giovedì 3 settembre 2009

South Gonder/ La lotta all'AIDS in East Estie



Un viandante, il suo mulo e il segreto del successo


“Working at light and night”, ovvero “Lavorare giorno e notte”. Questa è la semplice risposta che ci dà Wube Zuda, Coordinatore del WHAPCC di East Estie, quando gli chiediamo il segreto dei successi conseguiti nella lotta all'HIV/AIDS in questa woreda del South Gonder, indicata dai Coordinatori Federale e Regionale dell'HAPCC quale esempio da imitare nell'ambito della prevenzione e del controllo della terribile pandemia.
Non è un caso che ci sia un detto popolare, molto conosciuto da questa parti, il quale, tra serio e faceto, recita “Le iene di Estie sono meglio della gente di Estie”, facendo riferimento alla storia, non si sa quanto vera, di un viandante che, attraversando un fiume nella zona, vide il proprio mulo, carico di vivande, rimanere intrappolato tra i massi del fondale, ormai impossibilitato a muoversi; quando l'uomo chiese aiuto a dei contadini, che di lì si trovavano a passare, essi gli negarono il supporto, adducendo la giustificazione di essere impegnati nel proprio lavoro, troppo importante ed urgente per prestare attenzione ad altro. Dopo aver tentato ripetutamente di convincerli, il forestiero si rassegnò, fino a quando una iena non si avvicinò al corso d'acqua e con il suo minaccioso ringhio spaventò così tanto il mulo, da farlo balzare oltre il fiumiciattolo, finalmente libero di proseguire il cammino assieme al suo padrone.
Al di là delle implicazioni morali e della veridicità o meno dell'evento, tale breve racconto sta ad indicare la laboriosità della gente di Estie, persone da sempre abituate a tirar su le maniche per aver da mangiare, agricoltori e mercanti, da tempo avvezzi a starsene via, anche per diversi mesi, dalla propria casa, dai propri affetti, al fine di vendere i propri prodotti, fare buoni affari, guadagnarsi da vivere. E proprio il carattere migratorio di questa comunità ha costituito e, potenzialmente, costituisce tuttora uno dei fattori di vulnerabilità al virus dell'HIV, in relazione al quale appena cinque o sei anni fa si parlava, nell'area, di “allarme rosso”. Da allora, molto è cambiato, soprattutto in quest'ultimo anno, da quando cioè il fu “Mr. Sfida”, divenuto poi “Mr. Successo” (questi più o meno i soprannomi, tradotti dall'Amharico, con i quali ci viene presentato), ha preso le redini, in tale woreda, dell'organo governativo che si occupa di coordinare e pianificare, a vari livelli territoriali, le strategie nella battaglia contro il nemico AIDS, cioè l'HAPCC (HIV/AIDS Prevention and Control Council). Per avere un'idea dei risultati qui ottenuti, basti citare un dato: 35.052 persone sottoposte, quest'anno, a servizio di VCT (Voluntary Counselling and Testing), tra cui 15.208 donne, non poche su un totale di 234.059 individui, soprattutto se si considera che la seconda woreda della South Gonder Zone, in tale classifica, a condizioni assimilabili per popolazione ed estensione territoriale, fa registrare attorno alle 18.000 unità di test, vale a dire circa la metà del dato relativo a East Estie, dove le persone sieropositive attestate sono in totale 556, con una netta prevalenza femminile (F=420).
“I nostri principali campi d'attività – sottolinea Ato Wube – sono la promozione e realizzazione di siti per i servizi di VCT, PMTCT (Prevention of Mother To Child Transmission, fornita attraverso 3 postazioni fisse e ben 39 siti mobili, che hanno consentito a 2.265 donne incinte di usufruire del servizio) e ART (Anti-Retroviral Therapy, cui sono sottoposte 337 persone sieropositive), la distribuzione di materiale informativo (12.000 brochures e ben 50.000 newsletter di diverso tipo) e di preservativi (35.000 in meno di un anno), la creazione di CC (Community Conversation, presenti in 74 siti per un totale di 4.874 partecipanti, cui vanno aggiunti 22 punti nelle scuole, dove gli studenti coinvolti sono 1.540) e, più in generale, i programmi di Care and Support (come dire “sostegno e assistenza”) rivolti a PLWHA (People Living With HIV/AIDS, cioè persone sieropositive), bambini orfani ed altri gruppi sociali vulnerabili.”
