mercoledì 20 aprile 2011

Housemaids Training


In this week (18-21 April), 15 housemaids are attending a training in the Ankesha woreda, in Awi zone. The main objectives are to reduce their vulnerability and to increase their awareness of work and women rights. These housemaids are between 12 and 27 years old, three of them are illiterates and four girls are attending the school according with their employers. They live with their employees and they work for 16 hours per day, from 6am to 11pm. Only the girls who are attending the school work 10 hours per day. On average their salary is 40 birr per month (less than 2 euros per month). The employee of Women Affair Office, who collaborates with CVM to select the housemaids, told me that it was hard to find the girls for the training because their employees are afraid of the possibility that the housemaids take conscience of their rights and demand best work conditions.

The training is about HIV/AIDS transmission and prevention, to improve the knowledge about reproductive health. In fact, often, these girls are abused by their employees, or they could become sex workers to increase their incomes. Other subjects are women rights, in order to avoid abuses and early marriages, and work rights to encourage the report of violations.
The trainers' approach is very active, they involve the girls in group discussions, preparation of flip chart and they continually ask them their opinions to improve their understanding. In this way it's also possible help the girls to take conscience about their capacity, in fact, they play a key role in the course and become self confidence.

At the end of the training, the girls are going to establish an association, to share with the other housemaids their experience, to protect themselves and promote their rights. The main roles (as president, vice president, casher and secretary) are already assigned by a democratic vote. They will meet 2 times per month and develop their own plan of action, getting the free choice about/on their projects.

Benedetta Sercecchi (CVM Volunteer in Ethiopia)

martedì 12 aprile 2011

Quando le parole stanno strette


Trasmettere attraverso parole la realizzazione di un proprio sogno non è compito facile, ma a mio avviso doveroso per raccontare un’esperienza unica e, seppur da una prospettiva soggettiva, una realtà tanto complessa quale quella africana.

È una sensazione strana scrivere da questo posto... un luogo che ha realizzato l’immaginario africano costruito nel corso delle mie esperienze e dei miei studi... è Bagamoyo, piccola cittadina sulla costa tanzaniana, ex capitale durante la colonizzazione tedesca, punto di raccolta e partenza degli schiavi per essere venduti a Zanzibar e successivamente nell’estremo oriente. Cittadina è un termine poco appropriato per descrivere una realtà che rimane povera e piuttosto rurale, ma il termine villaggio indica un contesto ben diverso da quello in cui vivo ora. Qui le abitazioni sono in cemento, alcune di fango e pietre, sorrette da pali di legno e coperte da rami di palme intrecciati; la maggior parte delle vie sono sterrate, per lo più coperte di sabbia; buona parte delle case non hanno elettricità né acqua. Un’infinità di attività commerciali diverse costeggia le strade principali: dalla vendita di frutta e verdura, di piccoli oggetti per la casa, abbigliamento di vario tipo, in particolare kanga e kitenge (gli abiti tradizionali locali) e numerosi punti di ristoro dove sorseggiare una bevanda fresca e gustare qualche piatto tipico locale.

Appena fuori Bagamoyo, percorrendo la strada principale (asfaltata) che porta a Dar Es Salaam, si è circondati da una fitta vegetazione ricca di palme, che svettano alte sopra gli arbusti, e di maestosi mango trees, gli alberi che offrono sollievo alla pesante calura delle ore centrali. Di tanto in tanto, da entrambi i lati, è possibile accedere per mezzo di stradine sterrate ai vari villaggi che popolano la costa del Distretto di Bagamoyo. Ho avuto il piacere di visitare alcune delle comunità costiere subito al mio arrivo: guidata dallo staff CVM, il secondo giorno ero già alla scoperta di un nuovo mondo, del progetto, delle persone in esso coinvolte, dei loro volti, delle loro necessità. Mlingotini, Pande, Kondo, Mapinga, Kiharaka sono i nomi di alcuni di questi luoghi: piccoli centri abitati con poche case, o capanne, una chiesa, una moschea, piccole attività commerciali che vendono prevalentemente frutta e ortaggi, uno, al massimo due punti di ristoro. In strada, capannelli di ragazzi che, all’ombra di un albero, sono in attesa che qualcuno abbia bisogno di un passaggio sul proprio piki piki (motocicletta, molto diffusa come mezzo di trasporto locale), donne che fanno il bucato, preparano cibo o trasportano acqua con enormi secchi fermi sulle loro teste, bambini che giocano ai bordi delle strade o davanti le proprie case, rincorrendo una palla fatta di stracci cuciti insieme o il copertone della ruota di una bicicletta.

