venerdì 17 giugno 2011

Marmia Bet


Parlare amarico per uno straniero è impresa ardua e dopo due mesi che sono qui in Etiopia riesco solo ad afferrare qualche parola: quando ho sentito i colleghi del CVM dire che saremmo andati alla marmia bet, mi è quindi sembrato strano. Una affrettata traduzione in italiano potrebbe indicare la casa del miele –mar miele bet casa. In realtà qui in Etiopia la casa del miele non ha nulla di dolce, infatti in amarico indica la prigione ed una giusta traduzione potrebbe essere: un posto dove si entra in un modo e si esce migliorati.....

CVM porta avanti diversi progetti in tre prigioni nella zona di Debre Marcos –regione Amhara Etiopia- e lavora anche qui con la parte più debole della popolazione carceraria, cioè con le persone malate di HIVAIDS che sono per lo più maschi, donne e bambini, bambini che scontano la pena delle madri insieme a loro. Infatti in Etiopia le donne che scontano una pena in prigione sono per la maggior parte divorziate ed abbandonate dalla propria famiglia e, se non hanno nessun posto dove lasciare i propri figli, li portano con loro, in Etiopia infatti non esistono molte strutture adatte ad ospitare bambini.
Inoltre una volte uscite dal carcere, le uniche possibilità per le donne sono quelle di diventare donne di servizio - che in Etiopia è praticamente una schiavitù, o prostitute.
Gli interventi del CVM sono volti ad evitare questo destino comune a tutte le prigioniere e a dare la possibilità di lavorare all’interno del carcere per mettere da parte quel minimo che serve per far fronte sia ai bisogni quotidiani, come il lavarsi e vestirsi che alle emergenze, come il frequente bisogno di medicinali. Attraverso diversi tipi di training e all’avviamento di IGA, all'inizio offre materiali e formazione e poi una serie di sostegni, a cominciare dalla possibilità di aprire un conto personale. Adesso le detenute hanno un conto in banca comune ed uno personale e producono oggetti, abiti tradizionali e strumenti per la preparazione dell'ingera, il piatto nazionale etiope.
Tutte le donne sono state visitate e hanno fatto il test del HIV, e fortunatamente nessuna è risultata positiva: le persone supportate dal CVM che vivono con il virus dell'AIDS sono tutti uomini. Per loro è stata realizzata una piantagione all'interno della prigione e da un anno riescono a guadagnare 10.000 birr l'anno attraverso la coltivazione degli alberi di mele. Per altri invece si è organizzata una formazione per barbiere e si forniscono materiali per avviare l'attività di barbiere anche dentro il carcere.

Oggi dunque è indetto un meeting alla marmia bet per analizzare la situazione e vedere come vanno le cose, a cui partecipiamo io e Simeneh, Child and IGA Facilitator del CVM di Debre Marcos, che tra le altre numerose mansioni, è incaricato di seguire i progetti della sezione femminile della prigione. La sezione femminile del carcere in tutto misura non più di 400 mq, 200 dei quali all'aperto. E' formata da 2 verande dedicate in parte alle attività lavorative delle prigioniere, uno stanzone di 20 metri quadri con docce e bagni che lascio all’immaginazione, un piccolo appezzamento di terra coltivata, una recinto per i polli, una stanza di 20 mq per le guardie e infine due stanze di 40 mq – provviste di sola porta e niente finestre - per le detenute e alcuni dei loro bambini, 42 donne e 15 bambini.