Altri importanti numeri vengono presentati dal coordinatore del Woreda HAPCC, come quello dei chili di grano raccolti proprio grazie ai programmi di sostegno e assistenza intra-comunità (290 Kg), in quella che risulta essere una vera e propria “banca alimentare”, che si affianca a quella prettamente monetaria, nella quale sono depositati ben 80.000 birr (al tasso di cambio attuale, circa 4.700 euro), senza considerare le 12 abitazioni (8 di legno e fogliami, secondo tradizione, 4 dotate di strutture metalliche) tirate su dal cuore e dalle braccia di queste persone comuni, ma straordinarie nell'aiuto che hanno dato e stanno dando a chi versa in condizioni più difficili e problematiche delle loro. Programma di sostegno che, con modalità non dissimili, coinvolge pure le scuole, dove studenti e insegnanti hanno provveduto alla costruzione di 4 case e alla fornitura di 15.000 pezzi di materiale acuminato ad uso personale, potenziali mezzi di trasmissione per malattie via sangue, laddove usati impropriamente e non individualmente. Le stesse comunità locali hanno donato ben 12.000 quintali di letame, da usare come combustibile, a gruppi di PLWHA, nonché 15 pecore e 24 polli per il sostentamento di 16 bambini, cui l'Amministrazione ha donato 4,5 ettari di terreno.
A tale mobilitazione prende parte, in maniera fattiva, l'intero settore governativo a livello di woreda, il quale, proprio grazie alla spinta dell'HAPCC e delle Ong che con esso strettamente collaborano (su tutte il CVM/APA), fa registrare ben 21 bambini orfani supportati da ufficiali ed impiegati pubblici di ogni settore, il 2% del cui budget va a confluire in una cifra complessiva di circa 40.000 birr, finalizzata al generale programma di prevenzione e controllo dell'HIV/AIDS, quindi non solamente destinata al sostegno del gruppo vulnerabile degli OVC (Orphan and Vulnerable Children), ma anche a 180 individui sieropositivi (tra cui 18 bambini), che stanno ricevendo trattamenti e cure mediche gratuitamente. Sempre dal settore pubblico, con l'HAPCC nel ruolo di mediatore e facilitator, sono state donate 25 abitazioni per PLWHA (dalle Amministrazioni di kebele).
L'elenco delle attività di cui veniamo a conoscenza nel piccolo eppur accogliente ufficio del WHAPCC, dai poster pieni di numeri affissi al muro come dalle parole di Ato Wube, continuerebbe ancora, passando dalla fornitura di 50 apparecchi radio e 6 audio-registratori per Amministrazioni di kebele e scuole, finalizzati alla creazione di gruppi d'ascolto, fino all'istituzione di 7 associazioni per la lotta alla prostituzione, attraverso la figura delle anti-CSW (anti – Commercial Sex Workers), donne che sono state prostitute e perciò in grado, meglio di chiunque altro, di capire la difficile e spesso drammatica situazione di coloro che, giovani e inconsapevoli dei propri diritti e dei rischi cui vanno incontro, si trovano quasi costrette a far merce del proprio corpo per sostenersi economicamente, non conoscendo vie d'uscita e reali alternative di vita.
Tuttavia, ai fini di un'analisi completa della situazione esistente, non può mancare la domanda su quelli che sono i problemi ancora irrisolti, le difficoltà cui si continua a far fronte, pur in un quadro generale che fa senz'altro registrare il segno “più” nel bilancio di quanto sinora fatto, per lo meno da un anno a questa parte. A tal riguardo, si constata, ad esempio, una mancanza di continuità nell'attività delle Community Conversation, le quali si trovano spesso a dover ricominciare da zero progetti e condivisione di idee e conoscenze, causa quella mobilità di cui si è già trattato, caratteristica quasi endemica alla gente di Estie. A ciò vanno aggiunti problemi di natura ancor più pratica e logistica, già riscontrati in quasi tutte le aree d'intervento dei progetti AIDS, vedi la carenza di kit sanitari, soprattutto per VCT (unica barriera, a detta di Ato Wube, al raggiungimento del 100% di testati su di una popolazione ormai pienamente consapevole), e di trasporti, come pure l'assenza di buone opportunità lavorative per chi, vedi ex prostitute, tenta con fatica il reinserimento sociale, nella speranza di lasciarsi alle spalle la precedente vita. Non ultima, si riscontra pure la carenza di avanzate tecnologie e determinati macchinari per l'analisi dei campioni di sangue, i quali, dovendo viaggiare talvolta fino a Bahir Dar e Debre Tabor, rischiano di non poter più dare risultati attendibili.
Gli ostacoli, insomma, non mancano, pure in un percorso fatto a grande velocità e con balzi persino insperati, ma se la lena continuerà ad essere quella che ha finora contraddistinto e che tuttora contraddistingue Ato Wube, nella sua identità di “Mr. Sfida” come in quella attuale di “Mr. Successo”, nessuna barriera sarà insormontabile, nessun problema irrisolvibile, a patto di continuare a lavorare, a dare l'anima, alla luce del giorno o sotto quella artificiale (quando c'è) del tempo solitamente dedicato al sonno, il solo obiettivo sempre in mente, a rischio di non curarsi persino delle difficoltà di un povero sprovveduto viandante e del suo sfortunato mulo.