In spiaggia, pescatori che riparano barche, ne costruiscono di nuove, vanno in mare a gettare le reti e donne che li aiutano nel trasporto e nella vendita del pesce. Le persone mi guardano e accennano un sorriso sulle labbra, i bambini gridano “mzungu” (straniero) e mi fissano come se fossi un’aliena, sembrano incuriositi dal vedere una bianca nel loro villaggio, si raggruppano e sorridono insieme divertiti dall’ “evento”. È qui che vivono i beneficiari del nostro progetto, in particolare donne e persone sieropositive. È qui che il problema dell’HIV è seriamente diffuso a causa della mancanza di educazione e conoscenze adeguate sulla trasmissione del virus.
È stato sorprendente vedere come le persone chiamate a far parte dei comitati beneficiari dei corsi di formazione siano consapevoli del problema e si dimostrino così decisi e attivi nella battaglia contro l’AIDS. Vedere l’attenzione, la partecipazione, la volontà di imparare, agire e insieme trovare una soluzione fa pensare che siano proprio i villaggi il punto di partenza affinché si possa innescare un processo positivo di responsabilizzazione delle comunità locali verso la prevenzione dell’HIV/AIDS. La forza dei comitati risiede proprio nel coinvolgimento delle figure principali e più carismatiche di ciascun villaggio, promuovendo il dialogo e lo scambio reciproco: membri del consiglio di villaggio, l’autorità governativa, leader locali, rappresentanti di persone sieropositive, donne, giovani, capi religiosi di diverso credo sono chiamati insieme a confrontarsi per individuare le problematiche del proprio territorio e, con le risorse disponibili, pianificare un’azione congiunta per ridurre la diffusione dell’epidemia, che in queste zone raggiunge una percentuale del 10%.

Alla conclusione di uno dei primi corsi che CVM ha promosso in questa zona, un anziano signore, membro del comitato di villaggio, ha preso la parola e ha incoraggiato i suoi compagni con queste parole: “Siamo uniti, rispettiamo e seguiamo quello che ci è stato insegnato, agiamo!” È proprio questo lo spirito che il CVM e i partner locali promuovono nella popolazione locale in modo tale che in futuro possa nascere, partendo dal basso, una nuova consapevolezza riguardo il virus dell’HIV e un’azione attenta alle specifiche esigenze di ogni area.

Valentina Romagnoletti
(Volontaria in Servizio Civile, Tanzania)

venerdì 8 aprile 2011

L'ingresso in Etiopia: Addis Abeba, mi tolgo le scarpe.


In molti Paesi dell'Africa e del Medio Oriente prima di entrare dentro un'abitazione è bene togliersi le scarpe per non introdurre sporcizia, è un gesto di rispetto e umiltà. Anche in Etiopia, per entrare nei luoghi di culto bisogna essere scalzi; per me, togliersi le scarpe simboleggia anche un'attitudine mentale, disporsi ad un nuovo terreno e liberarsi da categorie improprie in realtà nuove ed uniche.

L'Etiopia è un Paese che destabilizza ogni preconcetto sull'Africa, per questo aiuta ogni viaggiatore a compiere con più naturalezza questo gesto.
A livello climatico, è una nazione nel cuore dell'Africa, vicina all'equatore, ma posta su altipiani; per questo l'estate, cioè la stagione delle piogge, è particolarmente rigida. Sì, si soffre il freddo anche in Africa e si soffre più che altrove poiché non vi sono né riscaldamenti, né isolanti termici nelle abitazioni.
Poi ci sono i paesaggi pieni di verde, la regione Amhara è ricca di pascoli e boschi; non c'è la foresta pluviale né la savana, la vegetazione è così ricca e variegata che è impossibile rappresentarla con una sola immagine.
Anche l'aspetto religioso insinua forti dubbi sulla concezione standardizzata che si ha dell'Africa: invece di riti tribali - presenti solo in minima parte - o della massiccia presenza di missioni cattoliche, lo sviluppo della civiltà etiope è legato strettamente alle sorti della chiesa copta. Il cristianesimo trova le sue origine nel regno axumita, verso il 480 d.C., quando l'imperatore Ella Amida, accolse favorevolmente degli evangelizzatori provenienti dall'Impero Romano d'Oriente. L'alleanza tra potere e chiesa permise un forte proliferare del nuovo culto.

