martedì 24 marzo 2009

Quando il sole del mattino sta per sorgere...



Intervista a Meshesha Mered (Wogagen PLWHA Association)

C'è un momento, nell'arco della giornata, davvero particolare: è quello in cui, dopo una lunga notte buia, il cielo comincia a farsi più chiaro e le stelle, fino ad allora così lucenti, giocano a nascondersi e lasciano l'immenso palcoscenico celeste ad una timida e leggera luce, che gradualmente diviene più forte, preannunciando l'alba e con essa il luminoso mattino, l'imminente nuovo giorno. Tutto ciò, in lingua amarica, viene espresso con una sola parola: wogagen.

Questa parola è anche il nome di una grande PLWHA's association, che raccoglie persone sieropositive provenienti dalle woreda intorno alla città di Bahir Dar: gente che, dopo la lunga notte buia calata in seguito all'infezione del terribile virus, è riuscita a veder sorgere nuovamente il sole del mattino, grazie ai programmi e alle attività realizzate con il supporto di tale associazione, che ha aperto ai loro occhi un nuovo giorno, una nuova vita. La luce, che la Wogagen Association ha portato e continua a portare nella vita di così tante persone affette da HIV/AIDS, è ora ben visibile e nota ad istituzioni, organizzazioni ed autorità, sia regionali che nazionali, tutte impegnate nella lotta contro “il male del secolo”.

Non può essere, allora, un caso che questo gruppo di persone straordinarie, le quali iniziarono a lavorare da sole 3 anni fa, abbiano ricevuto un riconoscimento dal Governo, risultando tra i vincitori del terzo “Regional Award for Successful Farmers”, in cui vengono premiati coloro che meglio si sono distinti nelle attività del settore agricolo. E neppure può essere un caso che siano stati tra i vincitori della competizione per le PLWHA's Associations che hanno programmato e realizzato le migliori IGA (Attività Generanti Profitto), la cui cerimonia di premiazione ha avuto luogo a Bahir Dar lo scorso 9 febbraio, nel corso del Workshop Regionale per PLWHAs organizzato da CVM/APA (Amhara HIV/AIDS Prevention and Care Project). Meshesha Mered, che abbiamo incontrato una volta terminato il workshop, è uno dei leader di questa associazione e la persona adatta a raccontarci la storia, le caratteristiche, le modalità d'azione e i segreti di tale luminoso esempio di quanto l'amore e lo spirito d'unione possano trasformare i sogni in realtà e rinnovare la vita.

Ato Meshesha, in quale situazione si venne a creare l'associazione? E quale fu la ragione della sua istituzione?

“La nostra associazione è nata nel 2006 dall'impegno di pochi individui. All'inizio, eravamo in 6: 4 donne e 2 uomini. A quel tempo, il nostro obiettivo era proteggere i contadini locali dal pericolo dell'HIV/AIDS attraverso l'educazione e l'informazione, poiché gli agricoltori che vivono attorno a Bahir Dar sono altamente vulnerabili, da questo punto di vista: essi arrivano nella città di Bahir Dar per vendere i loro prodotti, così come per acquistarne altri; ma, sbrigati i loro affari di compravendita, si recano solitamente a bere nelle tradizionali alcoholic house. Quindi, sotto l'effetto dell'alcool, compiono azioni spesso deplorevoli. Inizialmente, ogni cosa era difficile per noi; fondammo l'associazione avendo solo delle speranze, senza il sostegno di alcuno. Coprimmo anche tutte le spese di tasca nostra, mentre stavamo approntando la politica amministrativa dell'associazione. Riguardo all'atteggiamento della gente nei nostri confronti, prima venivamo visti piuttosto male, non potevamo neppure svolgere le attività attorno al nostro villaggio come gli altri, ci proibivano di bere l'acqua dal fiume, distrussero il nostro casolare, ci picchiavano eccetera eccetera. Ma ora, l'atteggiamento è totalmente cambiato: quelle stesse persone mangiano assieme a noi e ci considerano pure come fratelli. Così, dopo questi alti e bassi, l'HAPCO (l'Ufficio per la Prevenzione e il Controllo dell'HIV/AIDS, ndr.) ci inviò una lettera ufficiale di cooperazione e ci fece avere pure il permesso legale dell'Ufficio Sanitario di Woreda. Alla fine, l'amministrazione di woreda ci diede un ufficio, anche perché nel frattempo eravamo cresciuti come associazione: attualmente, il numero totale dei nostri membri è 120 e, tra questi, 88 sono donne ed il resto uomini.”

Quali sono le attuali attività dell'associazione nella protezione dall'HIV/AIDS, nel campo dell'assistenza e sostegno e delle IGA?