Le due stanze sono stracolme di letti, vestiti appesi con delle corde calano dal soffitto, quando sono tutte dentro non si può camminare perchè occupano completamente tutto lo spazio, le più fortunate hanno un materasso di paglia, mentre le altre dormono direttamente per terra.
Qui io e Simeneh incontriamo Miheret Zelke, una donna di 26 anni che ne dimostra almeno 40. Probabilmente non avrà precisamente 26 anni, perchè qui in Etiopia è difficile trovare una persona sicura al 100 % della propria età, non essendoci registrazione immediata della nascita. Ora Miheret Zelke è la persona di riferimento del CVM nella prigione, ne ha frequentato tutti i training e ha la funzione di rappresentare le altre detenute. Deve scontare una pena di 18 anni, di cui 8 anni e tre mesi già trascorsi in prigione, per aver fatto quello che molti mogli e mariti almeno una volta nella loro vita hanno pensato di fare. Miheret ha ucciso con un'ascia la suocera dopo una violenta lite, scoppiata perché la suocera insisteva nel convincere il figlio a lasciarla per risposarsi con una donna più ricca. Con il marito ha avuto tre figli, due dei quali, che hanno 13 e 10 anni, non vede, come del resto non vede il marito, da quando è entrata in prigione. I figli non la riconoscerebbero neanche, così come la terza figlia, nata in carcere, non ha mai visto nè il padre nè i fratelli. La bambina, che ha 7 anni e 8 mesi, ha vissuto con la madre per tutta la sua giovane vita ed è destinata a vivere così finchè la madre non finirà di scontare la pena, non avendo nessuno fuori della casa del miele che si possa occupare di lei. Esce ogni giorno per quattro ore accompagnata da un altro prigioniero che la porta dalla prigione all'asilo dove rimane dalle 8 alle 12 dal lunedì al venerdì. In realtà dovrebbe già frequentare la prima elementare, che probabilmente inizierà l'anno prossimo, ma la dura realtà di un'infanzia in prigione le ha lasciato ferite psicologiche difficilmente guaribili che la lasciano indietro rispetto agli altri bambini della sua età.

D'altronde cosa si può aspettare da una bambina che non ha mai conosciuto la vita fuori dalla prigione - e di una prigione come questa- non ha mai vissuto la vita della comunità e non ha mai conosciuto i fratelli e il padre?
Durante la nostra chiacchierata Miheret ribadisce più volte come sia grave il problema dell'igiene: infatti specialmente durante la notte quando le prigioniere non possono uscire dalla loro stanza, queste sono costrette a fare i loro bisogni in bacinelle, la diarrea è frequente e quindi è facile capire come sia semplice soprattutto per un bambino ammalarsi nella prigione. All'interno del carcere c'è un centro sanitario ed un dottore che si occupa delle vaccinazioni, ma se il problema è grave, è necessario il ricovero all'ospedale, cosa permessa, ma il più delle volte troppo onerosa per le detenute che non hanno i soldi per comprarsi le medicine di cui gli ospedali etiopi sono cronicamente privi e che bisogna acquistare nelle farmacie private.
Miheret continua a dirci, con qualche pausa dovuta forse al fatto che siamo guardati a vista da una guardia che non sembra tanto gentile, che mancano i letti, il sapone, le medicine e i vestiti, che i bagni e la situazione sanitaria sono a dir poco precarie. Grazie alle attività intraprese con il sostegno del CVM, lei è almeno in grado di comprare sapone, vestiti e medicine per lei e sua figlia. Con i corsi del CMV ha acquisito delle competenze che le hanno permesso di realizzare dei prodotti e di venderli, e così è riuscita addirittura a risparmiare 4000 birr depositati nel conto in banca personale. Miheret non manca di ricordarci poi quanto sia grata al CVM, perché quando uscirà, avrà la possibilità di lavorare e potrà offrire una vita normale a sua figlia. Sa di aver fatto del male, ha accettato la sua pena, ed è consapevole dell'importanza di poter contare su una propria attività, quando uscirà dalla prigione.

Raffaele Fischetto (Volontario CVM in Etiopia)

lunedì 13 giugno 2011

Che avventura!


Sono appena tornata da Yombo, un villaggio nell’interno poco più a sud di Bagamoyo, in cui è stato selezionato uno dei 10 gruppi giovanili attivi nella mobilitazione e sensibilizzazione delle comunità locali sul tema dell’HIV che il CVM supporterà durante l’anno 2011. Il motivo della nostra trasferta è proprio la consegna di magliette che costituiranno l’uniforme che il gruppo utilizzerà durante gli eventi promossi nel loro villaggio e in quelli limitrofi, affinché possano essere riconosciuti come gruppo dalle comunità locali e come attore chiave nell’ambito della campagna di sensibilizzazione sul tema dell’HIV e sui diritti di genere e dell’infanzia.
Io ed Emmanuel siamo partiti a bordo della motocicletta dell’ufficio CVM, nonostante il tempo non promettesse granché bene. C’è il sole, ma è appena finito un temporale: il sole va e viene, è la normalità durante la stagione delle piogge.

