dulcis in fundo, Mwanaidi Jumanne, mama lishe, una delle tante “mamme” che preparano giornalmente da mangiare, dalla mattina alla sera! Come le avevo promesso appena messo piede a Mandera, sarei tornata da lei per il pranzo, e così ecco ad accogliermi ugali, fagioli, spinaci e un pezzettino di carne immerso in un sughetto di pomodoro! E come al solito il momento del pranzo diviene un momento di discussione con tutte le persone di passaggio.. dal microcredito alle acconciature femminili! 
Si sono fatte le 15 ed è ora di prendere un daladala (bus locale) per Miono prima che faccia notte.. anche per oggi la giornata è finita e mentre buttavo giù questi pochi pensieri, sono passate a salutarmi Rabia e una sua amica.. volevano assicurarsi che fossi tornata sana e salva ed organizzarsi per domani.. mi aspetta un nuovo viaggio in pikipiki fino a Mkange dove ad attendermi ci sono le ragazze delle due associazioni formate quest’anno dal CVM, per una bella partita di pallone!
 Il ricordo più bello di questa giornata? L’orgoglio delle donne che ho incontrato nel dire “Hai visto le donne del CVM di cosa sono capaci?!”, di certo la storia di questo gruppo non è sempre stata facile, ma con l’impegno dello staff locale, dei vari volontari e soprattutto delle donne più tenaci, i risultati sono arrivati e con loro anche i frutti di questo duro e paziente lavoro!

Serena Morelli
Volontaria a Bagamoyo - Tanzania 

venerdì 21 settembre 2012

Eid Mubarak


Camminare per le strade e sentire aria di festa, vedere così  tanta gente per strada, i vestiti buoni, lo scambio dei doni, i bambini che fanno il bagno nell’oceano, mangiare il cibo delle grandi occasioni in una casa piena di amore e umanità… è finito il Ramadan e la vita a Bagamoyo si desta nuovamente.
Tornata da poco in Africa, ci ho messo un po’ a tornare in “modalità Tanzania”… certe sensazioni riesci a provarle più nettamente solo quando percepisci la differenza.. e dopo due settimane a casa era inevitabile farlo..
Nella mia mente mille pensieri.. a volte mi sento così  immersa in questa realtà che non mi rendo davvero conto di essere in Africa.. altre volte invece gli sguardi delle persone lasciano trapelare la distanza.. vedere i bambini che ti guardano come fossi un alieno a volte fa sorridere, altre volte ti riporta con i piedi per terra…
E poi ti ritrovi a parlare per ore con persone stupite perché un mzungu parla la loro stessa lingua, con persone stupite perché mzungu ha trovato il tempo di sedersi a condividere un pasto con loro, perché un mzungu ha un nonno che fa il contadino.. Alla domanda di un uomo stupito “Perché i wazungu coltivano?” cosa volete rispondere..
E riscopri la semplicità delle piccole cose, dei piccoli gesti.. Scopri che i nodi e gli incassi non sono un esercizio lungo una settimana di un campo estivo, ma qui sono ancora la struttura che regge le case… scopri che è così naturale ricevere in dono un cestino di pomodori e tornare il giorno seguente con un piatto di spaghetti al pomodoro… scopri che una giornata di lavoro può essere meno pesante se qualcuno passa a donarti un sorriso, ed uno spuntino.. scopri che sotto la superficie del’acqua dell’oceano c’è un mondo altro da liberare… scopri che in cielo ci sono tante, ma tante, ma tante più stelle di quelle che potessi immaginare…  scopri che anche in Tanzania fanno il kitchen party, ma che qui ha il sapor di tradizione e di donna.. scopri che la religione può pervadere ogni cosa, e il domani sarà migliore se Dio lo vorrà.. scopri che qui la semplicità è ancora vita quotidiana…
Tutte cose che non bisogna arrivare in Tanzania per scoprire, ma che a casa a volte non abbiamo lo sguardo limpido per vederle con attenzione, non abbiamo il tempo di soffermarci ad apprezzarle.. Molte volte viaggiamo così tanto, ma rimaniamo chiusi in noi stessi.. Qui spesso questa dimensione di essenzialità diventa così determinante da ridarti quella sensazione di pace che in mezzo all’oceano, di fronte ad un sole così grande e luminoso pensi…  “Sì, ho davvero la fortuna di essere in Africa…”

La vita è un'opportunità, coglila.
La vita è bellezza, ammirala.
La vita è beatitudine, assaporala.
La vita è un sogno, fanne realtà.