Simone Accattoli

mercoledì 15 luglio 2009

La città di Bahir Dar

Bahir dar gioca un ruolo centrale nel nord-ovest dell’Etiopia, anche a livello amministrativo. E’ la capitale della regione federale Amhara, capoluogo del West Gojjam ed e’ stata inoltre istituita come zona a statuto speciale.
Se pero’ci spostiamo poco piu’ in la’ nelle kebele meno centrali scopriamo una Bhair dar diversa.
Secondo il Bahir dar Integrated development Plan (BDIDP) condotto dal Federal Urban Planning Institute e dal Bahir dar Metropolitan City Administration, i problemi piu’ ingenti restano ancora quelli di una citta’ in crescita.
Sono stati individuati come questioni di primaria urgenza i seguenti problemi:
1) Gli alloggi
2) Le strutture di drenaggio e di gestione delle esondazioni ( incluso ciò che riguarda le fognature)
3) Lo smaltimento dei rifiuti solidi
4) Le strade
5) Le infrastrutture
6) I gruppi marginalizzati (bambini di starda, le prostitute, i disabili, gli anziani e la comunità Woyto)
Pur risultando la costruzione edilizia il primo termine di utilizzo delle terre di Bahir Dar (679 ettari) la carenza di alloggi rimane ancora la questione piu’ onerosa per l’Amministrazione di Woreda. Cio’ e’ facilmente comprensibile se si considera che sulla popolazione totale cittadina il 61% soffre della mancanza di una casa. Sono 27,000 le domande di alloggio non ancora soddisfatte, piu' quelle che negli ultimi anni si sono aggiunte. Questo causa un alto tasso di abusivismo; infatti le sistemazioni abusive o "alla buona" sono il 12% del totale.
Il drenaggio e i problemi di gestione delle esondazioni sono risultati essere il secondo punto cardine del piano di sviluppo. L'80% della zona e' esposta ad esondazioni ma le infrastrutture per far fronte alle emergenze sono decisamnete insufficienti, il sistema di drenaggio lascia scoperto il 70% della citta'.
La gestione dei rifiuti e' una delle questioni urbane ambientali con un grande riflesso sulla condizione della salute sociale e in generale sullo sviluppo socio-economico della citta'. Il 60% dei rifiuti viene raccolto e smaltito in qualche modo, tendenzialmente bruciato. L'unico sito di smaltimento si trova nella periferia sud, ed e' fornito di soli due mezzi di raccolta. Se guardiamo al livello di smaltimento dei rifiuti liquidi i numeri crescono pesantemente, l'85% di questi non subisce un trattamento adatto, e viene disperso nell'ambiente.
Le abitazioni generalmente non sono collegate a un sistema fognario ma neppure sono fornite di strutture autonome adeguate per l'eliminazione dei rifiuti umani: l'85% delle case non ha fosse o serbatoi settici, e il 40% della popolazione non ha neanche latrine, usa durante la notte spazi aperti come gabinetto.
La rete stradale riporta i seguenti problemi: assenza o carenza di copertura (il 46% della citta' manca delle strade di accesso), sotto standardizzazione o bassa qualita' delle strade (34 km di strada hanno l'asfalto eroso, 46 km della rete non ha una pavimentazione agibile, e 117 km di strada non sono piu' accessibili), mancanza o carenza di servizi (il 100% delle strade non sono fornite della corsia per le biciclette, tuttavia le due ruote a pedale sono il mezzo piu' usato dagli abitanti).
Uno dei maggiori problemi non solo di Bahir dar, ma di tutta l’Etiopia, è la mancanza di elettricità, per diversi mesi all’anno - i precedenti alla stagione delle piogge. In 1130 case manca il rifornimento di energia elettrica. E la maggior parte delle strade secondarie non sono fornite di illuminazione.
La coordinazione tra il lavoro delle diverse istituzioni che si occupano di infrastrutture - telecomunicazioni, rifornimento d’acqua, rete stradale e energia elettrica – è molto scarsa, per cui la costruzione di impianti risulta sconnessa e disorganizzata e si verifica un ingente spreco di risorse e tempo.
Il quadro della situazione economica mostra una citta' che prova a crescere. Secondo i risultati del censo del 1994 condotto dalla CSA , il 20 per cento della popolazione impiegata era coinvolta in attivita' manifatturiere. La pubblica amministrazione e le attivita' commerciali giocavano altri due rilevanti ruoli, mentre la quota del settore agricolo era cosi' piccola che contribuiva solo per il 4.2 per cento all'occupazione dei cittadini. Le attività svolte negli hotel, nei bar, nei ristoranti e nei negozi sono le occupazioni formali piu' diffuse nella citta' di Bahir dar, con un capitale di investimento relativamente alto, seguite, nell'ammontare degli investimenti, dai servizi sociali (salute ed educazione).
