martedì 28 agosto 2012

Prosegue il viaggio di Ylenia, Valentina e Federica: nuove emozioni e scoperte





Carissimi amici,

Prosegue il nostro viaggio… ogni giorno è una nuova scoperta… di persone, di paesaggi e di sensazioni.. ogni giorno lo scenario che si apre di fronte noi è meraviglioso i colori non si sovrastano ma sono netti e distinti: il verde e il marrone… intere distese di un verde forte e il marrone delle montagne, della terra, delle strade che si contrappone alle vallate e ai prati.
Un paesaggio che lascia lo spazio ai pensieri, alle emozioni, che ci permette di viaggiare fisicamente e con il pensiero… l’asfalto grigio che si alterna ai tratti di terra e pietre… gli animali che pascolano liberi nei campi e sulle strade, i suoni ripetuti dei clacson dei fuoristrada, dei minibus carichi di ragazzi che si sporgono dai finestrini, dei camion che imponenti occupano l’ intera corsia, i ragazzi e i bambini che corrono lungo le strade in mezzo alle distese verdi che si interrompono all'orizzonte per lasciare lo spazio al cielo per qualche ora azzurro e poi di colpo plumbeo con le nuvole cariche di pioggia.

E la pioggia arriva… puntuale ogni giorno. Scroscia forte, l’acqua invade le strade sterrate e le trasforma in fiumi, piove per ore, a volte per poco tempo; di notte i fulmini squarciano il cielo e illuminano per una frazione di secondo i tetti delle case mentre tutto intorno il buio regna sovrano… poco dopo arriva il tuono a rompere il silenzio della notte.

“Non sono uno straniero perché,non mi sono mai fermato a pregare per tornare indietro sano e salvo, perché non ho sprecato il mio tempo ad immaginare come sarebbero stati la mia casa, il mio tavolo, il mio lato del letto. Non sono uno straniero perché tutti siamo sempre in viaggio,perché ci poniamo le stesse domande e viviamo la stessa stanchezza, le stesse paure, lo stesso egoismo e la stessa generosità. Non sono uno straniero perché, quando ho avuto bisogno, sono stato soccorso, quando ho bussato alla porta si è aperta. Quando ho cercato, ho trovato ciò che volevo.”

Non facciamo altro che nutrirci dei colori,degli odori,paesaggi maestosi e delle persone semplici che mi circondano. E’ cosi strana questa realtà,ma allo stesso tempo cosi’ coinvolgente!..POSSIAMO DIRE DI SENTIRCI A CASA..
E’ difficile descrivere su questa pagina bianca le sensazioni che abbiamo e stiamo provando in questi giorni. Ogni cosa sembra enorme, fantastica, strana…NUOVA!

Giochiamo,giochiamo con i loro sguardi,i loro immensi sorrisi gratuiti, abbracci infiniti…

C’è un’energia che ci avvolge indescrivibile!
Da quando siamo arrivate,c’è una vocina che non fa altro che chiamarci, chiederci nella sua lingua un qualcosa di incomprensibile…MASHARAT!
Cosi’ è il suo nome, il nostro fratellino! Ha 7 anni, un ometto. Il suo nome significa:le fondamenta,la base! Le fondamenta di qualcosa che dovrà crescere,un’immensità di ricordi,
esperienze vissute,dolori,gioie…UNA VITA! Questo bimbo riesce a farci sorridere anche quando scende un po di malinconia, tanto amore,mancava…. Porteremo sempre nel nostro cuore questo viaggio cosi inaspettato,desiderato…VISSUTO.