Serena Morelli da Bagamoyo, Tanzania

La cupola azzurra e la capanna di canne


Domenica 26 agosto 2012


Nove di mattina, assolata, calda, domenica mattina a Pariang, nel nord del Sud Sudan, nuvole lunghe, alte e sottili, spalmate sul cielo azzurrino, una cupola immensa, larga  e aperta come solo alcuni cieli d’Africa possono essere. Cammino con Michael, il nostro agronomo, la lunga strada dritta che attraversa il villaggio, terra marrone, chiamata marram, l’unica che drena un po’ l’acqua che cade quando la cupola azzurra diventa grigia, cupa e minacciosa, e poi piange. Cerchiamo un trattore per portare del materiale a Nyeel, a 40 chilometri da qui, e’ l’ unico mezzo che puo’ farcela in questa stagione, ma trattori non ce ne sono, mi guardo intorno, cerco un posto per comprare una ricarica telefonica, vedo una ragazza, seduta su uno sgabello basso, frigge qualcosa, sembrano frittelle, ne compro 3 per un pound, un quarto di euro praticamente, il locale mi ispira e propongo a Michael di entrare per un the, abbasso la testa per entrare nella capanna di canne, 4 metri per 5, il suolo rugoso, irregolare, in terra battuta, calpestata da mille piedi e sporca di farina e chissa’ cos’altro. Ci sediamo sulla sedia di plastica marroncina, mi guardo attorno e c’e un vecchietto e 4 o 5 ragazze sedute a bere il the, non parlano, sembrano rilassate e serene, sicuramente non indaffarate, una sorseggia the all’ibisco, chiamato karkade’, ne provo uno anch’io, dolcissimo, mezzo bicchiere di zucchero  in un bicchiere di the, arrivano le frittelle, 4 al prezzo di 3, la ragazza ci aggiunge un cucchiaio  di zucchero sul piattino delle frittelle, dolci, ma nemmeno troppo unte, chiacchero con Michael, mi racconta che la sua ragazza e’ in Uganda e andra’ a trovarla ad inizio Ottobre, concordiamo le ferie, anch’io devo andare a trovare la mia, qualche centinaio di chilometri piu’ a sud e qualche settimana dopo. Michael mi piace, e’ sveglio e lavoratore, mi trovo bene a lavorare insieme a lui, e’ piu’ maturo della sua eta’, classe 1989.
Una bimba di circa 10 anni ci porta il the, poi torna ad accovaccarsi per terra, sta pestando le spezie che aromatizzeranno il caffe’ che sua mamma sta arrostendo sul fuoco di carbonella, l’odore pungente del caffe’penetra prepotentemente nelle narici, punge quasi, svegliando i pigri neuroni della domenica mattina. La signora del caffe’ veste di viola, un vestito lucido e dalle tinte forti, un viola acceso con ricami neri, il volto altrettanto nero, come il caffe’ che sta tostando, il sorriso largo e aperto, come i cieli d’Africa, una fascia viola in testa fatta della stessa stoffa del vestito. Blu, come il telo di plastica che copre mezza della parete che ho di fronte, marroncino come i pezzi di cartone che sporgono dal soffitto di canne, giallo come I vestiti di due ragazze che si alzano e se ne vanno. L’ essenzialita’ del posto e’ rilassante, vera, umana, calda e accogliente. La capannina del caffe’ e’ in realta’ un mini-supermercato, all’entrata il cibo, le frittelle, a sinistra il “negozietto”, una vetrina di 4 ripiani fornita di zucchero (ovviamente), sigarette keniane, benzina, olio motore, forbici di plastica colorate dalla Cina, biscotti, ovviamente i Glucose, prodotti a Dubai con ingredienti di dubbia provenienza ma presenti ovunque in Africa, almeno tanto quanto Pepsi e Coca-Cola, le imprese avvelenatrici di falde acquifere e diritti umani e sindacali che arrivano ovunque. Annuso lo zenzero che la bambina sta ora pestando e ordino un caffe’, sono curioso di assaggiarlo, senza zucchero, specifico questa volta, arriva ed e’ buonissimo, chiedo anche un altro bicchiere, vuoto, per raffreddarlo, come al solito non riesco a bere le bevande troppo calde, chissa poi perche’, Michael ride…
Siedo e mi guardo intorno, fronti rugose, volti giovani segnati dalla fatica, dalla cattiva e carente alimentazione, e poi chi lo sa, dallo stress generato dalla lunga lotta per l’indipendenza di questo paese che sta avviandosi a compire i suoi primi passi ma che ancora fa fatica a reggersi in piedi, sotto il vento di poteri piu’ forti e piu grandi. Mi sento in pace ed accolto, come in quel chiosco di Bhopal dove ho mangiato dei gustosissimi falafel nel quartiere musulmano, come in quel ristorante di strada dove ho mangiato dei saporitissimi spiedini con padre Natale e Dario, come da babu a mangiare uroyo, kachori e sorseggiando infuso di zenzero, un respiro  di umanita’ che riempie gli occhi di calore, accoglienza e felicita’. E ora sono qui, sotto un’acacia a scrivere su carta i miei pensieri sparsi come non mi succedeva da tempo, ma l’assenza di elettricita’, di benzina per il generatore e le poche batterie del mio computer mi hanno spinto a riapprezzare il piacere di disegnare parole blu su sfondo bianco, il negativo del cielo sopra di me, questa immensa cupola azzurra con disegni bianchi che sono immagini e parole, che sono passeggere ma sempre presenti, che sono sogni e speranze.

