martedì 25 gennaio 2011

Donne e Sanità (Report dall'Etiopia)


Molto spesso non sono istruite, non sanno né leggere né scrivere, difficilmente hanno modo di ricevere informazioni sanitarie, soprattutto legate all’HIV, nella maggior parte dei casi non godono di una vera libertà decisionale e di movimento per questioni di cultura come di carenza di risorse; sono indaffarate a casa e non hanno tempo per altro che non sia il lavoro nei campi, le faccende domestiche e la cura dei bambini: è la difficile condizione in cui ancora oggi vivono le donne della regione Amhara, soprattutto nelle aree rurali. Donne che non sanno quasi nulla su ciò che è bene per la loro salute, sull’importanza di recarsi da un dottore, di prendere medicine, di sottoporsi alla prevenzione, dei rischi di una gravidanza e della necessità di controlli durante i nove mesi, ma anche dei pericoli di un parto in casa e tanto meno dell’HIV, dei modi di trasmissione del virus e dei sistemi di difesa.

È innegabile che gli ultimi programmi statali come pure l’impegno di organizzazioni non governative abbiano favorito un progresso e una maggiore diffusione d’informazioni. In particolar modo nelle zone urbane si registra una presa di coscienza di tali problemi e l’adozione di comportamenti che prestano più attenzione alla salute per evitare rischi dovuti a antiquate pratiche, la diffusione di malattie come l’HIV e altre patologie sessualmente trasmissibili; ma se anche in città restano grandi sacche di popolazione ancora non adeguatamente informate o che stentano a mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti, nelle zone rurali la situazione è grave in generale e quella delle donne lo è ancora di più. Basta fare un giro per le aree di campagna e parlare con chi vi abita, per avere la conferma che il gap di conoscenze al livello base della comunità è enorme. E il problema è che circa l’85% della popolazione etiope vive nelle zone rurali, di cui una buona fetta in aree remote difficilmente raggiungibili.

Come ribadiscono gli esperti, medici, responsabili degli uffici sanitari, health extentional worker (donne formate per fornire informazioni porta a porta), in generale la conoscenza delle donne nelle zone rurali in merito a questioni sanitarie e soprattutto su HIV/AIDS è molto bassa e sicuramente minore rispetto a quella degli uomini, in quanto la componente femminile della comunità è più difficile da coinvolgere nei training e comunque meno raggiungibile con campagne informative: le donne sono spesso oberate di lavoro nei campi e in casa e si spostano meno frequentemente degli uomini; per cui, ad esempio, hanno meno possibilità di entrare in contatto con i VCT Center (Centri per la consulta e il test volontari sull’HIV) itineranti o con altri mezzi di informazione; inoltre, hanno meno tempo per frequentare i corsi e spesso devono chiedere il permesso al marito, non sempre favorevole. Bisogna sempre considerare la condizione di inferiorità in cui la cultura fin dal passato ha posto le donne e che è tutt’ora prevalente nelle zone periferiche. La moglie in molti casi non è libera di scegliere se partecipare a un incontro o meno, deve chiedere l’autorizzazione al marito che sovente si oppone, a volte per paura che lei incontri un altro uomo, mentre altri per la convinzione che il suo posto sia in casa. Spesso, poi, le comunicazioni dei corsi e degli incontri vengono gestite a livello di kebele dove, non di rado, gli impiegati continuano ad indirizzarle ai maschi della famiglia perché legati alla visione tradizionale dei ruoli. D’altronde, è anche vero che sovente è la componente femminile della popolazione in primis a non essere disposta a lasciarsi coinvolgere in queste attività, adducendo come motivazione l’eccessivo lavoro in casa. C’è poi l’aspetto ‘sentimento di inferiorità’ che, interiorizzato dalle donne, impedisce loro di farsi avanti in molti casi anche quando hanno bisogno di aiuto. Infine, va considerato che molte zone sono concretamente difficili da raggiungere perché non vi sono vie di comunicazione perciò, restando le donne in casa, sono meno esposte alle informazioni. L’uomo, invece, ha più libertà di movimento, è di solito quello che partecipa ai training e, frequentando più spesso le città, ha più opportunità di ricevere un’educazione, seppur minima, anche perché ha più occasioni di ascoltare la radio e guardare la televisione, non diffuse in campagna.