Decido di prendere l’ombrello, anche se ho dei dubbi sulla possibilità di utilizzarlo a bordo della motocicletta, o piki piki, nella lingua locale.
Inizia il viaggio, sono seduta sul portapacchi della motocicletta, non molto comodo soprattutto con due borse in spalla, una mano con la busta delle magliette e l’altra con cui cerco di mantenermi più o meno stabile sul piki piki. Non sono molto brava a selezionare le cose che mi servono durante i viaggi, se pur brevi, e quindi parto sempre con minimo due borse, una solamente per tutti i documenti che potrebbero servire durante le nostre visite e il mio inseparabile quaderno dove prendo gli appunti.
Nonostante la strada che percorriamo sia piena di buche a causa delle copiose piogge di questa stagione e non sia proprio facile tenersi in equilibrio, mi diverte utilizzare la motocicletta, è un po’ come partire ogni volta per una nuova avventura.
E questa volta lo è stata davvero!

Ogni volta che viaggio rimango ammaliata dal paesaggio che ho di fronte ai miei occhi, dalla natura rigogliosa, dalle numerosissime specie di piante, dalle risaie, dalle piantagioni di cotone, dalle diverse specie di palme, dai giganteschi alberi di mango, dai numerosi uccelli che popolano le grandissime pozzanghere che si formano nei campi in questo periodo.
E rimango colpita, attonita nel vedere l’estrema fatica a cui le persone sono costrette per spostarsi o per trasportare qualsiasi genere di cose. Venditori ambulanti a bordo di biciclette che trasportano una montagna di oggetti tenuti insieme non so come sul portapacchi, uomini che trasportano sacchi enormi di carbonella caricati su biciclette che sono guidate a piedi perché i sacchi sono troppo ingombranti per lasciare libera la sella, le donne, rigorosamente a piedi, trasportano fascine di legna o secchi d’acqua, sistemati sul proprio capo. La strada è accidentata, piena di buche colme d’acqua che, al passaggio di auto e bus, inevitabilmente bagna i numerosi passanti.
Arriviamo all’incrocio in cui imbocchiamo la strada che ci conduce a Yombo, scorgiamo un cielo scuro, minaccioso, carico di pioggia. Emmanuel cerca di confortarmi raccontandomi di un precedente episodio in cui, nonostante la presenza di un tale cielo, aveva scampato fortunatamente la pioggia.
Man mano che procediamo l’aria cambia, diventa più fresca; incontriamo le prime gocce d’acqua, che dopo pochi metri diventano pioggia battente. Apro l’ombrello che riesco a malapena a tenere in mano, un po’ per via del vento e un po’ perché Emmanuel ha aumentato la velocità per raggiungere il primo posto più vicino dove ripararci.
Ci fermiamo nel villaggio di Matimbwa, al riparo sotto una struttura di cemento a bordo della strada. Incontriamo Husna, una delle ragazze beneficiarie del programma di microcredito promosso da CVM. L’avevo già incontrata, ma non avevo mai avuto l’opportunità di vedere i due piccoli negozi che ha potuto aprire grazie al prestito ottenuto. È stata una piacevole sorpresa poter scoprire con i miei occhi una delle tante attività economiche supportate dal progetto CVM.
Decidiamo di lasciare qui il piki piki e di proseguire il viaggio a bordo di un dalla dalla ( minibus utilizzato comunemente come mezzo di trasporto pubblico), che scorgiamo avvicinarsi al margine opposto della strada.