È il 6 Agosto, di mattina, quando Deregee ci comunica di preparare la borsa perché staremo via due giorni..e inizia un nuovo viaggio e una nuova avventura verso chissà cosa, ciò che è certo è che siamo entusiaste e non vediamo l’ora di salire sulla jeep. Subito dopo ci viene comunicata la destinazione“Chachao”, ma fondamentalmente per noi non fa differenza, potremmo andare in qualsiasi posto anche perché non conosciamo queste città. Dopo circa 3 ore di viaggio arriviamo, sembra una cittadina simile alle altre con tante persone nelle strade impegnate nelle loro attività quotidiane. Percorriamo un viottolo sterrato e arriviamo in un campo, ci sono circa 10 ragazzi che lavorano la terra e già a prima vista, ci rendiamo subito conto che sono tutti più giovani di noi, cosa che successivamente ci verrà confermata. I ragazzi appartengono all’associazione di 72 ragazzi che si occupa di riunificazioni familiari “Fikir ena Kibir le Egnce” che significa “amore e rispetto per noi”. E guardando come comunicano e si rapportano tra di loro, possiamo dire che non poteva esserci nome più giusto. Scambiamo i saluti di rito, facciamo un giro e dopopranzo li incontriamo in un bar; è qui che ci racconteranno le loro storie che poco si addicono a ragazzi di 15 o 17 anni..c’è Mastewal Ephrem, un ragazzo dai tratti somatici molto dolci, ha solo 15 anni eppure ha già 4 lavori e guadagna circa 1250 birr al mese (compra e vende polli, affitta biciclette, ha un piccolo pezzo di terra e lavora nell’associazione) per aiutare i due fratelli più piccoli e la madre che ha problemi psicologici. E non si lamenta della vita poco agiata e facile che fa, come nessuno di loro.

Un altro ragazzo colpisce la nostra attenzione e i nostri cuori, si chiama Balamual Balaynew, ha 17 anni ed è il leader dell’associazione nella quale sta da 2 anni. Il significato del suo nome (servitore nel senso di colui che aiuta gli altri) rispecchia pienamente la sua personalità e lo capiamo non appena inizia a raccontarci la sua storia, è degna delle migliori favole..ha vissuto in strada per quattro anni perché orfano di entrambi i genitori. Come la maggior parte dei ragazzi qui, lavorava come shoeshine per una decina di birr al giorno e forse, perché era destinato o per una semplice coincidenza, in una delle sue giornate sulla strada, un banchiere andò a farsi pulire le scarpe e mentre scambiarono qualche parola, l’uomo consigliò al ragazzo di mettere da parte i 2000 birr che era riuscito a preservare durante i 4 anni perché gli avrebbero cambiato la vita. E così Balamul fece, andò a mettere i soldi in banca e un bel giorno, anche qui per destino o per fato, la sua vita cambiò.
Entrò nell’associazione e ne divenne il leader anche se l’iniziò non fu facile.. venne insultato e ferito dagli altri ragazzi che, successivamente, capirono le sue intenzioni e ora lo ammirano e dicono di lui: “la sua presenza è fondamentale per la vita dell’associazione e per il cambiamento delle nostre vite”. Perché è un ragazzo brillante e aiuta gli altri con amore. Ora lavora dalle 2 della notte alle 6 del pomeriggio: inizia la sua giornata come panettiere e prepara bombolini (ciambelle fritte buonissime!), poi si reca nell’associazione dove si occupa della gestione e del lavoro della terra e, infine, ritorna alla sua attività di panettiere e grazie a questo lavoro riesce, come già faceva prima, ad aiutare i due fratelli che hanno 15 e 11 anni e vivono con lui. Nel tempo libero ama scrivere racconti di storie vere che rispecchiano gli anni, le paure, le emozioni e le sensazioni vissute sulla strada. Gli chiediamo se vorrebbe farsi una famiglia, risponde che prima di ciò vuole migliorare la vita degli altri, degli amici, dei fratelli e la sua. Questo suo spirito buono si rispecchia anche nei suoi sogni, vorrebbe infatti andare all’università e studiare scienze sociali. La cosa più emozionante è stata la voglia di vivere e di migliorare le cose che si intravedeva nei suoi occhi velati, un ragazzo così giovane eppure così profondo e solidale. Durante le nostre frettolose giornate,
quando siamo intrappolati dalla nostra routine, dimentichiamo cosa vuol dire vita.

“L’opera umana più bella è essere utili al prossimo” (Sofocle)

Federica, Valentina e Ylenia - Debre Tabor Etiopia

martedì 14 agosto 2012

Il Servizio Civile in Tanzania


Stefano Battain, ex-volontario CVM e Serena Morelli, attuale servizio civilista in Tanzania  raccontano le loro esperienze, impressioni ed emozioni.

