mercoledì 21 maggio 2014

E' quasi un mese...

E' quasi un mese che sono In Etiopia ed il tempo è più che volato. Ogni giorno mi stupisco e mi innamoro di qualcosa di nuovo, eppure tutto questo non mi è nuovo. Quando ho fatto domanda per il servizio civile ho valutato il progetto ed il luogo. Nessun posto al mondo mi avrebbe fatto felice come l'Etiopia. All'inizio mi sentivo quasi in difetto perché mi sembrava di fare la scelta più facile: vado nel paese di mia madre, un paese già visto, dove sono i miei parenti, confrontandomi con una lingua che già conosco. Ora dico che sarebbe stato più facile andare in altri paesi. L'Etiopia mi appartiene, sento che devo dare il massimo per non offendere questa terra che sta spiccando lentamente il volo e mi sento offesa quando qualcuno non ne apprezza i costumi e non ne accoglie le usanze. 

Le settimane passate ad Addis Abeba sono state bellissime, lo staff del CVM ci ha accolto nel migliore dei modi, cercando di venirci incontro al massimo. Ogni giorno passato mi sono scoperta sempre più appassionata ai progetti idrici e non che mi troverò ad affrontare ed oggi posso dire che non vedo l'ora di iniziare a pieno, di andare a Soddo e di spendere i prossimi mesi lontani dalla caotica e divertente Addis per vivere una vita completamente diversa dalla mia ed immergermi al 100% in questo bel mondo.
In realtà mi trovo a Soddo proprio adesso, ma per il momento solo di passaggio, insieme alla nostra rappresentante paese Valentina, l'ingegnere Zelalem e Marco. Qui ho avuto la possibilità di vedere con occhi quanto lavoro c'è dietro ad ogni progetto: l'incontro con una ong locale in vista di una futura partnership, la visita a nuovi siti sui quali lavorare, a quelli su cui si sta lavorando e quelli su qui si è lavorato. Tutto ciò ha aumentato di tanto il mio entusiasmo già alle stelle. Tra le tante cose fatte ce ne è una che mi ha segnata in senso positivo: l'incontro con la tribù dei kara. Dopo una strada lunghissima e non del tutto asfaltata in uno dei punti più caldi d'Etiopia abbiamo raggiunto la tribù, passando prima per il loro centro medico. Qui l'assenza di ambulanze funzionanti e dei medicinali basilari per me scontati mi hanno dato un primo scossone, da distanza che c'è tra il centro e la tribù mi ha dato un secondo scossone, le loro condizioni di vita ed i rischi che corrono ogni giorno mi hanno stesa. Appena arrivati un gruppo di bambini ci è venuto subito in contro, curiosi e divertiti. Si sono chiesti se fossi etiope oppure no e quando gli ho risposto metà e metà, mi hanno detto che non era possibile il miscuglio e hanno provato a dire di dove fossi per una decina di minuti buoni. Passata la parte divertente è iniziata la parte emozionante. Mentre Zelalem e Solomon si dirigevano verso il fiume Omo per fare delle rilevazioni, Valentina, Marco ed io abbiamo fatto delle domande alle donne del villaggio. Abbiamo chiesto come fosse organizzata la tribù, quali fossero i ruoli dei componenti e le difficoltà affrontate ogni giorno. Abbiamo poi chiesto quale fosse il loro sogno nel cassetto e tutte, ma proprio tutte, hanno un sogno correlato all'acqua. Non nego di aver trattenuto le lacrime quando una donna ci ha mostrato le mani callose con il quale tutti i giorni lavora nei campi ed in casa, così come quando ci hanno raccontato dei loro spiacevoli incontri con i coccodrilli ogni volta che si recano al fiume per raccogliere un'acqua sporca, che porta malattie, la stessa usata dagli animali. Mi sono chiesta se fosse la forza delle mamme che non sanno cosa dare mangiare ai figli a spingerle ad andare avanti, le loro tradizioni, oppure il fatto che non hanno mai vissuto altro.
Per me è stata quasi un'avvenuta trovarmi tra loro e vedere le loro vesti quasi inesistenti fatte di pelle di mucca, i loro gioielli di fagioli e perline keniote, le loro pettinature con l'argilla, le loro case di fango e paglia, il loro bestiame, il loro modo di sedersi, parlare e guardare, ma per loro è un'avventura questa vita.
Acqua liscia, frizzante, fredda, a temperatura ambiente sono questi i miei problemi legati ad un bene così prezioso e questo mi fa riflettere.

Sicuramente qui non cambierò niente, sono solo di passaggio, ma sicuramente questa esperienza mi cambierà e mi sta già cambiando.