Il problema è che, anche se qualche informazione arriva ai soggetti, dalla semplice ricezione all’interiorizzazione e all’adozione del relativo comportamento ce ne passa. Per eliminare pratiche antiche e pericolose occorre molto tempo, non basta qualche incontro o qualche visita a casa dell’extentional worker, soprattutto tenendo in considerazione quanto detto sopra e il basso livello di istruzione delle donne. Oltre che sistematicità nel diffondere informazioni serve anche accuratezza e qualità, aspetti che a volte sembrano mancare. Spesso, infatti, parlando con le persone nelle zone rurali ci si rende conto che, seppur sporadicamente, sono entrate in contatto con esperti, infermiere o soggetti formati per impartire nozioni di educazione sanitaria, ma che non hanno recepito il messaggio che veniva loro trasmesso, forse perché non chiaro: Birtukan Geremew, residente nella woreda rurale di Gozzamen, ad esempio, è madre di tre figli, non si è mai sottoposta alle cure antinatali durante le gravidanze, neanche per l’ultimo nato che ha dieci mesi, e solo uno dei suoi bambini ha visto la luce in un health post (un piccolo ambulatorio che di solito si trova nelle zone rurali, il livello più basso dei servizi sanitari) perché durante il parto, che come gli altri doveva aver luogo in casa, ci sono state complicazioni. Non sa assolutamente nulla di HIV e tanto meno dei modi di trasmissione madre-figlio però, a quanto riferisce, in casa sua si sono recate le health extentional worker: “Sono venute e hanno parlato di sanità, hanno detto qualcosa anche sull’HIV ma non ho capito niente”, spiega molto sinceramente. Dice che durante ogni gravidanza si è recata all’health post per le vaccinazioni che si debbono fare durante i nove mesi, ma non ha mai fatto altri tipi di controlli o il test dell’HIV. Nessuno le ha consigliato il servizio ANC (Anti Natal Care), l’esame del sangue o le altre visite necessarie quando una donna è in stato interessante, per il suo benessere e quello del feto. “Non ho mai avuto problemi durante le gravidanze, perché andare a fare altri controlli medici?”, commenta tranquilla, aggiungendo che in generale, solo in casi di disturbi prolungati e molto forti o di grossi incidenti, si reca da un dottore, mentre di solito si cura da sola o dai guaritori tradizionali. Stupisce sentire che, nonostante sia stata più volte all’health post per i vaccini, non è stata mai spronata a fare altri controlli; viene da chiedersi come sia possibile. Purtroppo non è l’unica donna nelle zone rurali che racconta di essere andata in ambulatorio durante la gravidanza ma di non aver ricevuto informazioni in merito alle cure antinatali o al test dell’HIV. Avanzare giudizi non è corretto, ma il sospetto che nei piccoli centri sanitari dei kebele di campagna la qualità del servizio e la preparazione del personale non siano adeguati sorge piuttosto spontaneo. Ad avallare questa ipotesi sono anche le considerazioni di Mulugeta Asmare, a capo dell’ufficio della zona East Gojjam del Dipartimento di salute, che sottolinea come ci sia una forte carenza di training per le health extentional worker e come, di conseguenza, non vengano adeguatamente usate le risorse umane del territorio (...).

WIDIE, l'orfana di Tilili


Widie Mossie ha dodici anni ma ne dimostra appena la metà, non è molto alta e per la sua età è piuttosto minuta, anche se il vestitino che indossa lascia vedere una pancia troppo gonfia, forse causa della malnutrizione o di una brutta malattia che di recente l’ha costretta a letto, ma di cui non riesce a spiegarci i sintomi. La incontriamo in una delle stanze usate per il progetto di sheltering messo in atto dal CVM a Tilili, nell’Awi, una delle zone della regione Amhara, Etiopia. Il programma coinvolge un gruppetto di ragazzini orfani o che precedentemente vivevano in strada, comunque in condizioni indicibili: per tre mesi i bambini, la cui età massima è 14 anni, vivono insieme in una struttura messa a disposizione dall’ONG, con una persona che si occupa di preparare il cibo e di soddisfare i loro bisogni primari. Nel frattempo, seguono corsi sull’HIV e su altre importanti tematiche, vengono reinseriti a scuola se avevano smesso di studiare, ma sono anche supportati psicologicamente. Mentre i piccoli vivono insieme e ricevono un’educazione, l’ONG lavora al fine di ricongiungerli con le loro famiglie, genitori se ancora in vita o altri parenti che si vogliano occupare di loro, spesso aiutandoli con una piccola IGA (Income generating activity, cioè attività generatrice di reddito), affinché siano in grado di prendersi effettivamente cura di quelle creature.