Altre attivita', non ufficiali, costituiscono il resto della struttura economica della citta'; queste sono realizzate in piccoli chioschi, gullits, lungo le strade principali e nelle unita' residenziali. I maggiori articoli dei commerci informali includono indumenti tessili, charcoal, cibo, legna da ardere, etc.
Nel 1994 la città aveva registrato un tasso di crescita del 5.5% e nello stesso tempo la disoccupazione aveva raggiunto il 20%. Attualmente il tasso della popolazione che vive sotto il livello di poverta' supera il 40 per cento del totale.
L’alto livello di povertà causa diversi drammi sociali.
Più di 5000 prostitute vivono in Bahir dar, secondo una ricerca condotta nel 2005, una “scelta” di vita dovuta all’assenza di alternative, alla difficile condizione in cui si trova la donna in Etiopia, agli abusi subiti, all’inevitabile precoce abbandono della scuola, a una gravidanza non pianificata, alla necessità di mangiare e alla velocità del guadagno.
Chi per nascita, chi a causa della malnutrizione, chi per un incidente, chi a causa di una malattia, sono 2781 i disabili che abitano la città di questi 1226 sono donne e i rimanenti 1555 sono maschi . Le strutture che se ne occupano sono praticamente inesistenti. Dalla famiglia rifiutati, dalla società esclusi, l’unico rifugio che trovano è la strada e l’unica possibilità di sopravvivenza l’elemosina.
La città è la casa di troppi bambini orfani e abbandonati, secondo una ricerca condotta dal Ministero del lavoro e degli affari sociali in collaborazione con “Save the children”, sono 11,405 i figli della strada. Ma anche in questo caso mancano le strutture adeguate all’assistenza.
Il numero di anziani soli e malati che affollano le vie della città è anche’esso molto alto, secondo uno studio del 2005, raggiungerebbe le 19.600 unità.
Un caso esclusivo di Bahir dar è la presenza della comunità Woyto, un gruppo altamente vulnerabile date le sue condizioni di vita: la maggior parte dei componenti della comunità è analfabeta e una delle poche attività condotte è la lavorazione del papiro; il livello sanitario è molto basso, sono sprovvisti di sistema adeguato di purificazione e fornitura di acqua e pure di un impianto elettrico che rifornisca le varie abitazioni. L’HIV/AIDS è un problema molto grave tra questa gente, perché date le loro abitudini, ha avuto una veloce diffusione. Una pratica diffusa nella comunità è quella di sposarsi con più mogli o mariti contemporaneamente o divorziare ripetutamente, e avere innumerevoli partner sessuali. La pratica dei matrimoni precoci è un'altra consuetudine dannosa: le figlie femmine sono date in sposa in tenera età a persone sconosciute, senza un precedente esame del sangue di controllo.
Questo il quadro di Bahir dar disegnato dall’Istituto federale di pianificazione urbana e dall’Amministrazione cittadina.
Ma quale l’obiettivo? “Attraverso ingenti investimenti e lo sviluppo del turismo, Bahir dar potrà diventare un più confortevole habitat per vivere e lavorare, così da diventare un modello e un’attrattiva rispetto a tutta l’Africa, e anche un forte centro amministrativo”, Primaria è l’attenzione allo sviluppo economico e amministrativo della città, mentre la modernizzazione delle infrastrutture è centrale per renderla agibile e confortevole, come meta turistica date le sue bellezze naturali e culturali.
I gruppi vulnerabili di qui si è tenuto conto, sono, infatti, i nei di una città perfetta, gli abitanti della strada, il segno evidente della povertà e dell’arretratezza.
Crescita intesa come acquisto di importanza e prestigio, progresso inteso come economico e turistico. Ma per raggiungere uno sviluppo definibile tale è essenziale anche preoccuparsi della trasformazione sociale e culturale di un paese, è importante dare attenzione alla crescita umana, al rispetto dei diritti, al livello dei servizi sociali. Nella lista delle 33 questioni problematiche di Bahir dar, l’HIV/AIDS risultava essere al quarto posto, ma non è stata poi inclusa nella valutazione finale riguardante le aree prioritarie per il Bahir dar Integrated Development Plan. Come pure la salute che risultava essere al quinto posto e l’educazione al decimo.