Il minibus ha un’entrata piuttosto bassa, sembra che non ci sia posto per noi, ma qui in Tanzania, si trova posto sempre per tutti, anche quando sembra impossibile far entrare qualcun altro. Lo sportellone d’ ingresso è senza finestrino, piove dentro, l’acqua filtra da ogni piccola fessura, dai finestrini, nonostante chiusi, e da alcuni punti arrugginiti della carena nella parte posteriore. Ad ogni buca attraversata, tutto traballa, i sedili, pezzi metallici del telaio penzolanti, i vetri dei finestrini… c’è chi prova persino a dormire, questa è la normalità, specialmente nella stagione delle piogge.
Arriviamo a destinazione, la pioggia è ancora battente e non accenna a smettere… scendiamo dal dalla dalla e ci ripariamo sotto la tettoia di una casa davanti alla fermata. Non scorgiamo nessuno dei ragazzi ad attenderci, prendiamo l’ombrello e andiamo alla loro ricerca. Scorgiamo il leader del gruppo giovanile venirci incontro e ci indica il posto dove avverrà l’incontro, l’ufficio delle autorità di villaggio. A causa della pioggia non tutti i membri sono presenti, solo sei su sedici: Saidi, Shukuru, Zaitun, Hadija, Asia e Raima. Nessuno di loro è a conoscenza che siamo venuti a portare la loro uniforme, è una sorpresa.
Prima di distribuire le maglie, io e Emmanuel vogliamo conoscere i progressi del gruppo dall’ultima volta che li abbiamo incontrati… sono attivi nel loro villaggio nonostante le malelingue del paese li additano come un gruppo poco serio, organizzano eventi sul tema dell’HIV e diritti delle donne nel loro villaggio e nei villaggi vicini e ora stanno condividendo le proprie conoscenze con un gruppo giovanile nascente vicino il loro villaggio affinché anche esso possa iniziare ad organizzare eventi di sensibilizzazione nelle comunità circostanti.

Nel gruppo c’è chi suona il jambee (tamburi della tradizione locale) e esegue musica Bongo Flavour, uno dei generi più in voga qui in Tanzania, utilizzata in particolare dal gruppo per richiamare il pubblico prima di iniziare gli spettacoli teatrali, c’è chi scrive poesie e poi le trasforma in testi musicali, c’è chi canta.
All’inizio sembrano timidi, in particolare le ragazze, ma poi i loro visi si trasformano quando vedono le magliette, la gioia esplode: sono fieri di indossare l’uniforme che porta il loro nome JINASUE KIJANA, “giovani che sfuggono dai problemi”.
Il tempo corre, è ora di tornare a Bagamoyo, Emmanuel mi chiama, il dalla dalla è in arrivo.
Sono felice di questa giornata, di vedere giovani con ideali che nonostante i pochi mezzi a disposizione e l’ambiente non sempre favorevole, si battono per i loro ideali, si impegnano per realizzare un cambiamento nelle loro comunità.
Sono divertita per l’aspetto avventuroso del viaggio, meravigliata dallo spettacolo offertomi ogni volta dalla natura tanzaniana, dal tramonto ed i suoi splendidi colori che ci accompagnano sulla via del ritorno a Bagamoyo.


Valentina Romagnoletti (Volontaria CVM in Tanzania)

sabato 11 giugno 2011

Niente da fare, io SONO occidentale?!


Che succede? Dove sono?
A casa. Eppure mi sento come se mi fossi svegliata da un sogno, non propriamente un incubo. Mi trovavo lontana da casa, lontana dalla mia famiglia, in una Terra che non era la mia. Ero dall’altra parte del Mondo! Intorno a me un paesaggio a me familiare. Simile al mio Salento. Arido, ma allo stesso tempo ricco di verde. Tanto bestiame nelle campagne, pastori.
Un po’ come qui, qualche anno fa. Era come vivere nel passato.

Mi sento stordita e ho la testa che scoppia, sempre, in ogni attimo delle mie giornate. Mi dico: sarà la differenza del clima, la diversità dello stile di vita. O forse nostalgia. Eppure il pensiero di dover tornare mi spaventa. Il pensiero di dover vedere quello che ho visto per due mesi e a cui non ti abitui mai mi terrorizza.
Ecco, mi sento “fuori dal mondo”. Fuori dal mio Salento, fuori dalla “mia” Etiopia. Mi sento appesa, in una via di mezzo non ben definita. Qual è il mio posto?!