“Per quanto riguarda la protezione dall'HIV/AIDS, istruiamo la gente sul tema, in considerazione delle loro esperienze di vita, nei luoghi religiosi, al mercato, nei meeting e nelle scuole. In questo lavoro, le donne sono ottime partecipanti. Circa i nostri programmi di assistenza e sostegno, aiutiamo i malati costretti a letto. Prima di tutto, forniamo loro supporto alimentare al fine di curarli direttamente a domicilio. Poi, una volta migliorate le loro condizioni di salute, selezioniamo un'IGA adatta a loro, in base al loro stesso volere, e forniamo corsi di formazione per il lavoro. In seguito, diamo loro un capitale iniziale per facilitare l'attività che dovranno intraprendere, al fine di renderli economicamente autosufficienti, capaci di provvedere a se stessi senza il supporto di altri. In ultimo, svolgiamo un continuo monitoraggio delle condizioni in cui si vengono a trovare ed esprimiamo apprezzamenti ogniqualvolta hanno successo; ma, quando non ne hanno, tutti i membri discutono insieme della questione per comprendere la causa della loro inefficacia, e alla fine, se la crisi è dovuta ad un'errata strategia o implementazione, pianifichiamo un'altra strategia o li istruiamo su come lavorare in maniera efficace e diamo loro dei soldi. In particolare, lavoriamo nell'agricoltura affittando terreni per i contadini locali a 4mila birr e facendo accordi per dividere la produzione con i proprietari degli stessi terreni: in questo modo, essi prendono 1/3 del totale prodotto. In aggiunta a ciò, abbiamo 3 mucche da latte e 13 buoi d'allevamento. A proposito, vendiamo i buoi allevati alla Coble Organization (che opera nella loro distribuzione a livello nazionale), così come alla gente del posto. Attualmente, ci sono 20 donne impegnate in IGA individuali. Alcune di loro lavorano nella vendita di injera, tè o nell'affitto di camere, vendendo anche cibo ai clienti. Altre lavorano nel settore agricolo nelle aree rurali. Il resto delle persone partecipa ad IGA di gruppo. Qui, abbiamo principalmente due tipi di attività, l'allevamento e l'agricoltura, cui si aggiunge l'apicoltura.”

Quant'è il guadagno netto che l'associazione ha ottenuto da queste attività negli ultimi anni e come viene poi utilizzato tale profitto?

“Abbiamo ottenuto più di 60mila birr. Parte di questa somma è stata depositata; con il restante denaro, paghiamo 200 birr al mese coloro che lavorano nelle specifiche IGA già menzionate. Ma, oltre al loro salario, c'è il sostegno alimentare attraverso l'acquisto di cereali, cipolle, berbere, latte, patate e via dicendo, al fine di rendere il più completo possibile il loro nutrimento. Ora, nessuno è costretto a letto, tutti i soci sono impegnati in qualche attività. Inoltre, ogni membro che partecipa alle IGA ha almeno 5 quintali di taff a casa propria, come pure 4 o 5mila birr in banca. Tutte queste cose non sono state semplicemente il risultato di un programma di sostegno, ma anche e soprattutto l'effetto dei loro stessi sforzi.”

Allora, qual'è il segreto del successo di questa associazione?

“Il segreto sta nel nostro appropriato utilizzo del denaro; noi cominciammo a lavorare con poco capitale. Quel denaro non era sufficiente, ma ciò non fu da ostacolo all'inizio della nostra attività. Tuttavia, se guardiamo ad altre associazioni simili, vediamo che esse non hanno iniziato a lavorare subito e con fiducia, pur avendo abbastanza soldi: queste scelgono strade sbagliate. Inoltre, da noi esiste un rapporto molto buono e stretto tra membri e leader, e pure tra i membri stessi. Così, lavoriamo insieme senza alcun riguardo per la posizione sociale o il sesso; abbiamo pure sedie del tutto simili tra loro nel nostro ufficio. Ci amiamo l'un l'altro, non ci sono soci falsi o sleali. Ci supervisioniamo l'un l'altro per essere perfetti, specialmente le donne sono molto brave in questo ed apprezzano la nostra attività, così come ci motivano ulteriormente a lavorare. Così, tutte queste cose creano nel nostro cuore un forte e speciale sentimento per gli altri. L'amore gioca un ruolo fondamentale per noi. Senza amore non ci sarebbe il nostro lavoro, senza questo lavoro non ci sarebbe amore.”

Venendo all'evento appena tenutosi a Bahir Dar, cosa hai provato quando hai visto la vostra associazione tra i vincitori?

“Agli inizi, ricordo, fu molto pesante per me, poiché lavoravamo da soli, senza il supporto di alcuno. Ripensando a questo, quando ho visto la nostra associazione premiata durante la cerimonia, ho provato una grande felicità. Ciò ci motiva ulteriormente a lavorare in maniera ancor più efficace.”

Cosa può dire l'efficienza della vostra associazione alle altre simili? In altre parole, cosa suggerireste alle altre associazioni?

“I nostri risultati possono insegnare molto agli altri riguardo il grande impegno sul lavoro ed i frutti che esso può dare. Adesso, molte persone si interrogano sul mistero della nostra efficacia. Sono sicuro che ciò crei una sana competizione tra le stesse associazioni, ciascuna delle quali vuole essere migliore delle altre. Ma qui voglio affermare chiaramente che il nostro lavoro non è finalizzato alla gloria o ad alimentare il nostro orgoglio, quanto piuttosto a renderci liberi dalla dipendenza economica. Riguardo ai suggerimenti che potrei dare alle altre associazioni, mi limito a dire che, per aver successo in questo campo, prima di tutto, ci deve essere amore tra i soci e tra questi e i leader, in ogni tipo di associazione. Un'altra cosa importante è il coinvolgimento dei membri, che dovrebbero concentrarsi solo sul loro lavoro, sentendo di agire per il proprio bene. Invece, la maggior parte delle volte, nelle altre associazioni, le persone si impegnano nella corsa ai posti di potere. Deve esserci eguaglianza tra soci e leader, ognuno deve avere un sentimento di uguaglianza e persino i capi dovrebbero evitare di dare ordini: dovrebbero invece guidare gli altri nel lavorare insieme per lo stesso obiettivo.” L'obiettivo di alzarsi e sorgere nuovamente, come il sole del mattino dopo una lunga notte buia.



Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

giovedì 19 marzo 2009

Dal sudore della fronte l'acqua per tutti



Gulgula Kebele – Spring On Spot

Ci sono adulti e bambini, ragazzi e ragazze; chi ci dà dentro con la zappa e chi, soprattutto i più giovani, va avanti e indietro senza sosta alcuna, sulla propria testa un vaso o un contenitore in plastica. E ancora, c'è chi dirige, chi ne approfitta per avere un po' di refrigerio e chi temporeggia nell'attesa di trovare il modo per rendersi utile. C'è insomma un'intera comunità, un'umanità operosa in questa vallata che si apre dinnanzi ai miei occhi, qui nella Southern Nation Region, sud-ovest dell'Etiopia. É la gente di Gulgula, piccola kebele nella Zona del Wolayita, ed il loro agire comune è in nome di quell'elemento che da sempre è sinonimo di vita, ma che da queste parti rappresenta soprattutto un enorme problema: l'acqua.

É qui che il CVM ha avviato, a metà febbraio, la costruzione di un SOS (Spring On Spot), che letteralmente sta per “Sorgente d'acqua sul posto”, vale a dire un sistema per l'incanalamento dell'acqua da una fonte già esistente ed il suo successivo utilizzo in termini di potabilità, di igiene personale, come pure per il bestiame da allevamento, attività vitale, assieme all'agricoltura, per le circa 500 persone di questa comunità, che si alternano nei lavori, dando ciascuno il proprio contributo, come avviene oggi, perché per ciascuno di essi il completamento di tale opera, previsto nel giro di un mese o un mese e mezzo, significherà una vita un po' migliore di quella precedente.

“Finora, – ci confida Tesfaye, interrompendo per qualche istante il suo alacre scavare – abbiamo dovuto far fronte a diversi problemi per via di quest'acqua, che era piena di vermi e batteri. Questo ha causato diverse malattie alla nostra gente. Inoltre, dovevamo ogni volta condurre il bestiame a fonti d'acqua molto lontane da qui. D'ora in poi, questi problemi saranno risolti e potremo utilizzare in altri modi il denaro finora speso per le cure mediche, soddisfacendo bisogni alimentari e primari. Questa opera ci permetterà di risparmiare denaro e tempo: ad esempio, le nostre donne, invece di andare in altri villaggi a prendere l'acqua, come hanno sempre fatto, potranno rimanere qui e svolgere qui i loro lavori.”

In situazioni come questa, i termini “cooperazione” e “condivisione” cessano di essere meri concetti, scendono dall'Empireo per farsi phenomena, realtà concrete, visibili, finanche tangibili. Lo è la papaia che un uomo, la fronte perlata dal sudore e poco più su un cappellino della NBA, mi porge amichevolmente, dono dell'abesha (cioè l'Etiope) al ferengi (lo straniero) venuto da lontano. L'uomo si chiama Hailu ed è il franco muratore dell'opera, l'unico impiegato fisso assunto dal CVM, che pure stipendia altri due lavoratori giornalieri, spese abbastanza rilevanti per l'ONG italiana, se si considerano in aggiunta i costi per i materiali e quelli per il trasporto di questi da Sodo (il “capoluogo” di Zona, dove ha sede l'ufficio) a Gulgula, un totale di 15 Km circa. Sempre ad opera dello staff CVM sono ovviamente le attività di supervisione tecnica e controllo dei lavori. Ma, come vuole lo stile già adottato per altri progetti, vedi quelli nell'ambito della lotta all'HIV/AIDS, è la stessa comunità locale ad essere protagonista del proprio progresso, venendo quindi responsabilizzata, in base ad un approccio che solo in questo modo può dirsi a lungo termine.

Tutto ciò emerge dalle parole di Asefa, che, in qualità di leader del water committee appositamente formatosi e costituito da 7 elementi (3 donne e 4 uomini), tra una settimana avrà il compito di formare i membri della comunità riguardo il corretto utilizzo e la successiva gestione e manutenzione dell'impianto. “Tutti qui – afferma il leader del comitato creato su iniziativa del CVM – partecipano ai lavori, in modo del tutto volontario e contribuendo persino con dei soldi: 5 birr da parte di ogni famiglia. Si lavora tutti insieme per lo stesso obiettivo e per il bene comune.”

Per utilizzare un'ormai celebre metafora, la Comunità Volontari per il Mondo ha preferito ancora una volta insegnare alla gente come pescare, piuttosto che darle un pesce già pronto, buono per un pasto, magari due, e non per tutti quelli che può garantire un know-how pur elementare. Sono questi uomini e queste donne, adulti e bambini, abbiano in mano la zappa o un contenitore per l'acqua, gli artefici di quanto di positivo potrà avvenire nella loro dura quotidianità di qui in avanti. Spesso, per iniziare a camminare si ha bisogno solo di una piccola spinta.


Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

martedì 17 marzo 2009

Undici anni di maturità


È una ragazzina piuttosto alta per la sua età, 11 anni, quasi a simboleggiare quanto la vita l'abbia costretta a crescere troppo in fretta, poco tempo da dedicare a giochi spensierati con una madre malata e la continua necessità di guadagnare qualche soldo. Tutto ciò ha portato, comunque, la piccola “grande” Endalat Fenta ad avere le idee ben chiare, anche sui suoi sogni e obiettivi futuri, che tanto sanno di concretezza, legati come sono alle esperienze vissute.
“Vorrei diventare un medico, – confessa infatti la bambina, ora, con il supporto del CVM, studentessa presso la Scuola Elementare Shimbet – per poter aiutare mia madre e le persone come lei.” Già, quella madre che a lei non ha potuto fornire il sostegno che meritava, che le serviva, causa la malattia che l'ha colpita, quella piaga che da troppo tempo affligge il continente africano e l'Etiopia, in particolare, a livelli epidemici: l'AIDS. “Vivevo con mia madre – racconta Endalat – nella Woreda di Tiss Abay, non lontano dalla città di Bahir Dar, dove mia madre dovette venire, dopo essersi ammalata, per ricevere le cure necessarie. Così, andai a vivere da alcuni parenti, ma presto la situazione rese molto difficile proseguire i miei studi: ero continuamente impegnata in lavori pesanti, come quello di raccogliere e trasportare concimi per i campi. Allora, dovetti abbandonare la scuola. Poi, quando le condizioni di salute di mia madre cominciarono a migliorare, la raggiunsi finalmente a Bahir Dar. Tuttavia, non erano bei momenti per noi: mia madre non aveva lavoro e non sapevamo di che sopravvivere. Dopo non pochi problemi, l'associazione di persone sieropositive Mekdem Ethiopia, collaborando con gli uffici governativi, trovò per lei un piccolo posto di lavoro. Successivamente, con l'aiuto di questa stessa associazione e dalla Family Guidance Association of Ethiopia, abbiamo aperto un negozietto per la vendita di pane e tè.”
A questo punto, risolti o, per lo meno, affievoliti alcuni fondamentali problemi, il pensiero della piccola “grande” Endalat tornò subito alla scuola, al desiderio di conoscere ed imparare: “Volli entrare alla Scuola Elementare Shimbet, ma nuovi problemi emersero quando l'amministrazione scolastica mi chiese 30 birr per l'iscrizione. Io non li avevo, quindi non fui ammessa e saltai le lezioni per una settimana. Dopodiché, fortunatamente, un mio vicino di casa trovò per me, dall'amministrazione della Kebele, una libera licenza per l'istruzione.” Ma il percorso che porta alla scuola era ancora lungo e tortuoso per Endalat e non si fa riferimento alle polverose strade non asfaltate di Bahir Dar. É qui, all'inizio dell'anno accademico 2006/07, che entra in gioco la Comunità Volontari per il Mondo: “Aggirato il problema del pagamento per l'iscrizione, restava quello di come procurarsi il materiale scolastico. La Bahir Dar Orphan Children Association registrò il mio nome e lo segnalò al CVM per il programma di Educational Support. Così, dopo qualche giorno, ricevetti dal CVM tutto il materiale necessario per l'istruzione: penne, libri di testo, uniforme. Questo tipo di sostegno è stato molto importante, necessario per me, perché mia madre non aveva la possibilità di aiutarmi a comprare queste cose. Senza il sostegno del CVM, avrei dovuto interrompere ancora la scuola. Prima di entrare nel programma, ero pessimista riguardo al mio futuro scolastico: come avrei potuto pagare i miei studi? Ma ora, riesco a pensare positivo e spero di studiare ancora tanto per realizzare i miei obiettivi.”

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

venerdì 13 marzo 2009

Quando la forza di madre fa il pane quotidiano


Sono uno di fronte all’altro, pochi metri e una strada a separarli. Due luoghi dove si uniscono, si incontrano, si conoscono vite travagliate, accomunate, pur nella loro unicità, dai motivi che lì le hanno condotte. Da una parte il carcere di Debre Tabor, mura alte, torrette con guardie armate e quell’austerità propria delle prigioni di tutto il mondo, quasi un “non luogo” dove la vita forzatamente si ferma, sospesa, mentre le altre là fuori vanno avanti. Di rimpetto, un accenno di recinzione, una casa di terra e legno, spazio aperto, dove altre vite difficili, “sbagliate” direbbe qualcuno, provano a ripartire, a voltare pagina. È qui che la Edget Behibret Association sta facendo nascere la propria attività, una panetteria, grazie alla quale questo gruppo di 35 donne sieropositive, molte delle quali senza più un marito, potranno sostenere economicamente se stesse ed i propri figli.

