mercoledì 27 gennaio 2010

Oggi ho conosciuto Baraka

Baraka ha 18 anni e vive attualmente in un piccolo villaggio, Makumira, 20 kilometri a nord di Arusha. Insieme ad altri trentasei ragazzi fra i tredici e i diciannove anni è ospite, da qualche anno, di una fondazione che opera sul territorio tanzaniano, cercando di garantire un futuro a quelli comunemente conosciuti come “bambini di strada”, ma che in Kiswahili vengono chiamati più generalmente “Watoto ambao wanaishi katika mazingina magumu” (bambini che vivono in condizioni difficili).

Sono all’incirca 500 i ragazzini che si muovono per le strade di Arusha sviluppando ogni giorno nuove strategie di sopravvivenza, che spesso li conducono ad attività criminali, all’utilizzo di droghe o più in generale ad attività a rischio, aumentando le loro possibilità di contrarre l’HIV. Li caratterizzano storie diverse, ma con aspetti tristemente comuni: povertà, abusi, perdita di famigliari. Vivono alla giornata con l’unico obiettivo di trovare del cibo ed un luogo in cui poter dormire indisturbati. Obiettivo facilmente raggiunto grazie all’elemosina dei passanti, spesso turisti occidentali, che credono di fare del bene lasciando cadere qualche scellino nelle loro mani, ma che sono fortemente criticati dalle varie organizzazione che operano nel tentativo di garantire ai ragazzini una sorte migliore. La facilità nell’ottenere il minimo indispensabile per sopravvivere di giorno in giorno fa infatti sì che accettino la loro condizione, senza cercare soluzioni migliori o farsi aiutare dalle organizzazioni presenti sul territorio, per cambiare il proprio destino.

Baraka è tra i più grandi dei ragazzini ospitati dalla fondazione e mi accoglie con un sorriso, prendendomi per mano: mi mostrerà il luogo in cui vive e dal quale spera di poter uscire con qualche opportunità in più di quando vi è entrato. Qui, infatti, in quello che mi presenta come Vocational Training Center, ha la possibilità di studiare ed imparare un mestiere, ma anche la garanzia che l’organizzazione lo aiuterà a trovare un lavoro alla fine dei tre anni previsti di presenza all’interno del centro. Gli studenti frequentano quattro ore di lezione ogni mattina e sono divisi per classi in base al loro livello di conoscenza. La maggior parte assiste a lezioni che corrispondono a quelle che si tengono alle scuole elementari tanzaniane (Standard Seven) e ha, in seguito, la possibilità di sostenere l’esame finale riconosciuto a livello statale. Alcuni, i più bravi, si preparano per frequentare la scuola secondaria (Form I – Form IV), che frequenteranno in un secondo momento in una scuola pubblica auto-sostenendosi e le cui tasse vengono coperte dal centro. Passiamo davanti alle classi dialogando in quello che si potrebbe definire un ottimo “Kisenglish” (il suo Inglese è molto meglio del mio swahili ed è fiero nel sottolineare che l’ha imparato studiando proprio in queste classi).

Durante il pomeriggio, tutti i ragazzi sono impegnati in attività pratiche, seguiti da insegnanti che li introducono ai più svariati mestieri. Passeggiando nella proprietà della fondazione, che in tutto copre 17 acri di campagna, Baraka mi fa da guida nei vari ambienti a disposizione: dalla falegnameria ai laboratori di meccanica, dalla stalla alla cucina. Ed è qui che ci fermiamo e mi racconta un po’ della sua storia. “Sono nato e cresciuto in un villaggio nell’interno della Tanzania, figlio di una ragazza madre. Quando aveva 10 anni circa, ci siamo trasferiti in un altro villaggio, dove mia mamma si è sposata con un uomo dal quale ha avuto altri tre figli. Uomo che si è rivelato un patrigno cattivo, che non solo non si asteneva dall’esser violento, ma che ha anche avuto il potere di farmi interrompere gli studi. E’ stato un vicino di casa cieco a liberarmi da questa triste situazione, chiedendomi di accompagnarlo a Nairobi, incapace di compiere il viaggio da solo. Se da un lato è stata una fortuna andarmene di casa, dall’altro a Nairobi sono finito per la prima volta sulla strada. L’uomo con cui vi ero arrivato ha continuato per certi versi a prendersi cura di me, ma non era in grado di provvedere ai miei bisogni economici. Ho vissuto sulla strada per un anno facendo l’omba-omba, ovvero chiedendo l’elemosina ai passanti, fino a quando una conoscente dell’uomo gli ha parlato del centro in cui mi trovo ora. Insieme hanno trovato il modo di farmi arrivare qui, dove sono stato accolto due anni fa.”