Widie Mossie non viveva in strada, come molti dei compagni con cui condivide ora le sue giornate, era ospite a casa della zia, una donna anziana e povera per la quale non era semplice occuparsi di lei. Non ha mai conosciuto sua madre, la zia le ha raccontato che dopo aver partorito se n’è andata senza far più avere sue notizie e lei non ha chiesto ad altri informazioni, nemmeno al padre per paura. Quest’ultimo fino a qualche anno fa viveva con la figlia, ma da un po’ sembra non riesca a mettere insieme i soldi sufficienti per la loro sopravvivenza e spesso si sposta in lontane città alla ricerca di lavori redditizi. Durante questi viaggi, a volte molto lunghi, non porta mai con sé la ragazzina, lasciandola da parenti o da chi può tenerla come domestica. Widie aveva anche due fratelli: uno è morto qualche mese prima del nostro incontro e dell’altro non ha saputo più nulla: “Non so bene cosa sia successo – racconta incerta -, so che un cane ha morso mio fratello, il più grande, ma non ho capito se questa è stata la causa della sua morte. L’altro ora non so dove sia”.

Lei comunque già da parecchio non viveva con loro, fino a tre anni fa è stata da sola con suo padre: “Avevamo un piccolo tukul (l’abitazione tradizionale che si trova soprattutto nelle aree rurali), io mi occupavo dei lavori in casa come cucinare e pulire, mentre mio padre spaccava e vendeva la legna. Avevamo anche un piccolo terreno che affittavamo”. A quel tempo, Widie aveva già l’età per andare a scuola ma non era stata iscritta: “Mio padre non mi ci aveva mandata – precisa senza polemica né amarezza – ma comunque neanche io ero disposta a seguire le lezioni, anche se lui me lo avesse permesso, avevo troppe cose da fare in casa, non avevo tempo per lo studio”. Secondo quanto racconta la ragazzina, a complicare le loro vite, già di per sé in precario equilibrio, c’erano anche le condizioni pessime in cui era ridotta la loro abitazione, molto vecchia e tutta rotta. “Per questo mio padre decise che ce ne dovevamo andare – prosegue sempre con il volto serio -. Mi disse che sarebbe stato via per qualche mese per lavorare e guadagnare i soldi per costruire una nuova casa”. Così l’uomo lasciò Widie da una famiglia che lei non conosceva, con la promessa che sarebbe tornato dopo non molto a riprenderla. Quelle parole avevano rassicurato la bambina, che in un primo momento non soffrì particolarmente per quella sorta di abbandono e cercò di adattarsi al meglio alla nuova situazione. Il suo compito, nella nuova casa, era quello di occuparsi del figlio appena nato dei padroni: nonostante la sua corporatura mingherlina, trascorreva le giornate con quel fagottino legato sulla schiena, come le donne etiopi portano di solito i figli. “Oltre a guardare il bambino dovevo anche procurare l’acqua alla famiglia andandola a prendere al fiume”. Ovviamente non era previsto che andasse a scuola. In cambio dei lavori che svolgeva, c’erano cibo e un posto per dormire, ma nessun salario: “Il cibo per me bastava – dice con un filo di voce e lo sguardo intimorito – e mi diedero anche un vestito. I datori di lavoro non erano cattivi e all’inizio non avevo problemi, ero tranquilla perché sapevo che mio padre sarebbe tornato a breve e avremmo costruito una nuova casa”. Quella promessa però si rivelò una bugia, facendo soffrire enormemente la piccola, come lei stessa ammette con uno sguardo di profonda tristezza. Col tempo anche le mansioni affidatele, che in un primo momento svolgeva senza grosse difficoltà, diventarono pesanti, quasi insopportabili: “Ero stanca di dover sempre tenere il bambino sulla schiena, spesso provavo un forte dolore”, anche perché il piccolo stava crescendo e alla fine raggiunse l’età di un anno. Dovettero infatti passare circa dodici mesi prima che il padre si rifacesse vivo con lei e quando lo fece non era per portarla nella loro nuovo casa, ma da alcuni parenti dove insieme rimasero per circa una settimana. Non era quella, infatti, la loro sistemazione definitiva, in verità un posto tutto loro dove vivere non c’era ancora. Il padre era di nuovo in partenza e lei si sarebbe trasferita da altri parenti, dalla zia con la quale ha vissuto fino a qualche mese prima di entrare nell’alloggio del CVM: “Mia cugina mi venne a prendere e mi portò a casa di mia zia. Io volevo vivere con mio padre, con lui sto bene anche se mi picchia quando faccio qualcosa di sbagliato. Ma è un buon padre, purtroppo però è molto povero – spiega con tanta rassegnazione, che stona su un volto così giovane -. Andai a vivere da mia zia perché lui doveva spostarsi in un’altra città lontana dove poteva trovare qualche lavoro giornaliero”. Così Widie si trasferì di nuovo in una casa che non era la sua, ancora senza il padre col quale desidera tanto vivere e che ora incontra “solo qualche volta”. Anche quella sistemazione, però, era precaria, viste le condizioni economiche della donna che la ospitava. La zia di Widie è divorziata, ha cinque figlie di cui solo due, ormai grandi, vivono con lei; si mantiene preparando alcool in casa e vendendolo nei mercati, ma i guadagni sono miseri. Alla nipotina non ha mai chiesto di lavorare per racimolare soldi, ma semplicemente di dare una mano in casa e di raccogliere la legna per i bisogni della famiglia. Con lei non è brusca e Widie si trova bene; anche con i due cugini, specie con la femmina ha un buon rapporto e si sente accettata: “Sono come fratelli per me – precisa sorridendo, spalancando i grandi occhi -, mia cugina quando riesce a comprare qualcosa lo divide sempre con me”. Nonostante non si senta un’estranea, anche lì ha dovuto fare i conti con la miseria: “Il cibo bastava solo per la colazione e la cena, ma non ne avevamo per il pranzo”, precisa abbassando lo sguardo. Vista la situazione era scontato che la sua istruzione dovesse di nuovo aspettare, era inimmaginabile che potesse andare a scuola visto che neanche mangiare era una cosa semplice e sempre possibile: “Non c’erano i soldi per farmi studiare. Non bastavano neanche per l’istruzione dei figli di mia zia, solo uno di loro infatti è andato a scuola; l’altro si era dovuto mettere a lavorare presto, stira gli abiti per guadagnare soldi”, ammette vergognosa.
È rimasta circa un anno e sei mesi ospite da loro, poi è venuta a sapere dei progetti avviati dall’ufficio del CVM di Injibara, non molto distante da Tilili, dove viveva con la zia: è stato un amico del cugino che lavora all’ospedale a parlargliene e così si è fatta avanti; è stata selezionata ed ora vive con altri ragazzini sfortunati come lei. Di questo progetto la cosa che apprezza di più è sicuramente la possibilità di avere tutti i pasti di cui abbisogna: “Mangiamo regolarmente – ammette con una certa contentezza, mascherata comunque da una grande timidezza – prima il cibo non bastava mai. Ora ho anche degli abiti, prima ne avevo solo uno. Mi posso anche lavare, mentre prima di venire qui potevo farmi la doccia solo una volta al mese. Inoltre, posso andare a scuola”. Quest’anno, infatti, Widie ha finalmente cominciato a studiare ed è una cosa di cui è sinceramente grata al CVM. Anche vivere insieme agli altri ragazzini le piace: con loro dice che c’è un buon rapporto, anche se poi ammette che preferisce stare con l’altra femmina del gruppo e un po’ meno con i maschietti.