Le componenti di questa associazione, sorta a giugno 2008 con il supporto dello staff CVM di South Gonder, sono state selezionate all’interno della più ampia e composita Yehiwot Chora PLWHA’s Association, l’effettiva condizione di vita e le relative necessità quale unico criterio. Proprio in relazione alla particolare vulnerabilità di questo gruppo, madri sieropositive e per giunta con il bisogno di provvedere al sostentamento della prole, il CVM ha organizzato una formazione specifica di 10 giorni, durante i quali le donne sono state iniziate al programma delle IGA, cioè attività da cui generare profitto, per il cui inizio la stessa ONG italiana ha stanziato una somma di 25.000 birr (circa 1.700 Euro). Oggi, l’edificio dove verranno preparati pane ed altri cibi della tradizione etiope, da rivendere anche al vicino carcere, è praticamente ultimato, a mancare solo i macchinari atti al lavoro, che arriveranno presto da Bahir Dar e per il cui acquisto lo Zonal HAPCCO ha già messo a disposizione 20.560 birr.

Tangute Mengestu è membro dell’associazione e, parimenti alle sue compagne, ha una storia da raccontare, un’esperienza di vita che l’ha segnata profondamente, senza per questo abbatterla, ché c’è una famiglia da portare avanti, contando solo sulle proprie forze. “Dopo la morte di mio marito, – ricorda Tangute – la mia vita è stata un inferno: sola con tre bambini e senza la possibilità di provvedere al loro sostentamento, di nutrirli adeguatamente. Ma ora, con l’aiuto del CVM, ho un’opportunità importante e sono felice per questo.” La chance di una vita migliore, tuttavia, non cancella la memoria di ciò che è stato, la quale traspare da uno sguardo tristemente assorto, da quegli occhi che tradiscono un accenno di pianto.

Ha invece un sorriso solare, che non ammette ombre di tristezza, Yesheye Yalew, manager e responsabile dell’associazione, anche lei sieropositiva, madre di quattro figli, ad uno dei quali ha trasmesso il virus dell’HIV. “Abbiamo sempre apprezzato il lavoro del CVM, – dice la donna, accompagnandoci all’interno di quella che presto sarà una vera panetteria – che ci ha aiutato in molti modi, dandoci denaro ed organizzando corsi di formazione. Di questo siamo grati a Dio. Stiamo uscendo da esperienze terribili e ci sentiamo come rinate a nuova vita. Abbiamo progetti, speranze: vogliamo costruire una grande attività e dare così un aiuto concreto ai nostri figli. Per questo, contiamo di sfruttare al meglio i 300 metri quadrati a nostra disposizione: per esempio, in futuro abbiamo in programma di utilizzare la porzione di terreno dietro l’edificio per coltivare ortaggi e vegetali ed ampliare così il nostro commercio.” Da questo lato della strada, l’istante non permane; la vita è già ricominciata.


Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

mercoledì 11 marzo 2009

Storie: la commerciante e la formatrice



Sediamo ad un tavolo, sorseggiando tè ed accompagnandolo con il pane tipico della zona, spugnoso e dal colore scuro. La giornata è calda, per non dire afosa, qui nella kebele di Borkoshe e, dopo una lunga camminata sotto il sole, la piccola locanda di Amenech è il luogo ideale per trovare ristoro.
Alle pareti, poster di celebri calciatori accanto ad immagini sacre, come in ogni bar, bettola, abitazione d'Etiopia. I bambini non si fermano un'istante, se non per dispensare gli ormai consueti sguardi di stupore al pallido ferengi. Mi sembra di scorgere il passaggio ad una camera o comunque ad un'altra stanza. É in questo edificio, terra e legno con tetto in lamiera, che Amenech lavora ed abita assieme alla sua famiglia. Lei, al pari di altri, ha potuto beneficiare del servizio idrico fornito dalle strutture progettate ed approntate dal CVM, con il lavoro manuale ed il costante impegno della stessa comunità locale, fattasi custode e responsabile dei vari punti d'approvvigionamento, dove l'acqua arriva spinta dalla forza di gravità. Lasciato per un attimo il bancone, dietro al quale fanno bella mostra di sé bottiglie in serie di Mirinda e Pepsi, è lei stessa a descriverci in che modo la sua vita, la sua quotidianità familiare e lavorativa è mutata in seguito alla realizzazione del progetto idrico.
“Prima della costruzione di queste opere, – spiega Amenech, introdotta all'argomento da Temralech, social facilitator del CVM – dovevamo far fronte a diversi problemi, primo fra tutti quello delle malattie, così frequenti perché l'acqua che utilizzavamo era piena di batteri, come l'ameba e molti altri. Oltre a questo, per avere dell'acqua dovevamo spesso percorrere a piedi lunghe distanze, per raggiungere un fiume comunque sporco e pieno di vermi: in questo modo, perdevo molto tempo e la mia attività lavorativa ne risentiva negativamente. Allora, dato che per il mio lavoro ho bisogno di molta acqua, per cucinare, lavare, preparare cibi e bevande, mi organizzai per avere un servizio di trasporto: in questo modo potevo rimanere nel bar, mentre arrivavano i rifornimenti d'acqua, ma spendevo moltissimi soldi.”
Poi, quasi tre anni fa, entrò in funzione il sistema approntato dal CVM. Questi i risultati, gli effetti sulla condizione di vita di Amenech, che, oltre a dispensare cibi e bevande nella spartana ma accogliente locanda, ha anche qualche animale d'allevamento ed un piccolo terreno, dove coltiva patate dolci, mais e taff: “Dopo la costruzione dell'impianto idrico, posso dire di aver quasi risolto i miei problemi: ora, abbiamo a disposizione acqua pulita e, per di più, nel posto dove viviamo. Ciò rappresenta una bella comodità ed un gran risparmio di soldi; ora posso gestire bene la mia attività da sola. Quest'acqua non mi serve solo per bere, cucinare e pulire, ma è fondamentale anche per il sostentamento dei miei buoi e del mio mulo.”
Insomma, dalle parole di una diretta interessata si evince un concreto mutamento tra il prima e il dopo. In mezzo, un durante fatto di duro lavoro e di consapevolezza, una presa di coscienza della situazione, per la quale un ruolo fondamentale ha giocato e gioca tuttora il Wat.San. Committee, ovvero il Comitato per l'Acqua e l'Igiene, di cui Abebech, da poco entrata nel locale, fa parte.
“Ho ricevuto una formazione specifica di cinque giorni, – afferma la ragazza, membro del comitato promosso dal CVM e formato ad hoc dal personale dell'Ufficio Governativo per l'Acqua e di quello per la Sanità – dopodiché abbiamo condiviso con il resto della comunità le competenze acquisite, insegnando loro come ottenere ed utilizzare l'acqua, come prendersi cura di se stessi, il modo appropriato in cui gestire e mantenere l'impianto e come prevenire i danneggiamenti.” Anche in questo caso, l'iniziativa si è rivelata fattore di mutamento reale, riflesso nei comportamenti delle persone. “La gente – continua, infatti, Abebech – agisce in modo diverso rispetto a prima: ha cura della propria igiene personale e rispetta di più l'ambiente in cui vive. Ora, le persone usano l'acqua in maniera appropriata nelle loro case, prestando attenzione alle fondamentali norme d'igiene; lo stesso vale per le modalità d'approvvigionamento e per gli strumenti che si utilizzano. La formazione che abbiamo ricevuto e poi trasmesso agli altri membri della comunità rappresenta una grande possibilità, perché attraverso essa possiamo ridurre la nostra esposizione a determinate malattie e prenderci cura degli impianti per l'acqua, ad esempio proteggendoli con delle recinzioni. Prima del nostro training, non c'erano protezioni, ma solo un fiumiciattolo di acqua sporca; non c'era alcuna consapevolezza delle norme sanitarie ed igieniche nel raccogliere ed utilizzare l'acqua; non si prestava le minima cura persino nel lavare bicchieri e tazze in casa.” Semplici pratiche ed accortezze, scontate si direbbe pensando “all'Occidentale”, ma in un contesto dove di semplice e scontato non c'è nulla.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