Tuttora sono facilmente identificabili, nel panorama che si può ammirare viaggiando da Addis verso nord, chiese rupestri e monasteri di antichissima tradizione.
A manifestazione di tanto fervore e di una consolidata presenza sul territorio, si può ammirare ovunque la miriade di croci differenti -meskel- dalle più semplici alle più articolate segno di uno sviluppo artistico nell'intaglio e nell'incisione non indifferente. Ed è sorprendente come qui si sia sviluppata una tranquilla convivenza tra il culto ortodosso e quello musulmano, anche nei piccoli centri è riscontrabile la presenza di entrambi i credi e di una buona cooperazione tra le due gerarchie religiose.
Mi sembra palese che l'occidente ha utilizzato il termine “Africa” come categoria per racchiudervi dentro realtà tanto differenti e profonde, etichettarne il contenuto come povero così da smettere di interessarsene realmente, di conoscerlo e porsi in ascolto.
Ponendoci in una situazione di dialogo e sospendendo i nostri parametri di giudizio, forse, non riusciremmo più ad affermare la nostra superiorità in quanto mondo sviluppato; il parametro dello sviluppo economico e la nostra razionalità utilitaristica rischierebbero di crollare. Eppure, fino ad ora, la ricchezza e la vastità dell'Africa le abbiamo ben sigillate dentro un barattolo, vi abbiamo posto sopra l'etichetta “terzo mondo” e ci guardiamo bene dall'aprirlo.
Non voglio svolgere un'analisi socioculturale sulla realtà africana dopo meno di un mese di permanenza in Etiopia, dunque mi limiterò a narrare dei fatti: per una sorta di patto di fedeltà verso la realtà che sto cercando di narrare, per consegnare un'immagine meno stereotipata del mondo a cui mi sto accostando. Sono conscia che l'obiettività è impossibile: sono io a selezionare cosa narrare, cosa ritengo significativo; però vorrei aprire uno spiraglio di discussione e non dettare sentenze.
Dunque racconterò una storia che forse potrebbe essere considerata “poco africana”, ma che si è svolta in questo continente..siamo un venerdì sera ad Addis Abeba. Questa come tutte le grandi metropoli africane è una realtà stridente, in cui noi espatriati possiamo concederci lussi che in patria ci sembrerebbero impensabili e, al contempo, siamo sempre affiancati da esistenze condotte in povertà estrema.

Siamo tre servizio civiliste (Carola, Marta e Benedetta) che, dopo aver sorseggiato dell'ottimo tej (liquore al miele) in un locale caratteristico in cui si svolgono danze tipiche con musica dal vivo -un'esibizione strabiliante-, decidiamo di assaporare la vita notturna della capitale. Così, ci dirigiamo verso un locale dove ci sta aspettando una ragazza etiope che conosciamo: Ornella. Lei ci accoglie evidentemente ubriaca ma con un perfetto italiano. É una ragazza minuta con una bella carnagione olivastra, lavora in un'agenzia italiana di adozioni e balla scomposta al centro della pista. Noi ci sentiamo perfettamente a nostro agio, il locale è simile a molti altri che potremmo aver visitato in Italia, balliamo tutte insieme, divertite. Purtroppo il tasso alcolico di Ornella ha qualche effetto nefasto: lei si getta su ogni farenji (temine amarico per designare i bianchi) che avvista nel locale. I farenji che cerca di adescare ci chiedono di intervenire, di portarla a casa, il barista si rifiuta di venderle alcolici e lei si infuria.
Dopo un po' riusciamo a convincerla a tornare a casa, lei chiede un passaggio ad alcuni ragazzi francesi ma, evidentemente, le viene rifiutato. Allora cerca di chiamare tutti i tassisti di cui ha il numero minacciandoli di morte nel caso non rispondano. È in evidente difficoltà, barcolla, dimentica la borsa, fa cadere il cellulare, il buttafuori tenta di aiutarla ma lei lo insulta in Italiano. Tratta tutti gli etiopi con disprezzo e sufficienza.
Finalmente riusciamo a convincerla a salire su di un taxi che si è fermato per noi. Contrattiamo il prezzo della corsa e la accompagniamo a casa, ma durante il percorso lei cambia idea: deve raggiungere la casa di un suo amico. Prende il portafoglio pieno di dollari, euro e birr, lo mostra al taxista parlandogli in italiano e apostrofandolo “ciccio”; così contratta in amarico una nuova destinazione promettendo 80 birr. Noi assistiamo inerti alla scena, sia perché il nostro amarico non ci permettere di dissuadere il tassista, sia perché sventolare banconote ha un effetto persuasivo maggiore di qualsiasi discorso.