Purtroppo però anche lì, dove sembrava aver trovato un po’ di pace, ha dovuto affrontare un nuovo problema: la malattia che l’ha costretta a letto per oltre due settimane. Purtroppo, spiega, serviva un ricovero in ospedale ma, a quanto pare, la woreda (unità amministrativa territoriale) che collabora con il CVM e che dovrebbe coprire le spese mediche per i bambini del progetto, non poteva pagare costi troppo alti e lei si è potuta rivolgere solo al centro ambulatoriale. Ora, precisa seria, “sta meglio”, ma di cosa abbia sofferto resta un mistero.


Camilla Corradini (Volontaria CVM in Etiopia)

lunedì 3 gennaio 2011

Contro la strategia di Alqaeda amore e dialogo


La strage di cristiani in Egitto è un’evoluzione della strategia del fondamentalismo che passa dall’attacco al cuore delle nazioni occidentali ai cristiani che vivono fra i musulmani, indicandoli come “collaborazionisti dell’Occidente” per il semplice fatto di essere cristiani.
Poter trasformare una qualsiasi lotta in “guerra di religione” è il modo migliore per assicurarsi il continuo ricambio di combattenti e martiri. Lo sanno bene irlandesi, indiani, e quant’altri.
La risposta del mondo occidentale non può essere quella di levare gli scudi in difesa dei cristiani colpiti, ed irrigidendosi con i musulmani che vivono nei paesi occidentali, perché questo è esattamente quello che i fondamentalisti auspicano, e serve ad alimentare l’idea che è in atto uno scontro tra religioni.
È il momento per unire le forze, raccogliendo le buone intenzioni di tutte le persone veramente religiose, far crescere il dialogo con tutti coloro che sono interessati a dialogare, di qualsiasi religione essi siano.
In questo modo sarà possibile dimostrare che le Religioni sono per la Pace, che il desiderio di Pace è comune a tutte le Fedi e che chi non ama la pace non ha niente a che fare con la Religione, quale che sia il Credo a cui appartiene.