Stefano Battain, ex volontario CVM, ora in Sud Sudan

martedì 28 agosto 2012

Prosegue il viaggio di Ylenia, Valentina e Federica: nuove emozioni e scoperte





Carissimi amici,

Prosegue il nostro viaggio… ogni giorno è una nuova scoperta… di persone, di paesaggi e di sensazioni.. ogni giorno lo scenario che si apre di fronte noi è meraviglioso i colori non si sovrastano ma sono netti e distinti: il verde e il marrone… intere distese di un verde forte e il marrone delle montagne, della terra, delle strade che si contrappone alle vallate e ai prati.
Un paesaggio che lascia lo spazio ai pensieri, alle emozioni, che ci permette di viaggiare fisicamente e con il pensiero… l’asfalto grigio che si alterna ai tratti di terra e pietre… gli animali che pascolano liberi nei campi e sulle strade, i suoni ripetuti dei clacson dei fuoristrada, dei minibus carichi di ragazzi che si sporgono dai finestrini, dei camion che imponenti occupano l’ intera corsia, i ragazzi e i bambini che corrono lungo le strade in mezzo alle distese verdi che si interrompono all'orizzonte per lasciare lo spazio al cielo per qualche ora azzurro e poi di colpo plumbeo con le nuvole cariche di pioggia.

E la pioggia arriva… puntuale ogni giorno. Scroscia forte, l’acqua invade le strade sterrate e le trasforma in fiumi, piove per ore, a volte per poco tempo; di notte i fulmini squarciano il cielo e illuminano per una frazione di secondo i tetti delle case mentre tutto intorno il buio regna sovrano… poco dopo arriva il tuono a rompere il silenzio della notte.

“Non sono uno straniero perché,non mi sono mai fermato a pregare per tornare indietro sano e salvo, perché non ho sprecato il mio tempo ad immaginare come sarebbero stati la mia casa, il mio tavolo, il mio lato del letto. Non sono uno straniero perché tutti siamo sempre in viaggio,perché ci poniamo le stesse domande e viviamo la stessa stanchezza, le stesse paure, lo stesso egoismo e la stessa generosità. Non sono uno straniero perché, quando ho avuto bisogno, sono stato soccorso, quando ho bussato alla porta si è aperta. Quando ho cercato, ho trovato ciò che volevo.”

Non facciamo altro che nutrirci dei colori,degli odori,paesaggi maestosi e delle persone semplici che mi circondano. E’ cosi strana questa realtà,ma allo stesso tempo cosi’ coinvolgente!..POSSIAMO DIRE DI SENTIRCI A CASA..
E’ difficile descrivere su questa pagina bianca le sensazioni che abbiamo e stiamo provando in questi giorni. Ogni cosa sembra enorme, fantastica, strana…NUOVA!

Giochiamo,giochiamo con i loro sguardi,i loro immensi sorrisi gratuiti, abbracci infiniti…

C’è un’energia che ci avvolge indescrivibile!
Da quando siamo arrivate,c’è una vocina che non fa altro che chiamarci, chiederci nella sua lingua un qualcosa di incomprensibile…MASHARAT!
Cosi’ è il suo nome, il nostro fratellino! Ha 7 anni, un ometto. Il suo nome significa:le fondamenta,la base! Le fondamenta di qualcosa che dovrà crescere,un’immensità di ricordi,
esperienze vissute,dolori,gioie…UNA VITA! Questo bimbo riesce a farci sorridere anche quando scende un po di malinconia, tanto amore,mancava…. Porteremo sempre nel nostro cuore questo viaggio cosi inaspettato,desiderato…VISSUTO.