giovedì 9 agosto 2012

Le prime impressioni di Federica, Valentina e Ylenia dall'Etiopia


Carissimi, scriviamo tutte insieme perchè la connessione è veramente molto lenta.. il nostro lungo viaggio verso il continente nero comincia nella calda e soleggiata mattina del 30 Luglio. Atterriamo ad Addis e Valentina, responsabile CVM Etiopia, è li che ci aspetta e all'uscita dall'aeroporto e già si percepisce di essere in una realtà ben diversa e lontana dalla nostra. Le strade sono deserte, è tardi, l'aria è pungente... è strano pensare di essere quasi ad Agosto 2012.. qui, invece, è il 22 Hamlay (Luglio/Agosto) 2004. È notte e non riusciamo ancora bene a immaginare il paesaggio che ci attende. Si mostra con tutta la sua maestosità e imponenza il mattino seguente quando percorriamo le strade etiopi per giungere a destinazione: Debre Tabor. Dopo 13 ore di pullman un’engera gustata in un piccolo ristorantino di Debre Marcos, giungiamo nel centro del CVM dove ci attendono Deregee e Asnika che ci accolgono con la meravigliosa cerimonia del caffè etiope. Per arrivare al centro del CVM si percorre il cuore del villaggio: l’impatto è forte, tanto, ha piovuto e nelle strade c’è fango; anche gli odori sono forti e nel corso dei giorni impariamo a conoscerli, a riconoscerli e a farli nostri. 

Non appena mettiamo il naso fuori dal centro del CVM, le persone ci circondano, ci scrutano incuriosite e un po’ incredule, i bambini timidi fanno per avvicinarsi, tanti ci sorridono e altri, quelli più piccoli, intimiditi si nascondono un po’ ma poi la curiosità è troppo forte ed ecco che, poco dopo, fanno capolino tra le gambe e le braccia di un fratellino un po’ più grande. I giorni sono pieni, visitiamo il centro dei malati di HIV, alcuni ci raccontano la loro storia, ci commuoviamo quando Tesfiye Mengistu, un uomo che vive grazie al lavoro che svolge nel centro dopo aver ricevuto il microcredito dal CVM dice: “Sono felice che i bianchi siano venuti perché è in loro che noi vediamo una speranza per far conoscere al resto del mondo le nostre problematiche”. Visitiamo gli orfani di strada, coloro che grazie all’aiuto del CVM hanno la possibilità di imparare un mestiere, quello di panettieri e di poter uscire così, almeno in minima parte, dalla loro condizione di estrema povertà che li ha costretti per molti anni a lavorare come shoeshine (pulisci scarpa) o, per le ragazzine, a trasportare taniche di acqua per un quarto di birr (moneta locale che corrisponde a 1,13 centesimi di euro) l’una. 

Entriamo, la bakery è piccola e i ragazzi ci guardano incuriositi e un po’ intimiditi di fronte alle domande che poniamo; poco dopo Amsalu, uno dei 15 ragazzi, si scioglie e comincia a raccontarci la sua storia: ha 17 anni, è orfano di padre, è andato in strada all’età di 7 anni in quanto la famiglia, troppo povera, non era in grado di mantenerlo e prima di entrare in questo progetto svolgeva saltuariamente, lavori quotidiani per 12 birr al giorno (54 centesimi di euro al giorno). Dalla prossima domenica grazie al lavoro nella bakery, ne guadagnerà 30. Sono tante le loro storie, così simili ma così diverse al tempo stesso; sono, però, uguali quegli occhi che ti guardano, quegli sguardi che ti entrano dentro, quegli stessi occhi, migliaia, che ogni giorno incontriamo al mercato del nostro villaggio o davanti alla nostra casa, sono quelli che ci restano dentro più di ogni altra cosa. Le parole scambiate con il nostro divenuto già “bottegaio” di fiducia e le serate e le improvvisate conversazioni con il nostro guardiano Unatù che in Amarico significa verità… sono queste le emozioni della vita. 

“In questo momento, ho bisogno di un’unica cosa: 
un abbraccio. Un gesto antico quanto l’umanità, 
il cui significato va al di là dell’incontro di due corpi. 
Un abbraccio vuol dire: “non sei una minaccia, 
non ho paura di starti così vicino, posso rilassarmi, 
sentirmi protetto e comprendere che c’è 
una persona in grado di capirmi.” Secondo la 
tradizione ogni volta che abbracciamo 
qualcuno con piacere, guadagniamo un giorno 
di vita. Ti prego, abbracciami adesso.” 

(Paulo Coelho) 

Ciao 

Federica, Valentina e Ylenia 

martedì 7 agosto 2012

Why? Perchè?


Stefano Battain, ex volontario CVM, ci scrive dal Sud Sudan, paese in cui sta lavorando ora...