Arrivati alla nuova meta evidentemente qualcosa la disturba, inizia ad insultare il tassista, si rifiuta di pagarlo, gli sputa. Lei scende dal taxi ma il ragazzo la segue per avere il suo compenso, benché cerchiamo di tranquillizzarla aggredisce chiunque. La scena che ci si ritrae davanti è ripugnante, Ornella cerca di picchiare il taxista, le persone che vivono per strada si avvicinano per capire la ragione di tanto trambusto, lei, infine se ne va con un'altra macchina...tutto ci appare così assurdo. Noi ce ne torniamo a casa accompagnate dallo sventurato conducente, non riusciamo a capire le cause di tanta aggressività.
La mattina seguente guardandomi allo specchio ho l'impressione di capire da dove derivi tanto odio. Ornella ha avi italiani, ha studiato in scuole italiane, lavora a contatto con italiani, subisce costantemente la terribile fascinazione dell'occidente e forse non sogna altro che vivere altrove e non sopporta il destino che le ha assegnato una vita in Etiopia. È amaro constatare come qui il colonialismo economico e quello culturale siano tanto pressanti da lacerare così a fondo le esistenze.

Per me, che ho scelto di passare un anno qui, è un infinito sollievo sapere di collaborare con il CVM, che ha scelto una via lunga e faticosa ma equa; un'associazione che -come ci ricorda sempre Marian- lavora “con” e non “per” i poveri e gli ultimi, nella convinzione che l'autosviluppo sia un diritto universale Se uno sviluppo giusto è possibile, non può che darsi nella condivisione e nel rispetto delle nostre identità e delle nostre differenze, soltanto con questo sereno dialogo possiamo crescere tutti e molto.

Benedetta Sercecchi
(Volontaria CVM in Servizio Civile, Etiopia)

giovedì 7 aprile 2011

L’ETIOPIA… DAL FINESTRINO


Il viaggio ha avuto nel corso della storia dell’umanità innumerevoli significati. Anche oggi, esso viene vissuto ed interpretato dalle persone in modi completamente diversi .
Da tempo il viaggiare è un modo di mutare, un metodo per cambiare la propria posizione sociale, sfuggire alla giustizia del proprio paese per reati commessi o più semplicemente trovare un lavoro per sfamare se stessi e la propria famiglia. Si può viaggiare anche oggi per fuga, alla ricerca di una propria libertà interiore, spinti dalla reazione a convenzioni sociali o da filosofie consolatorie.

Si può viaggiare per fede, come avviene nei pellegrinaggi o nelle visite ai santuari o anche per studio e ricerca. Si può viaggiare anche per raccontare, scrivere o filmare o, come avvenne all’epoca dei grandi esploratori per affascinare i lettori con storie mirabolanti delle nuove terre scoperte. Oppure lo si fa per mettersi alla prova, per sfidare la sorte, per provare l’ebbrezza del rischio.
Per me viaggiare è una passione, è quella passione che mi ha portato fino a qui, a voler conoscere nuovi Paesi, incontrare persone e culture diverse per confrontarmi con esse. Il viaggio è quindi motivo per imparare e arricchirmi scambiando le mie esperienze con quelle delle persone che incontro cercando di assorbire il più possibile della cultura locale, degli usi e dei costumi.