È il 6 Agosto, di mattina, quando Deregee ci comunica di preparare la borsa perché staremo via due giorni..e inizia un nuovo viaggio e una nuova avventura verso chissà cosa, ciò che è certo è che siamo entusiaste e non vediamo l’ora di salire sulla jeep. Subito dopo ci viene comunicata la destinazione“Chachao”, ma fondamentalmente per noi non fa differenza, potremmo andare in qualsiasi posto anche perché non conosciamo queste città. Dopo circa 3 ore di viaggio arriviamo, sembra una cittadina simile alle altre con tante persone nelle strade impegnate nelle loro attività quotidiane. Percorriamo un viottolo sterrato e arriviamo in un campo, ci sono circa 10 ragazzi che lavorano la terra e già a prima vista, ci rendiamo subito conto che sono tutti più giovani di noi, cosa che successivamente ci verrà confermata. I ragazzi appartengono all’associazione di 72 ragazzi che si occupa di riunificazioni familiari “Fikir ena Kibir le Egnce” che significa “amore e rispetto per noi”. E guardando come comunicano e si rapportano tra di loro, possiamo dire che non poteva esserci nome più giusto. Scambiamo i saluti di rito, facciamo un giro e dopopranzo li incontriamo in un bar; è qui che ci racconteranno le loro storie che poco si addicono a ragazzi di 15 o 17 anni..c’è Mastewal Ephrem, un ragazzo dai tratti somatici molto dolci, ha solo 15 anni eppure ha già 4 lavori e guadagna circa 1250 birr al mese (compra e vende polli, affitta biciclette, ha un piccolo pezzo di terra e lavora nell’associazione) per aiutare i due fratelli più piccoli e la madre che ha problemi psicologici. E non si lamenta della vita poco agiata e facile che fa, come nessuno di loro.

Un altro ragazzo colpisce la nostra attenzione e i nostri cuori, si chiama Balamual Balaynew, ha 17 anni ed è il leader dell’associazione nella quale sta da 2 anni. Il significato del suo nome (servitore nel senso di colui che aiuta gli altri) rispecchia pienamente la sua personalità e lo capiamo non appena inizia a raccontarci la sua storia, è degna delle migliori favole..ha vissuto in strada per quattro anni perché orfano di entrambi i genitori. Come la maggior parte dei ragazzi qui, lavorava come shoeshine per una decina di birr al giorno e forse, perché era destinato o per una semplice coincidenza, in una delle sue giornate sulla strada, un banchiere andò a farsi pulire le scarpe e mentre scambiarono qualche parola, l’uomo consigliò al ragazzo di mettere da parte i 2000 birr che era riuscito a preservare durante i 4 anni perché gli avrebbero cambiato la vita. E così Balamul fece, andò a mettere i soldi in banca e un bel giorno, anche qui per destino o per fato, la sua vita cambiò.
Entrò nell’associazione e ne divenne il leader anche se l’iniziò non fu facile.. venne insultato e ferito dagli altri ragazzi che, successivamente, capirono le sue intenzioni e ora lo ammirano e dicono di lui: “la sua presenza è fondamentale per la vita dell’associazione e per il cambiamento delle nostre vite”. Perché è un ragazzo brillante e aiuta gli altri con amore. Ora lavora dalle 2 della notte alle 6 del pomeriggio: inizia la sua giornata come panettiere e prepara bombolini (ciambelle fritte buonissime!), poi si reca nell’associazione dove si occupa della gestione e del lavoro della terra e, infine, ritorna alla sua attività di panettiere e grazie a questo lavoro riesce, come già faceva prima, ad aiutare i due fratelli che hanno 15 e 11 anni e vivono con lui. Nel tempo libero ama scrivere racconti di storie vere che rispecchiano gli anni, le paure, le emozioni e le sensazioni vissute sulla strada. Gli chiediamo se vorrebbe farsi una famiglia, risponde che prima di ciò vuole migliorare la vita degli altri, degli amici, dei fratelli e la sua. Questo suo spirito buono si rispecchia anche nei suoi sogni, vorrebbe infatti andare all’università e studiare scienze sociali. La cosa più emozionante è stata la voglia di vivere e di migliorare le cose che si intravedeva nei suoi occhi velati, un ragazzo così giovane eppure così profondo e solidale. Durante le nostre frettolose giornate,
quando siamo intrappolati dalla nostra routine, dimentichiamo cosa vuol dire vita.