Laura Andena
Servizio Civile Etiopia

martedì 7 luglio 2009

Il diritto di correre dietro a un pallone


East Gojjam/ “Beruh-tesfa” Orphan Association



È quasi tutto pronto, le tavole attendono i vassoi con il cibo, le bevande sono già state servite e si aspetta solo qualche ritardatario in questa domenica di festa e condivisione, organizzata dalla “Beruh-tesfa” (letteralmente “futuro luminoso”), associazione di bambini orfani creata qui a Debre Markos (East Gojjam Zone, Etiopia) dal CVM, che la sostiene economicamente e ne dirige e organizza tutte le attività, da quelle ricreative ai corsi di formazione, dal supporto scolastico alle campagne di sensibilizzazione sull'HIV/AIDS.
C'è chi, soprattutto le fanciulle, si dà da fare per preparare l'injera, pietanza tipica, e chi invece si dedica alla “cerimonia del caffè”. Nel frattempo, accanto a me, si è seduto il piccolo Abiy, 12 anni, della cui passione vengo presto a sapere: “È bello essere qui con tutti i miei amici. Insieme facciamo tante cose: organizziamo spettacoli, recite e poi giochiamo a calcio, che è ciò che preferisco.” Un'idea che il piccolo Abiy condivide con tanti altri, visto che le attività sportive promosse dal CVM nell'East Gojjam coinvolgono 450 bambini e ragazzi, maschi e femmine e non solo orfani, provenienti dalle woreda di Debre Markos ed Enemay.
Calcio, pallavolo e gare di velocità sono gli sport più gettonati e i tornei organizzati in estate rappresentano il momento clou per tutti questi giovani, vinca la squadra della “Beruh-tesfa”, quella di una kebele (come dire “quartiere”) di Debre Markos o quella dei ragazzini dello “Sheltering Program”, cui il CVM dà alloggio temporaneo, poiché, a differenza degli orfani della “Beruh-tesfa”, questi bambini di strada non hanno parenti in zona che li possano ospitare. Ai palloni, alle divise, ai premi e a tutto l'occorrente per le competizioni provvede l'Ong marchigiana, assieme ai suoi partner, in primis l'Ufficio di Woreda per lo Sport e le Attività Giovanili. Tutte le persone coinvolte in tali eventi credono nello sport quale veicolo di sensibilizzazione, informazione e mobilizzazione, utile a trasmettere messaggi importanti, tra i ragazzi e pure al pubblico, soprattutto per quanto riguarda la lotta all'AIDS, come prevenirla e starne lontani. Inoltre, avvicinando i giovani alla sana competizione, li si allontana da pericolosi e insani passatempi, spesso collegati a criminalità e malattie. L'attività fisica, in genere, è da sempre mezzo per sviluppare il proprio corpo e la propria mente. Il CVM lo sa bene e dà a questi bambini e ragazzi l'opportunità di divertirsi e stare insieme, condividendo esperienze, insegnamenti e pensieri.