Attilio Ascani (Direttore CVM)

LA BIRUH TESFA CONQUISTA LO STADIO DI DEBRE MARKOS


Intensa domenica di sport a Debre Markos, nella zona East Gojjam della regione Amhara (Etiopia), per gli orfani e i bambini poveri supportati dal CVM: allo stadio della città sono scesi in campo i giocatori delle squadre di calcio maschile e femminile. Per quanto concerne i ragazzini, si tratta del team della Biruh Tesfa (l’associazione di orfani) di Debre Markos e di quello degli orfani di Lumani, altra città della zona East Gojjam dove l’ONG italiana è fortemente impegnata nell’aiuto ai bambini soli e poveri; la terza formazione era quella delle bambine. Una squadra nata recentemente grazie ad un aiuto speciale giunto dall’Italia: la società di calcio civitanovese Real Muscolina ha infatti inviato in Etiopia le mute per un intero team, allenatore compreso. Sono state alcune bambine dell’associazione Biruh Tesfa a ricevere il graditissimo regalo ed ora, euforiche, ce la stanno mettendo tutta per diventare delle brave calciatrici. In una domenica soleggiata sono scese in campo per la prima uscita ufficiale davanti al pubblico dello stadio cittadino, dopo solo poche settimane di allenamento. Non sono ancora pronte per una sfida da novanta minuti in piena regola, ci sono diverse lacune tecniche da colmare e, per non farle scoraggiare, è stata organizzata una partita fra due rappresentative del team, rinforzate da alcune giocatrici più esperte di un’altra squadra. Nelle loro divise giallo-blu hanno dato il meglio, senza dare segni di cedimento e facendosi sotto come furie. Alla fine al risultato non ha badato nessuno, tanta la gioia di giocare sul grande campo cittadino davanti ai tifosi. Subito dopo il loro match, si è svolta l’avvincente sfida tra le squadre maschili di Debre Markos e di Lumami, finita in parità. A guidare i ragazzi con i suoi preziosi consigli il direttore tecnico nonché capitano di polizia Joannes Beyene, affiancato dal mister Geremew Esubalew, anche lui membro della Biruh Tesfa.
Per tutto il tempo, dagli spalti arrivavano le grida e i cori di tutti gli altri ragazzini orfani aiutati dal CVM, accorsi allo stadio per supportare i compagni. Per finire in bellezza un grande pranzo tutti insieme alla stazione di polizia, partner importante del CVM nelle attività che concernono i bambini, con tanto di premiazione per i migliori in campo. Giornate come oggi sono veramente speciali per questi bambini, che devono crescere troppo in fretta e che non hanno molte occasioni per dimenticare i loro problemi e pensare solo a divertirsi. Lo sport poi li aiuta a crescere, ad imparare il rispetto reciproco e li tiene lontani dalla strada e dai rischi ad essa connessi; per questo l’ONG italiana insieme ai suoi collaboratori locali, uffici governativi e polizia, dedica molta attenzione a questo genere di attività quando aiuta i più piccoli.

Camilla Corradini (Volontaria CVM in Etiopia)

Equilibristi per costruire palazzi


Alzi la testa e li vedi, a dieci, venti e forse più metri di altezza, abbarbicati senza nessuna protezione su impalcature fatte di sottili e storti bastoni, che definirle precarie e pericolose è un eufemismo; camminano su quei rami traballanti, siedono a cavalcioni su di essi sospesi nel vuoto, senza niente che garantisca un minimo di sicurezza: sono i lavoratori giornalieri impiegati nella costruzione di edifici e mura di sostentamento. Uomini e donne, anche giovanissimi, che ogni giorno si improvvisano ‘equilibristi’ e faticano in condizioni disumane al fine di guadagnarsi il necessario per sopravvivere.