Ricordi.
Una bimba che vuole giocare, le passeggiate per le città alla scoperta di “cose nuove”. Il sole. La luna al contrario. L’approccio con una nuova lingua. I chilometri a piedi, le strade asfaltate e non, i succhi buonissimi. Le lotte con acqua e luce. Per non parlare poi dei topi! Tanta la nostalgia di casa. Niente carnevale, né i compleanni dei miei familiari. Il telefono che non squillava.
Tutto un altro stile di vita.

Sogni.
Desiderio di maternità, desiderio di un abbraccio o anche solo di una carezza. Parigi, la musica. Casa. L’attesa. Stare lì a far niente e a guardare l’orologio, chiedendomi il perché della mia scelta. E ora mi chiedo cosa devo fare, cosa voglio fare. Tornare? Restare?
Fango, terra, sabbia!
Rivedo immagini del mio periodo in Etiopia. Mi scorrono davanti agli occhi le foto di quei bambini. In particolare di una bimba ad Addis Abeba, piccola, avrà avuto al massimo un anno, sporca, con solo una magliettina indosso, senza mutandine, seduta per terra a giocare con delle pietre. Un’altra che prima chiede “give me chocolate!” e subito dopo “give me money!!”

Rivedo il bagno di casa, la condizione ottima in cui vivevo, ottima rispetto alla vita dei locali. Eppure quel pensiero mi fa rabbrividire. Tornare, restare.
Avevo un forte desiderio d’Africa, d’Etiopia eppure adesso mi ritrovo così, smarrita. Non pensavo mai di potermi ridurre in questo stato, stato dovuto in parte al mio vissuto in quei due mesi, in parte alla mia sensibilità e non vado oltre. Non posso dare colpe agli altri per quello che mi è successo, è solo colpa mia, del mio essere. E ora non so come muovermi.

Sensazioni.
Sono qui, nella terra dove sono cresciuta, eppure quello che provo è solo paura. Solo in casa sto bene. Non riesco ad uscire, vedere gente. Tutto mi riporta da dove sono appena arrivata. Appena dico?! Sono passate già due settimane e io mi sento ancora stranita. Persa, smarrita.
Delusa per non essere riuscita in questa missione, delusa per essere rimasta giorni e giorni in ufficio a guardare l'orologio... delusa per un "mondo" che forse non cambierà così facilmente. Sono cresciuta molto, ho capito molte cose. Forse finalmente mi sono affacciata alla vita. Eppure qui, intorno a me tanta ignoranza, superficialità. Mi dico che forse potrei portare in giro la mia testimonianza.
Peccato che prevalgono i pregiudizi, idee stabili. Potrei parlare di quello che ho visto, delle sensazioni che ho provato. Ma chi mi ascolterà, se lo farà, mi guarderà con occhi pietosi; mi dirà che ho avuto coraggio a partire, forza per restare anche solo due mesi e che sicuramente ho fatto bene a tornare.

Siamo pronti a seguire l’esempio dei nostri fratelli? Siamo pronti ad abbandonare il superfluo e vivere di stenti? Vivere tra paglia, fango e bestie? Siamo pronti a chiudere il rubinetto dell’acqua quando facciamo la doccia o laviamo i denti? Siamo pronti a non sprecare il cibo e a non schifarlo? Nel mondo c’è gente che non ha niente, ma che sorride. Gente che muore perché non può far niente per migliorare la sua situazione.
E noi?! Viviamo tra macchinoni e discoteche. Spendiamo senza contegno non pensando che anche nel “nostro mondo” c’è chi ogni giorno lotta per portare a casa un po’ di pane.
E io? Cosa posso fare?