Simone Accattoli

mercoledì 1 luglio 2009

Conferenza Regionale HIV/AIDS: Bahir Dar - Etiopia

C'è anche il CVM (Comunità Volontari per il Mondo) tra i protagonisti, in Etiopia, della prima Conferenza Regionale sulle Risposte alla Problematica HIV/AIDS in Amhara, evento in realtà a valenza nazionale e di respiro internazionale, vista la platea dei partecipanti, iniziativa che ha luogo dal 22 al 24 giugno a Bahir Dar, città capoluogo proprio della regione più colpita dalla tremenda pandemia, nell'ambito di una nazione già di per sé ai primissimi posti nella triste graduatoria mondiale sulla diffusione del virus dell'immunodeficienza umana.
E proprio con un'esaustiva presentazione del quadro generale relativo alla diffusione dell'HIV/AIDS e della strategie messe in atto per far fronte alla pandemia si apre il convegno, non prima però della solenne inaugurazione, con tanto di bandiere, canti e costumi tradizionali, alla presenza del rappresentante per l'Etiopia delle Nazioni Unite, del responsabile US-AID e del Presidente della Regione Amhara, Ayalew Gobezie, che passa in visita tutti gli stand allestiti nella hall del Mulualem Cultural Center, tra cui quello del CVM, che si trova a giocare un ruolo di primo piano nell'occasione, al fianco di “giganti” del mondo della cooperazione internazionale, quali US-AID, Unicef, Hi-Tech, la tedesca GTZ e DKT (attiva con un ampio progetto di sensibilizzazione sull'uso del preservativo), assieme ad altre associazioni autoctone (vedi PLWHA's Associations, presenti con bancarelle recanti i prodotti delle loro IGA) e ovviamente agli organi governativi impegnati nella dura lotta all'AIDS, su tutti l'HAPCC, promotore ed organizzatore, assieme all'ufficio regionale del CVM, di tale iniziativa, resa possibile dai fondi di Unicef Etiopia e Population Council.
Ai discorsi d'apertura tenuti dalle succitate personalità convenute e alla presentazione generale, con tanto di dati e riferimenti statistici, effettuata da Ato Getaneh, Presidente dell'HAPCC, fanno seguito gli interventi di due ricercatori, Matthew Greenall ed il professor Yemaneh, i cui studi analizzano il generale stato dei programmi di prevenzione finora implementati nell'area d'interesse, evidenziandone caratteristiche, risultati e gap. Già dalla prima mattinata, insomma, emerge con evidenza la ragion d'essere di tale convention, cui prendono parte oltre 400 tra alte cariche governative e rappresentanti del mondo delle Ong e della cooperazione internazionale, vale a dire il discutere e fare il punto sui risultati ottenuti dal lavoro fin qui svolto nella battaglia contro l'HIV/AIDS, raccogliendo testimonianze ed esperienze e presentendo gli ultimi studi e ricerche effettuate sul tema, utili ad indirizzare nuove strategie condivise.
Tra le testimonianze rese pubbliche dinnanzi all'ampia platea, spiccano quelle di membri di associazioni di persone sieropositive e di prostitute, categoria quest'ultima indicata fin da principio quale “cuore” della questione, tanto da veder su di sé focalizzata l'apertura del programma pomeridiano, attraverso uno studio incentrato sulla situazione e le pratiche sessuali diffuse nei locali notturni e nelle alcohol house di tre cittadine di East e West Gojjam, analisi alla quale si affianca una simile con oggetto coloro che lavorano come donne di servizio a Bahir Dar, risultate mediamente non del tutto consapevoli dei rischi cui vanno quotidianamente incontro, in considerazione degli abusi sessuali di cui sono spesso vittime. A tali presentazioni, si allacciano poi gli interventi sull'uso del preservativo quale metodo di prevenzione da malattie sessualmente trasmissibili, in primis l'AIDS: da una ricerca realizzata da PSI (Population Services International) Ethiopia, risulta che in Amhara solo il 35,9 % tra le donne e il 74,9 % tra gli uomini è a conoscenza di ciò. Contestualmente, viene presentato il “Comprehensive Condom Programming”, progetto targato UNFPA. Dal focus di genere, che vede tappe importanti nell'intervento del professor Semegnew, di IntraHealth Ethiopia, riguardante i Gruppi di Sostegno Madre-a-Madre (MSG), e in una generale valutazione sull'implementazione, a livello regionale, dei programmi di PMTCT (Prevenzione della Trasmissione da Madre a Bambino), l'argomento si sposta sulle strategie mediatiche attuate e da potenziare nella lotta alla pandemia: si va dal bell'esempio dell'Education Media Center di Gonder, attivo con gruppi di radio ascolto e specifici programmi scolastici per giovani e bambini, fino ad un'interessante presentazione dell'operato della Lambadina Foundation, iniziativa dell'EVMPA (Ethiopian Volunteer Media Professionals against AIDS), un gruppo di giornalisti professionisti unitisi allo scopo di pianificare ed attuare metodi per combattere l'AIDS all'interno del proprio settore di competenza, sfruttando cioè i canali a loro disposizione.