Non è un caso se ci siamo fermati proprio davanti alla cucina, perché diversamente dalla maggior parte dei ragazzini del centro che vogliono diventare falegnami o elettricisti o muratori, il sogno di Baraka è di diventare un bravo cuoco. La sua priorità è trovare un lavoro ad Arusha per aiutare la madre, che nel frattempo è stata abbandonata dal marito, ed i fratellini che vivono tuttora in condizioni di povertà. Allo stesso tempo, però, dalle sue parole emerge il desiderio di proseguire gli studi, concludere il livello Form IV, consapevole che in Tanzania solo con un buon titolo di studio si ha accesso a professioni ben remunerate. Anche se il centro gli pagasse le tasse scolastiche, egli non sarebbe però in grado di mantenersi perché, diversamente da altri compagni di scuola, la sua famiglia non è in grado di aiutarlo in alcun modo.

La situazione di Baraka è simile a quella di altri bambini e bambine in tutta la Tanzania. Sono in molti quelli che non proseguono il percorso scolastico dopo la scuola primaria o che abbandonano prima di concludere il ciclo di sette anni. In molti casi, le cause sono economiche: i famigliari non sono in grado di sostenere le tasse scolastiche o hanno bisogno dei figli nei campi o per portare avanti qualche piccolo business. Per quanto riguarda più nello specifico le ragazze, se le risorse familiari sono scarse si predilige far studiare i figli maschi; in altri casi può accadere che restino incinte o vengano fatte sposare precocemente, entrambi fattori che le costringono ad abbandonare la scuola.

A questo si aggiunge un sistema scolastico spesso inadeguato. Se verso la fine degli anni ‘70, grazie ad un notevole impegno politico ed alcune buone riforme, la Tanzania è quasi riuscita a raggiungere la scolarizzazione primaria per tutti (l’87% della popolazione in età scolare rientrava nel sistema educativo), a partire dalla fine degli anni ’80 vi è stata una notevole diminuzione della spesa pubblica nel settore dell’istruzione. Il risultato è un sistema educativo che non è sempre in grado di garantire l’educazione primaria o di offrire agli studenti una formazione adeguata. Tuttora, non solo nei villaggi più remoti, mancano le strutture, il materiale educativo, il denaro per acquistare banchi e sedie e sempre più spesso anche gli insegnanti. Allo stesso tempo, anche nelle scuole in cui il numero di insegnanti è sufficiente, la qualità dell’insegnamento è spesso bassa, poiché mancano i tecnici in grado di insegnare ai giovani quei mestieri dell’artigianato, che garantirebbero loro un lavoro.

Baraka è certamente vittima di questo sistema, ma è comunque più fortunato di altri bambini o ragazzi, perché alla fine dei suoi tre anni all’interno del centro potrà contare sulle competenze acquisite e poter trovare facilmente un lavoro.

Salutandolo corro con il pensiero alle 60 ragazze che, anche quest’anno, grazie al sostegno di CVM avranno la possibilità di prendere parte ad un Vocational Training nel distretto di Bagamoyo e le cui storie spero di conoscere presto un po’ più a fondo.

Silvia Volpato
Volontaria in Servizio Civile, Tanzania