martedì 8 novembre 2011

Forze Armate: non c'è nulla da festeggiare!!





(anche se in ritardo, pensiamo meriti un'attenta lettura...)


  Domani (4 novembre, ndr) è la Festa delle Forze Armate, ma coi tempi che corrono, non c'è proprio nulla da festeggiare. Anzi, è arrivato il tempo di ripensare un'istituzione pubblica che ci costa ventisette miliardi di euro all'anno, che spende male e spreca moltissimo. Domandiamoci: A che ci serve mantenere 178.600 militari in servizio quando ne impieghiamo al massimo trentamila? Perché accettiamo che nel frattempo la polizia continui ad essere gravemente sotto organico? A che ci serve avere un generale ogni 356 soldati e un maresciallo ogni tre militari in servizio (in tutto 500 generali e 57.000 marescialli)? 

 A cosa ci servono due portaerei, 131 cacciabombardieri, 400 carri armati e centinaia di altre armi che non potranno e dovranno essere mai utilizzate? Perché vogliamo costringere i giovani a pagare il conto delle armi che stiamo ancora costruendo? Perché continuiamo a mantenere quattromila soldati in Afghanistan quando tutti sanno che dieci anni di guerra non hanno risolto alcun problema? E ancora (sono le domande puntuali del Generale Fabio Mini): Perché illudiamo i giovani sulle prospettive d'impiego e buttiamo i soldi facendoli giocare alla guerra? Perché arruoliamo volontari per un anno quando abbiamo sempre detto che non basta per addestrare, non basta per mandarli all'estero e uno di loro costa complessivamente come uno in servizio permanente? 

 Perché continuiamo a reclutare ufficiali e sottufficiali e li promuoviamo come se in futuro dovessimo avere dieci corpi d'armata? Perché diciamo di avere un esubero di marescialli, che comunque sono già addestrati, e una vita operativa futura di pochi anni e li vogliamo rimpiazzare con un ugual numero di sergenti da formare, addestrare e tenere in esubero per i prossimi 40 anni? Perché avevamo uno "scandalo" di comandi centrali e periferici ridondanti e oggi li abbiamo moltiplicati senza migliorarne l'efficienza? Perché dobbiamo lasciare alla speculazione e all'abusivismo gli immobili militari dai quali sappiamo di non ricavare nulla di significativo? Perché facciamo gravare gli oneri della crisi sul personale e non tocchiamo i contratti esterni, gli appalti, le forniture e gli sprechi?

La risposta a tutte queste (e a molte altre) domande è un atto dovuto a tutti i giovani che non riescono a trovare un lavoro, a chi lo sta perdendo, a chi pur lavorando tantissimo non riesce a vivere dignitosamente, a tutti quelli a cui i tagli del governo stanno rendendo la vita impossibile.

In poche parole: Non possiamo tollerare uno spreco così enorme, non ce lo possiamo più permettere. Dobbiamo programmare un taglio radicale delle spese. Dobbiamo ripensare in che modo e con quali strumenti vogliamo garantire la sicurezza del nostro Paese e dell'Europa. E' un dovere improrogabile!

PS. Domani, 4 novembre, ricordiamo le vittime innocenti di tutte le guerre e di tutte le nazionalità, dai seicentocinquantamila italiani che sono stati ammazzati "nell'inutile strage" della Prima Guerra Mondiale ai quarantacinque militari italiani che hanno perso la vita in Afghanistan, i feriti, i mutilati, gli invalidi e tutti i loro familiari. Con questo spirito oggi rinnoviamo il triplice appello di Assisi: Mai più guerra! Mai più terrorismo! Mai più violenza!







 
Flavio Lotti
(Coordinatore Nazionale Tavola della Pace)

venerdì 4 novembre 2011

La lunga strada verso... l'acqua

 Marwa è un villaggio situato nel distretto di Same, a nord della Tanzania. La zona è particolarmente arida e le piogge sono scarse in tutto il periodo dell’anno. A Marwa vivono circa 2.000 persone, per lo più Maasai che hanno dovuto abbandonare il loro insediamento d’origine a causa dell’apertura del parco naturale del Mkomazi. Nel villaggio c’è un pozzo solo, ma l’acqua è troppo salata e praticamente inutilizzabile. La distanza tra il villaggio e il fiume Pangani è di 2 ore di cammino. Due ore per andare e altre due ore per tornare dalla fonte di acqua più vicina e raccogliere al massimo due taniche di acqua, che sicuramente non basteranno a soddisfare le esigenze di una famiglia assai numerosa. Acqua che per essere potabile si dovrà bollire e ciò richiede altro lavoro perché serve legna da ardere.

 La mancanza di acqua potabile condiziona inevitabilmente la vita dell’intera comunità compromettendo la salute di tutti, ma sono le donne a subirne le conseguenze più gravi a causa della loro vulnerabilità materiale, la loro esclusione dai processi decisionali e dalla gestione delle risorse e la mancanza di sensibilità di genere. La negazione del diritto all’acqua compromette inevitabilmente l’accesso ad altri diritti, come quello all’istruzione, al lavoro e alla salute. La raccolta dell’acqua occupa infatti gran parte della giornata e richiede un gran dispendio di energie. Questo vuol dire che le bambine lasciano la scuola, le ragazze non avranno quindi capacità e tempo di trovare un lavoro e il peso e la fatica del trasporto avrà conseguenze per la loro salute: soffrono dolori alla schiena, le loro spine dorsali sono ricurve e deformità pelviche sono date dal carico dei grossi contenitori d’acqua portati sulla testa. E non importa se sono malate, disabili, in gravidanza o se sono troppo giovani o troppo anziane, perché la raccolta dell’acqua è il primo punto di una lista lunga di compiti quotidiani che spettano alle donne Maasai: pulire, cucinare, lavare, prendersi cura dei bambini, accudire il bestiame sono solo alcune delle loro attività giornaliere e per tutte c’è bisogno di acqua.

 Per questo la giornata delle mamme e delle giovani donne Maasai inizia sempre alle 5 del mattino. Dopo aver munto le mucche ed essersi prese cura del bestiame, caricano le taniche di plastica sulla testa e si incamminano verso il fiume. Il corso d’acqua non è sicuro, perché infestato di coccodrilli che attaccano essere umani e animali. Il percorso verso l’acqua è lungo, assolato, pieno di pericoli e faticoso e sono sempre e solo le giovani donne a farlo. Per fortuna mai sole, sono almeno in coppia, per aiutarsi, per proteggersi a vicenda, per procurare una risorsa alla quale non si può rinunciare, della quale non si può fare a meno. Ma come potrebbe cambiare la loro vita se l’acqua fosse disponibile nel loro villaggio? Quanta sofferenza potrebbero risparmiarsi e quanto di bello può venir fuori dall’unione delle loro forze?


Daniela Biocca (Volontaria CVM - Tanzania)