lunedì 9 marzo 2009

Globalization makes Ethiopia... United



Ottanta lingue differenti ed innumerevoli dialetti, volti e paesaggi così dissimili da affascinare ogni volta di più, etnie diverse e religioni diverse, che convivono quasi ovunque pacificamente: insomma, un caleidoscopio culturale, naturale ed antropologico sorprendente. Questa è l'Etiopia: tanti Paesi in uno e non solo per la vastità del suo territorio. Eppure, se è vero che essa sussiste, almeno formalmente, in quanto unità, ci dovrà pur essere una caratteristica che la connoti nella sua totalità.
C'è, d'accordo, quell'istituzione che si chiama Stato, ma ad esso si affianca l'aggettivo Federale, tanto più che una delle cifre dell'attuale Governo, a quanto si dice, è proprio l'attenzione alle diverse realtà etniche (l'altra faccia della cui medaglia è la vecchia e sempre valida regola “Divide et Imperat”). C'è alle spalle, è vero, la plurimillenaria storia di imperi e regni, che però hanno visto il proprio centro di potere spostarsi, da Axum, il cui impero aveva provati contatti commerciali con quello Romano, a Gonder, splendida capitale del “Medioevo Abissino”, tralasciando la presenza di altri regni e reami ancora, che hanno visto nel tempo e in differenti zone i fasti di ricche città, sorte e poi decadute, seppure ancora esistenti; e comunque, tali gloriose ma tramontate realtà, una volta disegnate su una cartina, non corrispondono effettivamente all'attuale estensione della Nazione Etiope, che già da un po' di tempo include, fra l'altro, ampie regioni del Sud (le attuali SNNPR e Somali Region). C'è senz'altro una forte e storica presenza della Chiesa Ortodossa d'Etiopia, nei secoli custode della cultura nazionale, se così la si può definire; tuttavia, non si può chiudere gli occhi di fronte alla rilevante presenza islamica nel Paese, dove, se è vero che nel Nord (Amhara e Tigray) gli Ortodossi rappresentano circa il 65% della popolazione, man mano che si scende a sud, la moschee si fanno sempre più visibili e frequenti, il tutto senza considerare la discreta presenza di Protestanti e, in misura minore, Cattolici, comunque protagonisti di una lunga tradizione missionaria, e ancora quello che fu, in mezzo a tanto animismo pagano, il primo “insediamento” monoteistico nel Paese: l'Ebraismo, della cui tradizione molto rimane ancora oggi.
Allora, dov'è, qual'è il comune denominatore di questa Nazione? Fatico davvero a trovarlo. Probabilmente non ne so abbastanza o, magari, ho un po' esagerato nell'accentuare diversità all'interno di ambiti, nei quali si possono comunque riscontrare elementi d'unione nazionale. Mentre mi perdo dietro questi ragionamenti, i miei occhi osservano i bambini lungo le strade, nei mini-bus, accanto le abitazioni: alcuni mi fissano quasi sbigottiti, altri salutano sorridendo, altri ancora (pochi) continuano imperterriti nei loro giochi. Poi, d'un colpo, realizzo. Quasi illuminato, trovo finalmente il minimo comun denominatore che stavo cercando. Ma sì, come ho fatto a non pensarci, a non notarlo prima? Manchester United, Arsenal e Chelsea; Cristiano Ronaldo e Rooney, Fabregas e Drogba, nomi e numeri, accompagnati da stemmi e colori. Da queste parti, tutti i ragazzini, nella grande città come nel villaggio di campagna, da Nord a Sud, siano essi di etnia Oromo o Amhara, maschi e pure femmine, ricchi o poveri, belli o brutti, insomma tantissimi di loro, a prescindere dal contesto, hanno indosso le maglie delle squadre di calcio inglesi.
Qui, vanno davvero matti per la Premier League, le cui partite vengono trasmesse dalla TV di Stato e possono essere viste nei locali, nei bar e in molte case, pure nei cinema, come in quello di Bahir Dar, dove non potrai veder alcun film, ma un bel Liverpool-Chelsea, quello sì. Mi fece specie, quando, dalla finestra della mia camera ad Addis Abeba, vedevo abitazioni piuttosto misere, un insieme che alcuni non esiterebbero a definire baraccopoli; ma, per quanto misere fossero, sopra queste case raramente mancava una bella parabola, per captare le onde su cui viaggiano le prodezze degli artisti della pedata anglosassone. Ed ha un bel parlare, al riguardo, Abba Gera, giovane prete etiope, quando dal cenacolo del centro missionario lancia strali e con forza lamenta: “Per colpa del calcio, i ragazzi non ragionano più e quel che è peggio è che non studiano neanche, per stare dietro alle partite. Manchester, Arsenal, Drogba... E intanto non fanno nulla, perdono la possibilità di costruirsi un futuro, di essere utili a loro stessi e al proprio Paese. Gli dici 'Italia' e ti rispondono 'Totti'. Sanno il numero di scarpe dei loro calciatori preferiti, ma se gli chiedi di fare due conti vanno in pallone. È una droga. Così è impossibile!”. Già, talmente impossibile da essere reale.
Ma l'identità di una grande Nazione non può certo ridursi ad un frutto della “globalizzazione pallonara”. Deve per forza esserci dell'altro. Ecco cosa c'è da fare: andare in profondità, alle “radici” della cultura nazionale, essere nella “vera” Etiopia, quella delle zone rurali, dove le persone vivono ancora nelle tradizionali abitazioni di terra e legno, non comprano il cibo nei negozietti, ma se lo fanno, campando di agricoltura e pastorizia, e si muovono in groppa ad animali, al limite con dei carretti, invece che con i mezzi motorizzati, seppur vecchi e scassati. È proprio in un piccolo villaggio dell'East Gojjam, dal nome impronunciabile, che ci fermiamo, sulla strada da Bahir Dar ad Addis Abeba. Eccoci, pastorelli in giro con il bastone in mano, di cemento e asfalto neanche l'ombra, così come di uffici, bus e frutti del progresso. Mi accingo ad entrare in una di quelle casupole sopra descritte, terra, legno e poco altro; una scarna recinzione appena fuori e piccole bestie d'allevamento a piede libero. Il proprietario è un conoscente delle persone che mi accompagnano, gente abesha con cui lavoro. Finalmente passo l'uscio, sono dentro la “vera” Etiopia. Anziani signori in bianche vesti tradizionali mi salutano e tornano a sacramentare, grandi croci ortodosse al collo. Enjera nei piatti, tella nei bicchieri e sui muri immagini sacre e... E non solo. Già, perché a fare compagnia (o da contraltare, fate voi) al Salvatore e a sua madre Maria, ci sono, impeccabili divise rosse indosso, i Campioni d'Europa del Manchester United, tutti lì, ineffabili e sorridenti, mentre il Cristo soffre sulla croce. E, a guardare bene, sono molto più presenti i poster degli idoli calcistici che le icone sacre. Ci sono più immagini di Cristiano Ronaldo che del buon Gesù ed il povero Cristo quasi impallidisce, di fianco alla grande foto del campione che allarga le braccia ed apre la bocca nell'urlo liberatorio, che solitamente fa seguito ad una delle sue prodezze, “miracoli” della tecnica calcistica. Il diavolo e l'acqua santa... Pardon, i Red Devils e l'acqua santa. La sfida, in questo caso, è impari. Non c'è nulla da fare. Non c'è icona religiosa, bandiera o Selassié che tenga: il modello, il punto di riferimento per le attuali generazioni dell'Etiopia tutta è un ragazzotto portoghese, che al lavoro indossa i calzoncini corti.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