Il tema della comunicazione è presente anche nel secondo giorno della conferenza, attraverso la presentazione di un progetto dell'Università di Bahir Dar, che intende sfruttare la larga diffusione dei telefoni cellulari, in particolare dell'uso di SMS, tra studenti e giovani in genere per attuare campagne di sensibilizzazione ed informazione sulla questione HIV/AIDS. Mondo universitario che risulta mobilitato anche mediante un'iniziativa denominata “Campus Life Program”, che ha quale target specifico gli studenti e come obiettivo generale il ridurre la loro vulnerabilità al rischio di trasmissione del virus, non solo grazie alla distribuzione di materiale informativo, ma anche attraverso la disponibilità di strutture ed opportunità d'aggregazione, che portino il più lontano possibile dalla frequentazione di ambienti malsani e da pratiche quali l'(ab)uso di alcool e chat. Quella sull'abuso di alcool e chat, tanto diffusi a varie età e livelli della società, è una delle tematiche che più accendono gli animi e fanno discutere la platea presente, al momento delle domande aperte, tanto che il rappresentante dell'Addis Continental Institute of Public Health, subito dopo aver presentato un approfondito studio al riguardo, si trova costretto a mediare di fronte agli interventi in difesa dell'uso di chat, affermando che il problema non sta tanto nelle sostanze in sé, quanto piuttosto nell'abuso che spesso se ne fa, portando questo alla perdita di controllo e a condotte comportamentali sregolate. Grosso modo stessa vivacità di dibattito e ancora maggior scalpore provocano, poco dopo, i risultati di uno studio riguardante la pratica dell'early marriage (matrimonio precoce), condotto da Population Council e presentato dal Direttore Paese dell'Ong americana, Annabel S. Erulkar, la quale, di lì a poco, sosterrà con forza la veridicità di quanto esplicato, citando le fonti di ricerca, soprattutto in relazione al dato che provoca un moto di sdegno nella platea: la Regione Amhara farebbe registrare un tasso di divorzi tra i più alti nei Paesi africani (e non solo), questo a causa dei tanti matrimoni combinati e nonostante la forte presenza ed influenza della Chiesa Ortodossa sulla vita della popolazione. All'argomento religione si dedica precipuamente il Dr. Tekle-Ab Mekbib, anch'egli di Population Council, il quale spiega in cosa consiste la “Developmental Bible”, sorta di manuale atto a mobilitare il clero ortodosso nei progetti di sviluppo sociale e sanitario.
Attraverso i concetti di mainstreaming e leadership si arriva così al programma pomeridiano, che prevede, fra l'altro, il momento del CVM/APA. Esattamente alla questione della leadership si collega l'intervento di Ato Getachew Kassa, Rappresentante Paese dell'Ong marchigiana, il quale, dopo aver sommariamente trattato il profilo, la storia e l'impegno del CVM, attivo in Amhara, nel campo dell'HIV/AIDS, da 15 anni, assieme ad APA (AIDS Partnership for Africa), si focalizza sul ruolo che lo stesso CVM ha giocato, nel corso degli anni, nel sensibilizzare gli apparati governativi sul tema AIDS e nell'indirizzare gli stessi leader politici, ad ogni livello, verso un concreto impegno, che ha visto la propria maggiore attuazione nel 2000 con l'istituzione, dall'ambito regionale fino a quello di kebele, dell'HAPCC (HIV/AIDS Prevention and Control Council), l'ente appositamente creato dal Governo per far fronte alla terribile pandemia. In particolare, le attività messe in evidenza dalla presentazione vanno dall'advocacy alla cosiddetta opera di capacity building, da realizzarsi attraverso corsi di formazione, workshop e meeting, a vari livelli, da quello regionale a quello di kebele, passando per zone e woreda, senza trascurare ovviamente la pubblicazione e la distribuzione di materiale informativo, vedi la newsletter “Together”, presente anche negli uffici amministrativi e di vari enti governativi. Tale impegno del CVM/APA ha visto, quali risultati, la creazione di enti ed eventi all'uopo e più in generale una crescita nell'impegno della classe politica su più fronti, da quello dell'immagine e dell'esempio personale, come nelle campagne di promozione dei servizi di VCT (Test e Consulta Volontari), ART e PMTCT, fino alla più concreta decisione di allocare il 2% delle risorse finanziarie di ogni settore governativo alla lotta contro l'AIDS. Meriti questi, che Ato Getachew indirettamente ascrive alle alte cariche governative presenti, senza tralasciare però i gap ed i limiti ancora da superare nell'ambito della leadership, vedi l'incapacità di alcuni amministratori di woreda e kebele nel gestire e coordinare i programmi di prevenzione e controllo dell'HIV/AIDS oppure l'inadeguato