“Hi my friend! Why?” (Ciao amico mio, perché?). Questa è stata la frase che più mi ha fatto sorridere durante la mia prima corsetta in Sud Sudan. Domenica mattina la ragazzine, magrissime, in ogni caso, alte per la loro età, si avviano verso la chiesa, vestiti lunghi, lucidi, viola, gialli, verdi, il vestito buon immagino, messo la domenica per andare a messa, o anche solo per fare una passeggiata con le amiche, cellulare in mano e musica hip pop americana sparata ad un volume che basta a far gracchiare il mini altoparlante installato su questi cellulari, sorprendentemente potente ma anche di bassa qualità. Sono a Bentiu, nel nord del Sud Sudan, nel 2006, aveva circa 7,700 abitanti, ora potrebbero essere attorno ai 10,000 considerando che migliaia di sud sudanesi dal 2005 in poi hanno risalito la valle del Nilo, dalla desertica Khartoum alle verdi alture del sud Sudan. Dopo una settimana trascorsa in ufficio, fra Juba e Bentiu, durante la quale la mia unica attività fisica sono stati 20 minuti di yoga alla mattina, sdraiato sul pavimento di piastrelle bagnate fra la mia scrivania e la macchina fotocopiatrice dell’ufficio, ho sentito il bisogno di muovere un po’ la gambe. Una domenica soleggiata, strano, visto che siamo quasi al picco della stagione delle piogge e nell’ultima settimana ha piovuto tutti i giorni, soprattutto di notte, inzuppando il mio letto, piazzato vicino alla finestra, e obbligandomi a svegliarmi nel cuore della notte per chiudere le imposte, spalancate la sera per non soffocare nel caldo umido del luglio sud sudanese aggravato da una zanzariera che ricopre il mio letto e sicuramente non permette di apprezzare quell’alito di brezza notturna che comunque ci sarebbe.
Fango, quello si ce n’è, tanto, le strade sono di fango, tutto il resto è verde, verdissimo in questo periodo dell’anno, prati di erba lunga fino alle ginocchia, mandrie di mucche dalle corna lunghissime e spessissime, alcuni asini, oggi forse a riposo ma che durante la settimana tirano carretti carichi di pesantissimi barili pieni d’acqua. Poche le abitazioni in cemento, moltissime quelle in fango e legno, col tetto di paglia, tutte circondate da recinti di canne alte come alcuni soldati dell’esercito di liberazione del popolo del sud sudan (in inglese: S.P.L.A. Sudanese People Liberation Army) che si aggirano numerosi per il “centro” di Bentiu con AK-47 a ricordare e ricordarci che oltre 20 anni di guerra non si dimenticano con 7 anni di pace e un solo anno di indipendenza.
Continuo la mia corsa, piccoli uccelli rossi e neri sono appoggiati sui fili dell’elettricità che non c’è, farfalle, libellule e altri insetti che non avevo mai visto prima ronzano tranquilli sotto il sole equatoriale, i bimbi mi guardano, ridono, mi prendono in giro perché corrono e si mettono a ballare, pochi hanno il coraggio di chiamarmi o salutarmi, solo i più grandicelli, anche loro magrissimi e slanciati, accennano un saluto, qualcuno solo un “Hello!” qualcuno anche un “Where are you going?” (Dove stai andando?). Io rispondo a tutti e saluto tutti quelli che il mio fiatone mi permette di salutare, fa caldo, umido, forse non è l’ora migliore per correre ma va bene così, credo di avere intuito più cose in questa mezzora di corsa che nell’intera settimana passata. Sono felice di essere qua, ottimista, la gente del sud Sudan mi sta già entrando dentro e ignoro qualche sguardo cupo e severo che mi sono sentito addosso da qualche uomo di mezza età. Sorrido a tutti, non costa niente e ricevuto più sorrisi in cambio di quanti ne abbia offerti. Alla domanda “Why?” ho risposto: “Perché sono grasso” battendomi le mani sulla pancetta, in realtà è solo parte dei motivi, uno è che correre il forse fra i modi migliori di iniziare ad esplorare un posto, iniziarne ad apprezzarne i colori unici, annusarne le puzze fantastiche che ci sono qui in Africa, toccare in qualche modo, o forse sfiorare, incrociare il mio sguardo con alcuni rappresentanti di quella parte di umanità che è qui, sotto il nostro stesso sole ma che spesso non esiste a meno che non riesca ad impietosire i portafogli e far funzionare una qualche raccolta fondi di una qualche ONG.