giovedì 5 marzo 2009

Francesca Gritti dalla Tanzania: 8 Marzo


L’8 marzo è arrivato e penso alle donne e alle ragazze che ho incontrato in questi mesi in Tanzania. Hanno molto in comune con le ragazze italiane: amano vestirsi bene, cambiare acconciatura, chiacchierare e uscire con le amiche.
Peccato che per vestiti intendo dei semplici pezzi di stoffa non cuciti o, ad andar bene, qualcosa di seconda mano; per parrucchiere intendo l’amica o la zia che ti fanno le treccine e quando dico uscire intendo andare al pozzo a prender l’acqua con le altre donne ed i bambini.
Qui le ragazze diventano donne presto, ed altrettanto presto capiscono come la vita delle donne africane sia tutt’altro che semplice.
Alla scuola primaria sono molte, ma spesso si assentano per aiutare in casa e comunque non hanno mai molto tempo per studiare perché devono dare una mano nei campi o curare i fratellini. Quindi, anche le fortunate che riescono a completare il primo ciclo di studi a volte non sono nemmeno capaci di scrivere correttamente nella propria lingua. Altre non rienscono nemmeno a completare l’educazione primaria, spesso per via di gravidanze premature, a volte causate da violenze subite in casa, a scuola o nei campi.
L’istruzione secondaria, invece, è un privilegio riservato a poche ragazze. La prevalenza di studenti maschi è palese fin dal primo sguardo. Matrimoni e gravidanze precoci, poi, minano anche questo esiguo numero di studentesse.
Sono belle, giovani, poco istruite e abituate a sottostare ai comandi: sono le perfette candidate a vedere violati i propri diritti. Ed è proprio questo che accade… per molte donne qui c’è poco da festeggiare.
Le ragazze diventano mamme quando sono ancora bambine, molte ventenni hanno già figli di 2 o 3 anni e sono poche le trentenni che ancora non ne hanno avuti. Non è inoltre raro che queste giovani mamme lascino i loro figli ai propri genitori e se ne vadano a lavorare in città, tornano poche volte l’anno a rivedere i propri bambini. Non si tratta di madri snaturate, non cadiate in facili giudizi: sono donne spesso sole i cui compagni se ne sono andati e le cui famiglie non sono in grado di prendersi cura di tutti. Queste ragazze lasciano i propri figli per trovare sostentamento per sé e per i piccoli. E’ impossibile pensare di portarli a vivere con sé in una piccola stanza in città, dovendo lavorare tutto il giorno. Baby-sitter ed asili esistono solo per i ricchi… il welfare state non è di casa qui! Essendo poco istruite fanno lavori umili, cameriere o donne delle pulizie principalmente. Gli stipendi sono bassi e non è poi così difficile cadere nella tentazione di farsi offrire un pasto o una birra … il fatto è che nessuno da’ niente per niente e quindi in qualche modo occorre pagare. Non la si può chiamare prostituzione, si tratta piuttosto di quello che gli esperti definiscono “sesso transazionale”. A volte, poi, non è nemmeno questo: è pura violenza, non di rado subita fra le stesse pareti domestiche. Con un tasso di HIV ce in certi punti della nazione supera il 20%, è semplice capire a quale altissimo rischio siano esposte queste donne che non sono quasi mai nelle posizione di poter chiedere ai propri partner di praticare rapporti protetti.
Le donne tanzaniane con un livello d’istruzione elevato e consce dei propri diritti sono poche; vengono da famiglie benestanti o hanno avuto la fortuna di studiare grazie a borse di studio spesso offerte da istituzioni internazionali.
Il progetto CVM/APA di Bagamoyo mira a far crescere il numero di donne e ragazze consce dei propri diritti, indipendenti e capaci di evitare i comportamenti che le pongono a rischio di contrarre l’HIV. Si punta alla formazione ed all’informazione attraverso training e workshop, all’educazione attraverso borse di studio per l’educazione tecnico-vocazionale e l’università ed all’indipendenza economica grazie a piccoli prestiti elargiti secondo le modalità dei fondi rotativi.
Si tratta di attività che saranno in grado di dare potere alle donne tanzaniane anche al termine del progetto CVM/APA in quanto il denaro dei prestiti e delle borse di studio è elargito sottoforma di fondi rotativi in cui il capitale continua a accumularsi per successivi beneficiari e le informazioni relative all’HIV/AIDS, al cambiamento comportamentale, alla salute riproduttiva ed ai diritti umani continuano a circolare fra i giovani grazie agli educatori formati durante i training.
La strada è lunga ed in salita, ma le donne e le ragazze tanzaniane hanno tutte le carte in regola per giocare al meglio la propria partita. CVM/APA sta fornendo loro dei mezzi essenziali per renderle consapevoli e forti…è solo questione di tempo. Guardando le donne italiane sembra impossibile anche solo immaginare che abbiano ottenuto il diritto al voto solo nel 1946. Fare questo paragone mi da’ speranza, chissà quanta strada percorreranno le donne di Bagamoyo nei prossimi 60 anni!

Francesca Gritti
Volontaria in Servizio Civile, Tanzania