“L’opera umana più bella è essere utili al prossimo” (Sofocle)

Federica, Valentina e Ylenia - Debre Tabor Etiopia

martedì 14 agosto 2012

Il Servizio Civile in Tanzania


Stefano Battain, ex-volontario CVM e Serena Morelli, attuale servizio civilista in Tanzania  raccontano le loro esperienze, impressioni ed emozioni.

giovedì 9 agosto 2012

Le prime impressioni di Federica, Valentina e Ylenia dall'Etiopia


Carissimi, scriviamo tutte insieme perchè la connessione è veramente molto lenta.. il nostro lungo viaggio verso il continente nero comincia nella calda e soleggiata mattina del 30 Luglio. Atterriamo ad Addis e Valentina, responsabile CVM Etiopia, è li che ci aspetta e all'uscita dall'aeroporto e già si percepisce di essere in una realtà ben diversa e lontana dalla nostra. Le strade sono deserte, è tardi, l'aria è pungente... è strano pensare di essere quasi ad Agosto 2012.. qui, invece, è il 22 Hamlay (Luglio/Agosto) 2004. È notte e non riusciamo ancora bene a immaginare il paesaggio che ci attende. Si mostra con tutta la sua maestosità e imponenza il mattino seguente quando percorriamo le strade etiopi per giungere a destinazione: Debre Tabor. Dopo 13 ore di pullman un’engera gustata in un piccolo ristorantino di Debre Marcos, giungiamo nel centro del CVM dove ci attendono Deregee e Asnika che ci accolgono con la meravigliosa cerimonia del caffè etiope. Per arrivare al centro del CVM si percorre il cuore del villaggio: l’impatto è forte, tanto, ha piovuto e nelle strade c’è fango; anche gli odori sono forti e nel corso dei giorni impariamo a conoscerli, a riconoscerli e a farli nostri. 

Non appena mettiamo il naso fuori dal centro del CVM, le persone ci circondano, ci scrutano incuriosite e un po’ incredule, i bambini timidi fanno per avvicinarsi, tanti ci sorridono e altri, quelli più piccoli, intimiditi si nascondono un po’ ma poi la curiosità è troppo forte ed ecco che, poco dopo, fanno capolino tra le gambe e le braccia di un fratellino un po’ più grande. I giorni sono pieni, visitiamo il centro dei malati di HIV, alcuni ci raccontano la loro storia, ci commuoviamo quando Tesfiye Mengistu, un uomo che vive grazie al lavoro che svolge nel centro dopo aver ricevuto il microcredito dal CVM dice: “Sono felice che i bianchi siano venuti perché è in loro che noi vediamo una speranza per far conoscere al resto del mondo le nostre problematiche”. Visitiamo gli orfani di strada, coloro che grazie all’aiuto del CVM hanno la possibilità di imparare un mestiere, quello di panettieri e di poter uscire così, almeno in minima parte, dalla loro condizione di estrema povertà che li ha costretti per molti anni a lavorare come shoeshine (pulisci scarpa) o, per le ragazzine, a trasportare taniche di acqua per un quarto di birr (moneta locale che corrisponde a 1,13 centesimi di euro) l’una. 

Entriamo, la bakery è piccola e i ragazzi ci guardano incuriositi e un po’ intimiditi di fronte alle domande che poniamo; poco dopo Amsalu, uno dei 15 ragazzi, si scioglie e comincia a raccontarci la sua storia: ha 17 anni, è orfano di padre, è andato in strada all’età di 7 anni in quanto la famiglia, troppo povera, non era in grado di mantenerlo e prima di entrare in questo progetto svolgeva saltuariamente, lavori quotidiani per 12 birr al giorno (54 centesimi di euro al giorno). Dalla prossima domenica grazie al lavoro nella bakery, ne guadagnerà 30. Sono tante le loro storie, così simili ma così diverse al tempo stesso; sono, però, uguali quegli occhi che ti guardano, quegli sguardi che ti entrano dentro, quegli stessi occhi, migliaia, che ogni giorno incontriamo al mercato del nostro villaggio o davanti alla nostra casa, sono quelli che ci restano dentro più di ogni altra cosa. Le parole scambiate con il nostro divenuto già “bottegaio” di fiducia e le serate e le improvvisate conversazioni con il nostro guardiano Unatù che in Amarico significa verità… sono queste le emozioni della vita. 

“In questo momento, ho bisogno di un’unica cosa: 
un abbraccio. Un gesto antico quanto l’umanità, 
il cui significato va al di là dell’incontro di due corpi. 
Un abbraccio vuol dire: “non sei una minaccia, 
non ho paura di starti così vicino, posso rilassarmi, 
sentirmi protetto e comprendere che c’è 
una persona in grado di capirmi.” Secondo la 
tradizione ogni volta che abbracciamo 
qualcuno con piacere, guadagniamo un giorno 
di vita. Ti prego, abbracciami adesso.” 