La prima volta che ad Addis Abeba, appena arrivata, ho visto quelle impalcature non credevo ai miei occhi, mi sembrava impossibile che quelli fossero veramente i ponteggi e le armature usate per tirare su edifici anche di parecchi piani. Come potevano gli operai camminare lì sopra, trasportarvi materiali, costruire muri e quant’altro? Purtroppo, però, non era uno scherzo della mia vista, ma la semplice e scioccante realtà e, se nella capitale qualche struttura in ferro si vede, nei centri più piccoli c’è solo legna: sottili bastoni incastrati tra loro e tenuti insieme solo da normalissime corde fanno da supporto ai manovali nella costruzione degli edifici. Non c’è nulla che fissi veramente quel groviglio di pali storti, non ci sono teli, né reti. Quelle impalcature stanno lì per mesi, a volte anni, perché specie nelle città maggiori della regione Amhara i cantieri sorgono come funghi ma spesso restano aperti per lunghi periodi, anche in eterno, così la pioggia e la grandine hanno tutto il tempo di infradiciare il legno rendendolo ancora più pericoloso e cedevole. Su quelle trappole che svettano nel cielo salgono uomini e donne di qualsiasi età, di norma persone che non hanno trovato un’occupazione fissa e, per guadagnarsi il necessario per sopravvivere, si danno da fare come lavoratori a giornata nei cantieri. Spesso si tratta di gente molto povera, che non ha altre fonti di guadagno per sostenersi e sfamare i figli; sono operai, a volte senza esperienza, sovente provengono da aree rurali e nella maggior parte dei casi non hanno un’istruzione, spesso sono del tutto analfabeti. Tra loro compaiono però anche tantissime ragazzine, di appena 14 o 15 anni, che grazie a questo lavoro sperano di riuscire a mettere da parte i soldi necessari per completare gli studi e arrivare fino all’università. Quelle attività giornaliere permettono loro di non perdere le lezioni in quanto possono lavorare quando le scuole sono chiuse. Se agli occhi di un occidentale vedere signore e ragazze coinvolte in questo tipo di mansioni appare molto strano, qui è del tutto normale. Sono questi disperati le risorse umane del settore edile, che si tratti di opere pubbliche come private, della costruzione di palazzi o della realizzazione di mura e piazzali, la situazione non cambia e i problemi di sicurezza e la fatica restano pressoché immutati. La risistemazione e la piastrellizzazione della piazza centrale di Debre Markos nella zona Eat Gojjam della regione Amhara, avvenuta durante la mia permanenza in questa città, è stata ad esempio quasi completamente opera di donne che per otto ore al giorno trasportavano a mano i sampietrini su rozze portantine e passavano ore piegate a sistemarli in terra. Ma strade e piazze non sono i loro unici campi di impiego, come gli uomini fanno anche i ‘muratori’ per erigere case e palazzi. Così anche loro si mettono in fila, la mattina presto, nei pressi dei cantieri insieme a tutti gli altri aspiranti manovali: folti gruppi di bisognosi che sperano di essere scelti per quel giorno di lavoro e per quelli successivi. Di norma non ci sono veri contratti e non c’è modo di garantirsi un impiego per lunghi periodi. E questo è solo uno dei problemi che gli operai del settore devono affrontare.
Se la semplice vista dell’impalcatura lascia già attoniti, osservarli all’opera è scioccante e conoscere le condizioni di quell’occupazione suscita indignazione. Non si tratta di lavoro ma di sfruttamento e totale mancanza di rispetto dei diritti umani innanzitutto, e di quelli dei lavoratori in secondo luogo. Non basta, in effetti, la precarietà di ponteggi e armature, c’è molto altro che mette continuamente a rischio la loro vita. Gli operai non indossano tute, ma gli abiti che usano quotidianamente, e nel caso delle donne lunghe gonne. Secondo le prescrizioni della cultura locale la componente femminile della popolazione non dovrebbe infatti portare pantaloni, se nelle città non è più ovviamente così, per chi proviene dalla campagna, come la maggior parte di questi lavoranti, tale norma culturale è ancora ampiamente rispettata e le donne mantengono i loro abiti, totalmente inadatti, anche quando sono occupate nei cantieri. Muoversi su quelle impalcature e nel caos del cantiere, un vero ammasso di materiali di ogni tipo buttati alla rinfusa che limitano ancora di più lo spazio di azione, è già complicato e azzardato, figurarsi farlo con gonne larghe che potrebbero impigliarsi ovunque. C’è poi l’elemento imbarazzo: i colleghi che lavorano nei piani bassi possono sbirciare sotto le gonne e questo crea tensioni e timori per le manovali che mettono ancora più a rischio la loro vita tentando di tenere strette le gonne, rendendo più incerti i loro movimenti e distraendosi più facilmente. Non è inusuale che questo comporti incidenti.