Anche i modi di viaggiare possono essere numerosissimi: in Etiopia per esempio puoi viaggiare in aereo, in pulman, in autobus, in auto o in minibus per le lunghe distanze, i brevi tragitti sono invece coperti con il gari (il carretto trainato da un asino) oppure a dorso di un mulo o raramente di un cavallo o ancora con i bajaj, simpatiche apecar modificate e adattate al trasporto di due o tre persone.
In Africa e in particolare in Etiopia non ha senso, però, parlare di kilometri per misurare le distanze ma piuttosto si indica appunto il mezzo di trasporto e le ore o giornate che si impiegano per raggiungere una determinata destinazione.

Il nostro viaggio etiope (come volontari in servizio civile) è iniziato ad Addis Abeba. Un percorso di un anno che ci porterà molto lontano anche nel viaggio della nostra vita.
Tra Addis Abeba e Injibara ci sono circa otto ore di macchina. Partiamo una domenica mattina all’alba, carichi di valigie, letti, materassi ma soprattutto di emozione e trepidazione. Siamo diretti verso la città o il villaggio in cui vivremo per i prossimi 10 mesi. Non stiamo nella pelle.
Alle nostre spalle lasciamo la metropoli ancora semi-addormentata ma già avvolta dai fumi e dalla nebbiolina. La macchina faticosamente arranca su Entoto e ci ritroviamo immersi tra la vegetazione. Fitta boscaglia di alberi alti e sottili ci accompagna da entrambi i lati della strada; qualche coraggioso etiope pedala affannosamente sul bordo dell’asfalto, qualcun altro più mattiniero è già sulla via del ritorno e si gode spensierato la discesa respirando a pieni polmoni gli ultimi metri di aria fresca.
Il paesaggio poi si apre e davanti a noi compare una distesa verde e dolce con qualche capanna e molto bestiame disseminato sui vasti prati che ci circondano. A mala pena riconosco la palude dove mesi fa ho trascorso un pomeriggio, all’epoca c’erano le piogge, ora la stagione secca ha modificato molto l’ambiente che ha assunto tutto un altro aspetto.
Qualche centinaio di chilometri più avanti attraversiamo Debre Libanos, famosa per il monastero e per il ponte che i portoghesi hanno costruito nel XVI secolo. Sullo sfondo si intravedono strapiombi di diversi kilometri che mozzano il fiato.
Il vero spettacolo però ci si presenta alla Gola del Nilo. Da qui pare di essere sul tetto del mondo. Questa vista mi lascia meravigliata allo stesso tempo però mi coglie un certo senso di ansia. La natura qui ti fa rendere conto di quanto piccolo e insignificante sia ciascuno di noi nell’immensità di questo nostro pianeta.

Man mano che l’auto scende giù dalla fiancata della montagna il clima si fa sempre più caldo, la strada è stretta e pericolosa, i camion la rendono ancora più difficilmente percorribile. Arrivati in fondo alla discesa ecco i ponti sul Nilo, uno, il più vecchio, è stato costruito dagli italiani, il secondo invece è stato inaugurato nel 2000 e ci accompagna dall’altro lato del Nilo Blu.
Dall’altro lato del fiume, si ricomincia faticosamente a salire. Dopo la gola il paesaggio di nuovo cambia. Ampie distese di prati verdi intervallati da macchie di boscaglia e a volte da villaggi. La strada ora si restringe ancora e a tratti diventa sterrata. Molti contadini arano i loro appezzamenti, le donne sul ciglio della strada trasportano acqua,legna o pietre, i bambini vendono frutta. Gli animali cercano ristoro sotto l’ombra di sparuti alberi che di tanto in tanto rompono la linea dell’orizzonte.