Parlare, mostrare foto, ma soprattutto parlare, parlare e raccontare …


Carola Conz (Volontaria CVM in Etiopia)

venerdì 10 giugno 2011

" Noi plasmiamo il nostro paesaggio ed esso a sua volta ci plasma i tratti del volto"


La terra d'Etiopia è una terra nuda, non è stata ricoperta di cemento ed asfalto, è libera di manifestarsi ed è calpestata da abitanti altrettanto nudi. Ci sono capanne di fango e paglia, recinzioni di bambù, donne chine sotto enormi pesi, bambini scalzi che percorrono chilometri trasportando fascine di legna. Nei campi ci sono piccole greggi e mandrie sparute sorvegliate da giovani pastorelli distesi sui prati. E i loro sguardi sono sereni nonostante la costante fatica, la necessità di scavare la terra, il tribolare dei corpi non incupisce i loro visi. Si percorrono kilometri per raccogliere l'acqua e, poi, si torna indietro con la giara piena sulla schiena, si raccoglie la legna e si accende il fuoco all'aperto per cucinare, le capanne sono costruite dai loro abitanti, ed ognuno provvede come può ai propri bisogni essenziali. C'è serenità in questo modo di sopravvivere e il ritmo per quanto sfinisca le membra non sembra appesantire gli animi.
Si possono percorrere ore ed ore di tragitto lungo le strade etiopi, ammirando gli innumerevoli e differenti paesaggi: boschi, prati, montagne, laghi; si assiste al cambio di colore e di consistenza del terreno dal bruno al rossastro, dall'argilla alla sabbia, dal terreno arido e roccioso si passa ad un rigoglioso verde; ma, ovunque, le persone sanno beneficiare e apprezzare la propria terra, la lavorano e la abitano con una sorta di venerazione, instaurando un rapporto di gratitudine e confidenza.
Al contempo, la terra, se la si osserva attentamente, racconta le storie silenziose dei suoi abitanti, per solidarietà verso la sua gente, la terra muta non lascia che nessuno dimentichi le esistenza fatte di tanta tribolazione che la percorrono in ogni tempo. Non è una terra impersonale come i quartieri in cui noi ci rifugiamo per abitare, mentre la percorri, lei narra le sue storie ed i suoi ricordi, e lentamente ti mostra i suoi tratti. Non mi ero mai commossa osservando un paesaggio nudo, ma, qui, ho dovuto farlo.
Sembra quasi che uomo ed ambiente siano un continuum inscindibile, come se le energie e le sofferenze dell'uno scorrano anche nell'altro, c'è un reciproco narrarsi, un reciproco essere modellati, così i visi di queste persone sono sereni e perfettamente in sintonia con il mondo che abitano.
Tutto ciò è talmente differente dal nostro modo alienato di rispondere alla necessità, la nostra civiltà ha rotto i legami con la natura. Meccanizzando la produzione abbiamo perso lentamente, ma inesorabilmente, il contatto con la temporalità naturale, così da sentirci onnipotenti e non saper più rapportarci alla sofferenza, alla malattia o alla semplice fatica.
Qui è impossibile dimenticare questo legame: la luce se ne va, l'acqua bisogna raccoglierla e farne un uso parsimonioso e le violente piogge impediscono gli spostamenti.
Ogni essere vivente pianta, insetto o uomo vive un ciclo di nascita, crescita e morte. Ricordare questa ciclicità è un atto di fedeltà verso se stessi, verso la propria temporalità finita. Riconoscere di essere esposti alla natura significa decidere di dialogarci, di non deturparla ma trattarla come una compagna. Mentre la volontà di controllo che caratterizza la nostra relazione con l'ambiente, oltre ad essere una violenza eterodiretta, è una costrizione che esercitiamo contro noi stessi. Infatti, ragionando in termini di sfruttamento del terreno, dimentichiamo il nostro essere fatti di carne e la nostra dipendenza dalla materia, così violiamo noi stessi, ci imponiamo ritmi che non ci sono propri, ricopriamo tutto d'asfalto per rispondere ad esigenze artificiali ed artefatte, modelliamo il nostro pensiero in modo da relazionarsi ad un'esistenza piena di obiettivi raggiunti in poco tempo. Ma cosa n'è della nostra naturale fragilità, del tempo lungo della comprensione e delle scelte? Qualcosa dentro di noi va in tilt, ogni volta, che il nostro corpo o i naturali imprevisti determinano di rallentare il passo. Questo diktat del fare, che è il progenitore di quello dell'accumulo, ci permette di comprendere veramente noi stessi e ciò che abbiamo intorno? O forse, semplicemente, ci getta in un turbine di esigenze e frustrazioni che non ci permette di ascoltare null'altro? In tal modo siamo portati a identificare i problemi o i disagi che incontriamo con oggetti esterni, come qualcosa che ci sbarra la strada, e, mai, con il nostro modo di relazionarci a questi eventi. Abbiamo, innegabilmente, abortito una parte di noi stessi, sepolta sotto quintali di cemento giace la nostra umanità, ciò che ne ha preso il posto è un'identità fordista con il suo frastuono che ci impedisce di ascoltare tutto ciò che abbia una melodia differente. Le nostre orecchie sono assillate da questa ritmica funzionalista ed immaginarci altro ci è totalmente impossibile; forse è per questo che quello che scrivo mi sembra sfiorare l'utopico, sicuramente inconcepibile, se non fossi qui.
Ma sono qui, e ciò che mi spinge a scrivere è la semplice testimonianza dei volti di questa gente, i nostri sguardi sono scontrosi e tesi, mentre qui ci si rallegra di incontrarsi e si sorride percorrendo interminabili tragitti con sacchi di cereali sulle spalle. Ogni volto nei suoi tratti esprime una sorta di gratitudine verso la terra che non è così ostile da non lasciarlo sopravvivere, ed ogni volto esprime anche l'accettazione di sé, l'essere lì, con se stesso, senza alienazione.