(Paulo Coelho) 

Ciao 

Federica, Valentina e Ylenia 

martedì 7 agosto 2012

Why? Perchè?


Stefano Battain, ex volontario CVM, ci scrive dal Sud Sudan, paese in cui sta lavorando ora...

“Hi my friend! Why?” (Ciao amico mio, perché?). Questa è stata la frase che più mi ha fatto sorridere durante la mia prima corsetta in Sud Sudan. Domenica mattina la ragazzine, magrissime, in ogni caso, alte per la loro età, si avviano verso la chiesa, vestiti lunghi, lucidi, viola, gialli, verdi, il vestito buon immagino, messo la domenica per andare a messa, o anche solo per fare una passeggiata con le amiche, cellulare in mano e musica hip pop americana sparata ad un volume che basta a far gracchiare il mini altoparlante installato su questi cellulari, sorprendentemente potente ma anche di bassa qualità. Sono a Bentiu, nel nord del Sud Sudan, nel 2006, aveva circa 7,700 abitanti, ora potrebbero essere attorno ai 10,000 considerando che migliaia di sud sudanesi dal 2005 in poi hanno risalito la valle del Nilo, dalla desertica Khartoum alle verdi alture del sud Sudan. Dopo una settimana trascorsa in ufficio, fra Juba e Bentiu, durante la quale la mia unica attività fisica sono stati 20 minuti di yoga alla mattina, sdraiato sul pavimento di piastrelle bagnate fra la mia scrivania e la macchina fotocopiatrice dell’ufficio, ho sentito il bisogno di muovere un po’ la gambe. Una domenica soleggiata, strano, visto che siamo quasi al picco della stagione delle piogge e nell’ultima settimana ha piovuto tutti i giorni, soprattutto di notte, inzuppando il mio letto, piazzato vicino alla finestra, e obbligandomi a svegliarmi nel cuore della notte per chiudere le imposte, spalancate la sera per non soffocare nel caldo umido del luglio sud sudanese aggravato da una zanzariera che ricopre il mio letto e sicuramente non permette di apprezzare quell’alito di brezza notturna che comunque ci sarebbe.
Fango, quello si ce n’è, tanto, le strade sono di fango, tutto il resto è verde, verdissimo in questo periodo dell’anno, prati di erba lunga fino alle ginocchia, mandrie di mucche dalle corna lunghissime e spessissime, alcuni asini, oggi forse a riposo ma che durante la settimana tirano carretti carichi di pesantissimi barili pieni d’acqua. Poche le abitazioni in cemento, moltissime quelle in fango e legno, col tetto di paglia, tutte circondate da recinti di canne alte come alcuni soldati dell’esercito di liberazione del popolo del sud sudan (in inglese: S.P.L.A. Sudanese People Liberation Army) che si aggirano numerosi per il “centro” di Bentiu con AK-47 a ricordare e ricordarci che oltre 20 anni di guerra non si dimenticano con 7 anni di pace e un solo anno di indipendenza.
Continuo la mia corsa, piccoli uccelli rossi e neri sono appoggiati sui fili dell’elettricità che non c’è, farfalle, libellule e altri insetti che non avevo mai visto prima ronzano tranquilli sotto il sole equatoriale, i bimbi mi guardano, ridono, mi prendono in giro perché corrono e si mettono a ballare, pochi hanno il coraggio di chiamarmi o salutarmi, solo i più grandicelli, anche loro magrissimi e slanciati, accennano un saluto, qualcuno solo un “Hello!” qualcuno anche un “Where are you going?” (Dove stai andando?). Io rispondo a tutti e saluto tutti quelli che il mio fiatone mi permette di salutare, fa caldo, umido, forse non è l’ora migliore per correre ma va bene così, credo di avere intuito più cose in questa mezzora di corsa che nell’intera settimana passata. Sono felice di essere qua, ottimista, la gente del sud Sudan mi sta già entrando dentro e ignoro qualche sguardo cupo e severo che mi sono sentito addosso da qualche uomo di mezza età. Sorrido a tutti, non costa niente e ricevuto più sorrisi in cambio di quanti ne abbia offerti. Alla domanda “Why?” ho risposto: “Perché sono grasso” battendomi le mani sulla pancetta, in realtà è solo parte dei motivi, uno è che correre il forse fra i modi migliori di iniziare ad esplorare un posto, iniziarne ad apprezzarne i colori unici, annusarne le puzze fantastiche che ci sono qui in Africa, toccare in qualche modo, o forse sfiorare, incrociare il mio sguardo con alcuni rappresentanti di quella parte di umanità che è qui, sotto il nostro stesso sole ma che spesso non esiste a meno che non riesca ad impietosire i portafogli e far funzionare una qualche raccolta fondi di una qualche ONG.