Qualche giorno più tardi mi ritrovo di nuovo in viaggio, questa volta però mi muovo con i trasporti pubblici e devo raggiungere alcuni villaggi in cui sono attivi i progetti del CVM.
Un detto africano dice che “gli africani hanno il tempo ma non hanno l’orologio”. E questo è più che mai visibile in una stazione degli autobus. La prima volta che mi è capitato di viaggiare con questi mezzi pubblici pretendevo di sapere l’orario di partenza ma sembrava che nessuno capisse, per quanto a me sembrasse semplice, la mia domanda. Solo più tardi scoprii che in Etiopia gli autobus partono quando sono pieni abbastanza. Questo va a sfatare un altro mito africano quello del “In Africa sai quando parti ma non sai quando torni”, infatti il più delle volte anche il sapere quando si partirà diventa una scommessa. Ma questo non deve spaventare. La stazione offre diversi intrattenimenti grazie alla abbondante presenza di venditori ambulanti, mendicanti e predicatori. Un pretesto qualunque poi porterà facilmente a socializzare con gli altri viaggiatori. L’accensione del motore non deve illudere però i passeggeri di una pronta partenza.
A mano a mano che il mezzo si riempie si può poi assistere a simpatici stralci della vita della popolazione locale, si viene rapiti dalle diverse tradizioni e culture di cui abiti e atteggiamenti sono impregnati.

I minibus difficilmente percorrono tragitti sulle strade sterrate, quei percorsi vengono coperti solo dagli autobus più grossi che spesso sono anche i più vecchi e malconci. Questo rende ancora più incerta la durata del viaggio.
Gli “OBAMA”, così vengono soprannominati, arrancano con fatica sulle strade raggiungendo come massima velocità i 45 km/h. Fino a qualche mese fa venivano caricati fino all’inverosimile sia a livello di numero di passeggeri sia come merci, ora il governo però ha messo un severo limite e un controllo anche a questo.
Quando finalmente si parte facendosi largo tra le tendine e i fronzoli che ricoprono i finestrini è possibile osservare dei panorami inimmaginabili. Il lento procedere dell’obama permette di osservare anche le attività della gente, dà il tempo di sbirciare dentro una porta aperta o ad una finestra senza tenda; superando un gruppo di bambini che si dirigono verso la scuola si ha la possibilità di captare qualche discorso o semplicemente di sentirli ridere. O ancora si può incrociare una mandria intera che costringe l’autista a fermarsi o il piccolo pastorello che fa attraversare le sue due magre pecorelle.
Nelle lunghe distanze si rimane affascinati dalle diverse tipologie di costruzione delle abitazioni locali, si possono vedere tukul, le tradizionali capanne circolari fatte di paglia e fango, oppure le più strutturate casette in legno e fango o ancora più rare sono le case in cemento.
Quello che personalmente mi affascina di più è la differente tipologia di recinzione che cambia visibilmente al passare da un gruppo di villaggi ad un altro a seconda della abbondanza o della scarsità di un determinato materiale in quella zona.
In alcune zone possono essere pali di legno, in altre siepi, in altre foglie di bambù intrecciato o ancora cactus.

Nel nord dell’Etiopia sono ancora visibili, abbandonati nei campi, i carri armati usati nella guerra civile del 1990 durante la battaglia dei Derge contro il governo , EPDRF . Nelle vicinanze di Bahir Dar sulla strada per Adet invece numerose sono le cave e impressionante la quantità di donne che vi lavorano trasportando le pietre prima e la ghiaia dopo il processo di triturazione.
Si può decidere di viaggiare con le tende chiuse per ripararsi dal sole cocente e dalla polvere facilmente viene alzata dagli altri mezzi. In questo modo si è al sicuro, protetti dal pericolo, incolumi dalla contaminazione e integri. Ma in questo modo sarà difficile capire cosa è l’Africa, chi sono i popoli che si incontrano, si rimane soli con se stessi, chiusi in se stessi. Io ho deciso di aprire quella tendina.
Lungo la strada o nei villaggi altri passeggeri attendono l’arrivo dell’autobus. Persone di differente estrazione sociale, culturale e religiosa, con diversi tipi di bagagli, di esigenze e di motivazioni. I punti di partenza sono diversi, le destinazioni anche. In comune c’è il bisogno di viaggiare.