Cristina Toppo - Servizio Civile Soddo

martedì 20 maggio 2014

Il mio SVE a partire da una foto

A causa di un problema tecnico non sono riuscita a parlare durante l’incontro finale per la conclusione del progetto EVS – Educate Vocational Solidarity sulla piattaforma organizzata da FOCSIV. E cosi eccomi qui, a provare a mettere per iscritto alcune delle emozioni e dei pensieri che hanno accompagnato la fine di questa mia esperienza SVE. Partendo da una foto. Una foto sfocata, di bassa qualità, nulla di eccezionale, ma che per me rappresenta il senso di questi mesi. 8 mesi passati tra le gente, con il popolo tanzaniano, con le ragazze e le giovani donne di Bagamoyo, entrando in contatto con le loro famiglie, i loro bimbi, i loro mariti, i loro genitori, i loro fratelli, i loro amici.
Questa foto è stata scattata durante un corso di aggiornamento nella produzione di batik organizzato da CVM, il mio ente di invio, e BAGEA, l’associazione tanzaniana per la promozione del diritto all’educazione presso cui sono stata impegnata, per uno dei gruppi delle “nostre” ragazze coinvolte nei progetti di sostegno all’educazione e alla formazione professionale. Quello è stato uno dei momenti più “duri” del mio SVE, a novembre. In Tanzania da qualche mese, continuavo a non capire nulla di quello che accadeva intorno a me, non capivo lo swahili, non riuscivo a comunicare, sentivo una barriera fortissima con le persone intorno a me, che mi impediva, pensavo in quel momento, di lavorare, di dare il mio contributo, di dare un senso alla mia esperienza. Durante quel corso mi ricordo in particolare un episodio, una battuta detta dalle ragazze a cui io non ho riso perché non riuscivo a capire quello che dicevano. E la percezione netta in me e in loro di essere “fuori dal gruppo”. E poi..e poi le ragazze e la formatrice con naturalezza mi hanno invitato a sedermi in mezzo a loro, mi hanno messo una tela in mano e mi hanno fatto vedere come preparare il tessuto per il batik, invitandomi a fare lo stesso. Io in teoria ero li per “coordinare” un pochino le attività, fare interviste di monitoraggio, tenere il report del corso. Ho lasciato perdere. Mi sono messa li seduta, sui teli di plastica nera, insieme a loro e ai loro figli che gattonavano sui teli, in mezzo alle loro risate, in silenzio, ascoltando quello che mi capitava intorno, osservando i loro volti, sorridendo ai loro figli. E anche loro hanno ricambiato il sorriso. Ho capito in quel momento che forse quello che la Tanzania mi chiedeva di fare era proprio quello. Stare in silenzio e aprire il cuore gli occhi e le orecchie a quello che sarebbe accaduto, senza pretendere nulla.

Sono partita per la Tanzania e per questo SVE con tanti “voglio fare”. Voglio imparare, voglio accrescere le mie competenze professionali, voglio lavorare..voglio voglio. Sono arrivata giù e ho capito che non avrei trovato nulla di quello che volevo. Sono stata mandata a lavorare con un’associazione locale formata da 4 ragazze tanzaniane di cui una sola sapeva bene l’inglese, mentre le altre parlavano solo swahili. E davano per scontato che io parlassi swahili o che lo imparassi nel giro di qualche giorno. L’ufficio era una stanzetta all’interno di una casa, la corrente spesso veniva tagliata e quando finiva la batteria del computer si era bloccati o bisognava spostarsi in uno dei pochi baretti con corrente. I tempi di lavoro diversi e le priorità diverse che ti fanno pensare sia impossibile lavorare come tu ti aspettavi; una mentalità diversa con cui ti scontri, con cui non ti riconosci e che ti fa mettere in discussione il senso del tuo stare li. Il corso di swahili partito un po’ in ritardo, molto meno strutturato e “convenzionale” di come ero solita immaginarmi un corso di lingua. La solitudine, la fatica nel comunicare parole e pensieri con le persone che hai intorno, le colleghe, le ragazze dei nostri progetti, i vicini di casa. La paura di non farcela ma la voglia di restare e andare avanti. Accettando di restare in silenzio, accettando di stare a guardare per un po’. E poi piano piano l’apertura. Con le colleghe, che mi hanno insegnato lo swahili giorno per giorno insegnandomi, tra la scrittura di un progetto e un monitoraggio, a pulire le verdure, facendomi tenere i loro figli in braccio, facendomi assaggiare tutto quello che il mercato culinario di Bagamoyo offriva. Con i vicini di casa, con i quali ho preso lezioni di cucina, seduta sulle stuoie, davanti a un fuoco a carbone mentre ci si racconta delle proprie famiglie. Con Roma. il mio insegnante di swahili, una guida turistica con la passione della storia e dell’economica, che mi ha aperto gli occhi sulla società tanzaniana, sulle tradizioni ancora presenti, sulla voglia di riscatto e di crescita sociale e professionale dei giovani. Con Maembe, Nabo, Sajali, Kenni, i miei amici musicisti che mi hanno praticamente adottato e con i quali ho scoperto e imparato le mille sfumature della musica tanzaniana, le sonorità, i testi che parlano di povertà, di infibulazione genitale femminile, di repubblica tanzaniana, dei mille problemi di questa Africa che pulsa. E la fatica che si trasforma in regalo. Che mi fa capire quanto sono ricca e fortunata. Questi mesi sono stati la risposta a tante delle mie aspirazioni. Il perché di una certa scelta universitaria, il perché di una certa “vocazione” professionale, la passione per la storia e la politica africana. E poi, a completare, sono arrivate anche le famose competenze professionali. Un “in più”. Mi è stato dato tanto di più quello che pensavo. In un modo imprevisto, diverso da quello che pensavo. Come sempre la vita mi sorprende. E mi sono ritrovata sull’areo di ritorno semplicemente a dire “Asante sana”.

Valentina Codeluppi - SVE Tanzania