Le tute quindi non ci sono, ma neanche scarponi, corde di sicurezza e tantomeno caschi o guanti. Ai piedi indossano le scarpe di tutti i giorni, chi le ha, e spesso sono calzature in plastica deformate e scadenti o modelli sportivi di pessima qualità che si sfaldano come niente. Qualsiasi tipo di mansione è svolta a mani nude, indipendentemente dal tipo di attività e dalle condizioni atmosferiche e in alcune aree il freddo, specie nella stagione estiva, è pungente. Niente protegge la testa dai materiali che possono cadere. I pericoli sono continui, gli incidenti all’ordine del giorno e i crolli frequentissimi. Pochi mesi dopo il mio arrivo in Etiopia, a Bahir Dar, capoluogo della regione Amhara nonché importante centro commerciale e turistico, un’impalcatura in legno ha ceduto e tutti gli operai che vi lavoravano, quasi un’ottantina, sono precipitati da diversi metri di altezza, venti sono morti. Una tragedia, ma non è certo l’unica. Per qualche giorno il problema delle condizioni di lavoro di questi manovali a giornata è diventato improvvisamente d’attualità, come se venisse scoperto in quel momento. Ma di fatto nulla è cambiato, qualche emittente radiofonica ne ha parlato ma senza individuare le responsabilità del governo, e in concreto tutto è rimasto come prima e le condizioni di lavoro sono sempre le stesse, precarie e disumane. Attualmente per la costruzione dello stesso edificio è stata innalzata un’altra impalcatura, simile alla precedente, anche questa senza nessun sistema di protezione e gli operi continuano ad arrampicarcisi come fossero scimmie sugli alberi, senza corde e a mani nude.
Quando gli incidenti accadono per i manovali si mette veramente male, perché spesso non godono di nessuna assicurazione e di nessun supporto economico. Come detto sopra, nella maggior parte dei casi non vengono assunti con contratti regolari e questo li esclude da qualsiasi tutela e li priva dei diritti riconosciuti per legge ad ogni lavoratore. “È un po’ che faccio il muratore nei cantieri ma non ho mai avuto un contratto, nessuno ce l’ha in questo tipo di occupazione – dichiara quasi stupito della mia domanda sui contratti Tigabu Salhe, appena sceso dal palazzo con le mani e i vesti coperti di polvere e cemento -. Non ho neanche un’assicurazione, ma queste sono le condizioni: se vuoi guadagnarti i soldi per mangiare devi accettare, altrimenti resti senza cibo”. Ho girato diversi cantieri e diverse località della regione Amhara ma le risposte son sempre le stesse: niente contratto. “Non c’è nessuno accordo scritto – dice Yeyenesh Anitenhe che dopo esser stata bocciata a scuola ha cominciato a lavorare nei cantieri – non ce l’ho mai avuto, avviene tutto oralmente, il capo mi dice per quanti giorni posso venire e io mi presento la mattina presto e lavoro”. La stessa cosa la ripete anche la sua collega, Wibalem Geremew, da poco giunta dalla campagna in città per frequentare una scuola serale e solo da tre mesi muratore nei cantieri: “Questo lavoro mi permette di seguire le lezioni quindi mi va bene, non saprei cos’altro fare. Non ho un contratto e non so cosa succederebbe in caso di infortunio. In questi pochi mesi di lavoro non mi è mai successo nulla di serio, solo graffi e ferite a mani e a braccia. Ma non so se la ditta copre i costi di un incidente, non ho chiesto, non so che si deve chiedere, su queste cose non sono informata”, precisa senza vergogna.