venerdì 20 luglio 2012

Testimonianze - Antonella dall'ospedale di Chalinze, Tanzania

Comincia ad essermi familiare la strada che da Bagamoyo conduce verso l’interno, quell’irrompere della terra rosso ruggine e dell’asfalto dissestato che ad ogni sobbalzo mi ricorda che è mattina e non è tempo di sonnecchiare, quelle capanne nascoste tra la vegetazione, quei piccoli villaggi che si aprono sulla strada e si riempiono di bambini che, seduti a terra e a piedi scalzi, da una tazza bevono latte dipingendosi la bocca di bianco, quelle bancarelle piene di banane e arance, quelle figure di donne che mantengono in equilibrio secchi d’acqua muovendosi sinuosamente.

Dopo circa tre ore passate ad osservare da dietro un finestrino uno scorcio di terra tanzaniana in movimento, dopo una breve sosta a Lugoba, dove una parte del team CVM rimarrà per quattro giorni di workshop sui diritti delle donne, arriviamo nel villaggio di destinazione: Chalinze.

Chalinze è una piccola città, 100 Km ad ovest di Dar es Salam, una zona di passaggio, il centro di rifornimento principale per i viaggiatori provenienti dal sud e nord della Tanzania, data la presenza di sei stazioni di servizio. Sul ciglio della strada una moltitudine di camion e daladala (tipico autobus), intorno tanti piccolissimi bar dove fermarsi ad assaggiare la cucina tanzaniana. Bancarelle stracolme di frutti, piccoli shop dove con un po’ di pazienza riesci a trovare quel che ti serve. Di notte diventa un luogo vivace con bracieri sparsi dappertutto utilizzati per cuocere pietanze dagli odori invitanti e a volte, mischiati al fumo, nauseabondi, banchetti illuminati dalla luce di una fiamma che lascia intuire la tipologia della merce presente. E poi un’immensa moltitudine di gente che si riversa sulla strada alla ricerca del posto in cui consumare la cena ,di uomini soli che vagano alla ricerca di incontri fugaci con giovani donne che vendono il proprio corpo in cambio di pochi scellini: questo è uno dei motivi che contribuisce a fare di Chalinze uno dei centri a più elevata prevalenza di infezioni Hiv/Aids nella regione del Pwani.

Ed è qui che è presente il CTC (CARE AND TREATMENT CENTRE) strutturalmente un’ospedale a padiglioni in mezzo alla natura. Dopo avere effettuato il colloquio con il medico responsabile per decidere di cosa, come e quando occuparmi, vengo accompagnata nel padiglione maternità. Senza nessun preavviso, varcata la soglia d’ingresso e dopo aver percorso un breve corridoio, mi ritrovo catapultata direttamente nella sala parto, dove gli occhi registrano la presenza di tre donne distese, nude, senza alcuna privacy, sui rispettivi letti, tra l’odore pungente di sangue e il vento caldo che entra dalle finestre aperte sul cortile: al sentimento di intrusione forzata in un ambiente così delicato si sostituisce a breve quello di accoglienza da parte del team tanzaniano. Due di queste donne sono nella fase di travaglio, si girano e rigirano nella speranza di trovare la posizione meno dolorosa durante le contrazioni, si lamentano discretamente, si alzano, camminano intorno al letto e si riallungano di nuovo. A distanza di un’ora dal mio arrivo, Hamida, una ragazza di 20 anni alla sua prima gravidanza dai lineamenti del viso perfetti e un corpo impeccabile, richiama la nostra attenzione dando inizio alla fase del parto. Si intravede la piccola testolina ma le spinte di Hamida da sole non bastano: una delle nurse posiziona uno sgabello all’altezza del torace e con tutto il peso del proprio corpo e la forza delle mani comincia a fare pressione su quel pancione contratto ed immobile.