Marta Bonalumi
(Volontaria CVM in Servizio Civile, Etiopia)

martedì 5 aprile 2011

Addis Abeba


Addis, grande città. Strade asfaltate, grandi palazzi. La Capitale dell’Etiopia. Ma c’è anche un’altra faccia di questa meravigliosa città. Anzi, più di una!
Solo uscendo da casa, una strada non asfaltata e tanti piccoli “negozietti” che vendono un po’ di tutto. O meglio, l’essenziale. Scendendo più in giù trovi anche chi vende quella poca verdura (pomodori, patate, cipolle) per terra. Anziani, bambini, ragazze. E poi oltre a quei grandi palazzi, tante “baracche”.
Ma voglio soffermarmi un po’ sui palazzi. Se guardi le impalcature che si usano qui per costruirli … tanti rami, legati uno all’altro.

Diventa quasi impossibile immaginare che da lì vengono fuori questi
palazzi! Impossibile che quelle stesse impalcature stiano in piedi! E se da un lato della strada ci sono questi palazzoni, dall’altra parte, ma anche tra un palazzo e l’altro, tante piccole casette fatiscenti, fatte di legno, fango e paglia, con delle lamiere al posto del tetto.

Ogni giorno scopri qualcosa di nuovo. Camminando per le strade (sono asfaltate solo quelle principali) ti capita di sentire odore di urina. “Saranno gli animali”, pensi. E invece poco più avanti vedi ragazzi, uomini di ogni età che si liberano tranquillamente dei liquidi in eccesso … giri lo sguardo e continui a camminare. Ma la città non smette mai di stupirti. È sempre la Capitale! Sui marciapiedi caprette, asini, galline e … venditori di teste e zampe di capretto! La sera, data la poca luce, devi prestare attenzione a dove metti i piedi! Potresti inciampare in quelle ossa che sono rimaste per terra. Ossa che ritroverai la mattina seguente quando ti ritroverai a ripercorrere lo stesso tragitto per andare a lavoro. E poi ragazzini sporchi, ricoperti di abiti sudici, che dormono a terra. Ragazzi di strada che non conoscono altra vita oltre all’asfalto, alla terra, alla povertà.

Tra le strade e i marciapiedi, acqua che scorre … La mia mente mi ha riportata a Parigi dove l’acqua viene fatta scorrere per pulire le strade. Ma qui non è Parigi. Siamo ad Addis Abeba, in Etiopia. Uno dei paesi più poveri al mondo. E quell’acqua non oso immaginare cosa contenga! Ma la Capitale offre anche altre risorse: l’Hilton, lo Sheraton … posti per ricconi che i locali sicuramente non frequentano.
Cammini per le strade. Tutti ti guardano. Sei sempre un bianco! Poi ci sono i bambini che ti chiamano “farengi” (straniero), altri che vogliono parlare in inglese con te e i più piccoli ti chiedono di esser presi in braccio. Ti parlano, vogliono giocare, ma tu non li capisci … il che ti fa sentire ancora più “alieno”! I più grandi ti chiamano “you!”, sperando di venderti qualcosa. Sei bianco, sei ricco. Parlano un inglese che più che “maccheronico” si potrebbe definire “etiope”. “You!, where are you go?”. Altri mischiano inglese e amarico. Puoi provare a farti capire in ogni modo. Sei un bianco. Si divertono a
prenderti in giro. Sei comunque un alieno!

Nell’aria un persistente odore di incenso e di cucina tradizionale. Il rombo degli aerei somiglia quasi al rumore del mare. E ad esso si alternano i canti di preghiera diffusi in tutta la città attraverso degli altoparlanti. Canti che “lottano” contro le preghiere e i richiami musulmani.

Nel cielo solo innumerevoli falchi. E la sera viene fuori, timida, la luna. Più luminosa della nostra. E un cielo stellato. Ricco di piccoli puntini luminosi. Tanti. Un dono che ormai in occidente abbiamo dimenticato di avere. Di apprezzare.
Fa caldo ad Addis Abeba. Ma quando il sole si nasconde dietro le nuvole, allora hai un po’ di tregua dai caldi raggi. La pioggia è solo terra. Ma qui è tutto terra. E … inquinamento.

Carola Conz (Volontaria in Servizio Civile, Etiopia)