Perché il problema è anche questo: le quasi inesistenti conoscenze in materia di diritti dei lavoratori. Se è vero che la maggior parte sono talmente poveri da dover accettar ogni condizione pur di avere un posto e racimolare qualche soldo, è anche vero che la molti comunque non sono neanche consapevoli dell’importanza di un contratto, di un’assicurazione e di cosa gli spetta in quanto esseri umani e lavoratori. “Non ci voglio neanche pensare a cosa succederebbe in caso di incidente, perché non saprei proprio cosa fare. Cerco di prendermi cura di me stessa quando sono al cantiere e di non farmi male”, conclude Wibalem. La necessità di un lavoro e i timori di rimanerne senza spesso spinge a non chiedere neanche quando qualche nozione in più la si ha, come è accaduto a Sintayemu Getmachen: “Un paio di settimane fa sono caduta e mi son ferita ad un ginocchio. Son dovuta ad andare in clinica per farmi curare e per un po’ non ho lavorato, ma non ho chiesto il risarcimento o l’assicurazione. Il capocantiere però sa che son caduta ma non mi è venuto a dire nulla, ha fatto finta di niente”. Purtroppo la totale noncuranza dei responsabili sembra essere la norma, quando non diventa un chiaro e netto rifiuto alle richieste di aiuto. E non fa differenza che si tratti di piccoli infortuni o incidenti più gravi: “Durante il lavoro un grosso pezzo di ferro mi è piombato sul braccio e mi ha causato una grossa ferita – spiega Yonas Liates, mostrando una vistosa cicatrice sul braccio destro – ma nessuno ha pagato per me, mi sono dovuto accollare le spese delle cure: 150 birr (al cambio attuale, circa € 7,50), praticamente una settimana di lavoro. Tutto sommato mi è andata bene. Un mio conoscente tempo fa è precipitato dall’impalcatura finendo infilzato su un palo, ed è morto. La sua famiglia non ha ricevuto nessun risarcimento”. Così nel caso di infortuni il muratore si trova, in genere, a doversi caricare di tutte le spese per le cure necessarie, anche quando si tratta di costi elevati che molto spesso non è neanche in grado di coprire; non riceve nessun indennizzo e per di più, essendo ferito e magari impossibilitato a lavorare, non ha neanche uno stipendio e in velocità viene rimpiazzato nel cantiere perdendo il posto. I diritti e la persona, in generale, vengono totalmente calpestati. I datori di lavoro possono permettersi questo sconsiderato comportamento in quanto sanno benissimo che, data l’estrema povertà della maggior parte della popolazione etiope, ci sarà sempre molta gente disposta ad accettare queste condizioni disumane pur di guadagnare, ciò infonde ampia sicurezza ai proprietari e responsabili dei cantieri che sanno di poter contare su una folla di bisognosi e disperati. Anche se qualcuno dovesse ribellarsi o lasciare il posto, loro avranno sempre altri su cui contare. Ovviamente ci sono delle eccezioni, ma sono rare: “Nei cantieri governativi – aggiunge Yonas Liates – c’è un po’ più di attenzione, in alcuni casi la copertura delle spese mediche e una sorta di rimborso in caso di infortuni te lo danno, anche se non so quanto sia appropriato. Ma ci sono pochi cantieri così, nella maggior parte dei casi i lavori sono gestiti da compagnie private dove raramente tirano fuori i soldi in caso di incidente”. A quanto pare, metter mano al portafogli diventa complicato pure per pagare gli stipendi. Intanto, va detto che i salari sono molto bassi, soprattutto se si pensa alla fatica e ai rischi che i manovali si devono sobbarcare: di norma percepiscono intorno a 15 ETB al giorno (meno di 1 euro), che nei centri più grandi possono arrivare anche a 20 ma solo per gli uomini, che si accollano le mansioni più pesanti; per le donne il massimo è di 18 ETB e comunque non spesso. Non ci sono stati aumenti neanche in seguito al crollo della valuta locale, che ha visto un considerevole innalzamento del costo della vita. Queste cifre non permettono certo di condurre una vita agiata, ma giusto di sopravvivere e poter sfamare la propria famiglia. La consegna dello stipendio, poi, non sempre è puntuale e a volte neanche certa, a quanto pare: “Di solito pagano ogni due settimane o alla fine del mese, indipendentemente da quanto a lungo hai lavorato. Anche se ti hanno preso solo per due o tre giornate devi aspettare il momento degli stipendi, ma sono diverse le compagnie che rimandano sempre e alla fine non pagano”, precisa Yonas Liates. La conferma arriva anche da Yeshareg Yinager, che da diversi anni si mantiene facendo la lavoratrice a giornata: “A volte nelle compagnie private prendi accordi con un tipo che poi non si fa più vedere e quando è il momento di riscuotere i soldi che ti spettano, e torni al cantiere magari dopo che hai smesso di lavorarci, lui è scomparso e tu non sai a chi chiedere e rischi di non prendere niente”. Nonostante lo sappia lei, però, continua a fare questo mestiere: “Ci sono dei pericoli, l’incognita dello stipendio a volte ed è pure un lavoro pesante ma si trova abbastanza facilmente, i cantieri sono diversi e la richiesta di manovali alta. Io non saprei che altro lavoro fare”. “La mia famiglia è molto povera, bisogno di lavorare, ma non ho finito a studiare, che altra occupazione potrei trovare? Non voglio fare la domestica o lavorare come cameriera in un bar (che spesso implica anche vendersi come prostituta), con questa attività posso mantenermi”, aggiunge Sintayemus Getmachew. Questo discorso vale per lei come per tanti altri, maschi o femmine che siano, senza professionalità da offrire ma con un grande bisogno di soldi, magari bambini a casa da sfamare e nessun’altra entrata. Perciò si va poco per il sottile e si rischia.

Purtroppo nonostante i tanti problemi del settore e i continui incidenti che dimostrano la necessità di un intervento, la situazione è questa da anni e non sembra, per il momento, destinata a migliorare. La gente ha bisogno di lavorare e continuerà ad arrampicarsi su impalcature fatiscenti pur di mettere qualcosa in tavola la sera o di realizzare il sogno di poter studiare. I responsabili e i proprietari dei cantieri continueranno ad approfittare di questa situazione sicuri che nessuno verrà a creare loro problemi. Servirebbero maggiori controlli, ma purtroppo sulla loro validità verrebbe probabilmente ad incidere l’alto livello di corruzione che si registra in Etiopia. D’altronde è difficile pure che vengano emesse nuove norme che prestino più attenzione ai lavoratori a giornata, dato che negli ultimi anni gran parte del corpo legislativo è stato rivisto e niente è stato fatto per questo settore. Se l’impegno che investono nel mettere in programma la costruzione di palazzi e la solerzia con cui avviano cantieri, che diventano nella mentalità collettiva l’emblema dello sviluppo del paese, venissero dedicati al rispetto dei diritti dell’essere umano e del lavoratore, la crescita dello Stato forse sarebbe meno ricca di edifici semi-costruiti ma più reale.

Camilla Corradini (Volontaria CVM in Etiopia)