Sembrano minuti infiniti. Finalmente la testa è fuori, piano piano anche la spalla, il resto del corpicino viene tirato fuori dalla seconda nurse e la comparsa del pianto soffuso e tanto atteso ci fa sorridere di gioia per questo evento così sofferto. E’una bimba! Una futura donna d’Africa!  Una sorpresa, perché qui non esistono ecografie in gravidanza che svelano il sesso del nascituro. La piccola viene posizionata sul grembo materno, il cordone ombelicale clampato, legato e tagliato, avvolta da un tipico kanga colorato me la mettono in braccio per pesarla facendomi sentire meno mzungu: e sì, i bambini in Africa alla nascita sono bianchi, solo con il passare delle ore e dei giorni, in presenza della luce e l’attivazione della melanina, si scuriscono assumendo il colore nero della pelle. Peso:2,9 Kg, indice Apgar 9/10. E il nome?? Come si chiamerà questo batuffolo che ho tra le mie braccia?? non è dato saperlo al momento: sarà il padre, una volta tornata a casa, dove la vedrà per la prima volta, a darle il nome!!! Mentre il resto del team è impegnato nella seconda fase del parto, l’espulsione della placenta, avvolgo la piccola con altri Kanga per evitare l’ipotermia e rimango ad osservala mentre strizza gli occhi, muove le labbra in segno di suzione, si porta il pollice alla bocca come se fosse un ciuccio.

Al termine la riconsegno alla giovane madre che con una naturalezza straordinaria se la avvicina al petto e comincia ad allattarla: che forza Hamida, ha appena partorito e sembra serena e riposata come se nulla fosse successo, un evento così eccezionale ed emozionante per noi e così naturale e tranquillo per loro, a distanza di pochi minuti dal parto è seduta sul letto con in braccio la prima figlia e riesce a mangiare e mandare messaggi con il cellulare. In Italia la sala d’aspetto si sarebbe riempita di parenti ed amici per vedere e fare festa al nascituro, qui non c’è ombra neppure del padre… solo una parente silenziosamente e discretamente entra nella sala per portare cibo e vestiario di ricambio, ma non si ferma neppure a guardare questa nuova creatura d’Africa, presta attenzione alle esigenze della madre. Che mondi diversi!

Intanto nella stanza adiacente alla sala parto, seduta su un lettino, c’è Rukia, 22 anni, in attesa della visita medica. Ci spiega il motivo della sua presenza: dolore addominale, perdite ematiche, ritardo mestruale da circa due mesi. Per me abituata a lavorare in emergenza, fare l’addizione di segni e sintomi non è difficile e il campanello d’allarme che si tratti di un aborto o minaccia d’aborto comincia immediatamente a suonare nella testa diventando certezza dopo la prima sommaria visita ginecologica. Il medico mi spiega che si tratta di un aborto interno ritenuto, ovvero l’embrione è morto, ma non è stato espulso all’esterno, così la soluzione è una sola: revisione uterina, quindi dilatazione e raschiamento. Mi chiedo come riescano questi medici a fare con tale certezza questo tipo di diagnosi solo attraverso occhi senza ad esempio l’utilizzo di un ecografo, e mi chiedo come mai questa donna rimane in silenzio senza porre nessuna domanda, senza chiedere: ma è sicuro? Affidandosi completamente nella mani di quest’uomo con il camice bianco.

E dopo pochi minuti, eccola, Rukia, sdraiata sul lettino ginecologico, sul viso smorfie di dolore, si agita e si dimena fino a che non decide di prendermi le braccia e stringermele fino a farmi male per scaricare il suo, di male. Mi guarda con occhi spalancati quasi a volermi implorare aiuto, a volermi rimproverare per quello che le stà accadendo. Avrei voluto dirle: <> Ma non conosco lo swahili, le sue urla mi lasciano impietrita e allora rimango lì, ferma, immobile, ad osservarla e a lasciare che scarichi il suo dolore sulle mie braccia. E finalmente dopo venti lunghi e interminabili minuti tutto è finito: piano piano molla l’intensità di presa sulle mie braccia e mi lascia andare.

Rukia rimarrà sdraiata sul fianco ancora altri 15 minuti, giusto il tempo per recuperare le forze fisiche. Quindi si alza, si riveste e, a passo lento ma deciso, varca la porta d’uscita di quella che per un’ora è stata la sua gabbia di tortura.

Eccola quella forza d’animo della donna africana! Negli incontri del CVM l’avevo intravista tra le donne del microcredito, tra le ragazze di Mkanga e Saadani durante il workshops sui diritti delle donne e dei bambini. Ma qui ,tra queste mura dell’area ginecologica, ne ho avuto l’assoluta conferma: è la forza d’animo che si lega con la resistenza fisica al dolore che fa, nella donna, il futuro dell’Africa!

Antonella, Bagamoyo,Tanzania.