Benedetta Sercecchi (Volontaria CVM in Etiopia)

lunedì 6 giugno 2011

Piccole Storie Malate (I)


Durante il training soggiorniamo -Tsehay ed io- in un hotel in cui lavora un'anziana cuoca, che cucina in modo eccellente e ci prende in simpatia. Ci prepara razioni abbondanti, ci riserva pietanze prelibate, ci parla un po' di sé..la sua gastrite, prima lavorava a Gimma, poi è tornate a Durbete dalla mamma e dalla sorella, ora però loro sono morte e lei è sola, guadagna 200 birr al mese (meno di 9€) e ne spende 50 per l'affitto di una stanzetta, le piace il latte ma è costoso, quindi glielo offriamo noi.
È molto cordiale, si interessa del nostro giudizio sui pasti e si intrattiene spesso in nostra compagnia; per questo Tsehay capisce che desidera qualcosa da noi, ma non sappiamo esattamente cosa, così, cerchiamo di accontentarla lasciando qualche birr di mancia: forse è solo attratta dalla mia pelle bianca, che, come tutti qui suppongono, è sinonimo di ricchezza. Poi una sera, lei bussa alla porta di Tsehay e le racconta la sua storia. Le dice che era sicura che il nostro lavoro fosse correlato con l'HIV, lei, da qualche anno, ha scoperto di essere malata, ma non può dirlo a nessuno, ha paura di perdere il suo posto di lavoro: se si sapesse i clienti non verrebbero più e i proprietari dell'hotel sarebbero costretti a cacciarla. Benché sia sola e tema di essere abbandonata da tutti quando starà peggio, ora non può permettersi di iscriversi all'associazione dei PLWHA, che le assicurerebbe di avere qualcuno affianco, di conoscere bene la sua malattia ed esserne meno spaventata; non lo può fare perché teme che altrimenti non avrebbe più di che sopravvivere. Così vive sempre nel silenzio, non racconta a nessuno cosa la spaventa e le sue informazioni oscillano tra il sentito dire e la terribile capacità immaginativa che ogni malato, che ignori le proprie condizioni, può esercitare. Tsehay l'ascolta a lungo, le dà consigli e cerca di tranquillizzarla. Prendiamo un tè insieme, lei sorride e sembra essere meno sola, ma, poi, noi torniamo a casa e lei, muta, torna al suo lavoro.

Benedetta Sercecchi (Volontaria CVM in Etiopia)