sistema di scambio di informazioni e documentazione tra i vari livelli amministrativi. Da ciò anche una valutazione sulle strategie da implementare nello specifico ambito, vedi una migliore preparazione e formazione dei leader a livello locale sull'argomento. In definitiva, si tratta di una presentazione che, in neanche mezz'ora, non può certo dare l'idea di tutto quanto fatto dal CVM in questi 15 anni nella battaglia contro l'HIV/AIDS: solo per citare le occasioni in cui l'Ong con sede legale ad Ancona è stata in grado di anticipare persino i “giganti” della cooperazione internazionale, il CVM è stata la prima Ong a stabilire in Amhara una banca del sangue, la prima ad organizzare e attuare TOTs (Training Of Trainers), ovvero corsi di formazione per futuri formatori nell'ambito dell'educazione ai temi dell'HIV/AIDS, la prima a collaborare strettamente nell'ambito con gli organi governativi e ancora la prima nella graduatoria di materiale informativo distribuito nella regione, dove circa l'85% di pubblicazioni IEC (Informazione Educazione Comunicazione) risulta marcato CVM. É dando un'occhiata proprio alle brochure, ai pamphlet e alle newsletter, che costellano lo stand dell'Ong, che si riesce ad avere una certa, pur parziale, idea di tutto il lavoro da essa fatto a partire dal 1994, della filosofia che l'ha spinta ad agire per lo “sviluppo di tutto l’uomo e di tutti gli uomini” nel corso di 30 anni, da quando cioè ha iniziato ad operare in Etiopia con progetti di approvvigionamento idrico.
Il meeting va poi avanti tra la discussione su di una specifica strategia, vedi la Community Conversation o le cosiddette IGA (Attività Generatrici di Reddito), e la presentazione dell'operato di una particolare organizzazione, vedi l'OSSA o gli interessanti interventi a carattere prettamente medico e scientifico da parte dei rappresentanti di Hi-Tech, il cui Direttore Clinico, Getachew Feleke, si sofferma in particolare sull'utilizzo dei servizi ART (Terapie Anti-Retrovirali). Dopo la spiegazione dedicata alla prevenzione nei luoghi di lavoro, larga parte hanno gli interventi “targati” US-AID, riguardanti i progetti e le strategie atte a coniugare e porre in sinergia il settore medico pubblico e privato ed organizzare il sistema farmaceutico andando incontro alle esigenze della popolazione.
La terza giornata include solo la mattinata, nella quale, dopo alcune ultime presentazioni (da parte, ad esempio, di SCMS e UNFPA), con un occhio di riguardo ad orfani e bambini di strada, figli spesso della pandemia e delle sue conseguenze, il palcoscenico viene lasciato agli interventi conclusivi delle maggiori personalità presenti, vedi il rappresentante per l'Etiopia delle Nazioni Unite, il delegato di US-AID e ovviamente Ato Getaneh, Presidente dell'HAPCC, che ringrazia tutti i partecipanti e presenti al grande evento, auspicando che esso sia stato utile ad acquisire conoscenze e consapevolezza, come pure a gettare le basi per nuove e ulteriori strategie nella grande battaglia che ancora attende tutti gli enti e soggetti interessati. Un aspetto comune, infatti, emerge dagli interventi conclusivi: nella lotta al nemico comune chiamato HIV/AIDS, molto è stato fatto finora, ma moltissimo deve ancora essere fatto, tanto dagli enti governativi quanto dalle organizzazioni non governative, associazioni e società civile, in uno sforzo comune ed in base ad un approccio davvero multisettoriale.
E alla fine, le fiaccole in mano a tutti i convenuti, alte cariche governative e rappresentanti di associazioni di sieropositivi, delegati di importanti Ong e studenti, giornalisti e semplici curiosi, rappresentano una unione d'intenti, che si spera possa dare frutti concreti laddove il nemico AIDS ancora prospera, là, fuori dalle mura della grande sale del convegno, e non rimanere una mera presentazione in Power Point.

Simone Accattoli

giovedì 18 giugno 2009

La primordiale bellezza



Fisso, non senza qualche preoccupazione, l'intruglio grigiastro che mi hanno appena versato nel bicchiere. Si chiama borde, mi dicono, ed è una bevanda tradizionale di questa gente, i Gumuz, di cui tanto ho sentito parlare prima di giungere qui, in Benishangul, ed averli finalmente di fronte, nei miei occhi i loro, resi quasi lucenti dal contrasto con la pelle nerissima, da Africa profonda, ancestrale, primitiva. Ne ho visti un bel po' di volti come questi, anche là fuori, nel rutilante caos del mercato di Gelgel Beles, tra vacche e cipolle, capre e sacchi di berbere, vasi e tessuti lavorati a mano. Ho visto donne o, meglio, esseri umani “da soma” assumere il sembiante di bilance e trasportare sacchi di merci varie, tenuti alle estremità di bastoni in legno. Ho visto i loro volti bagnati dal sudore, ma non per questo distorti in smorfie di sofferenza o fatica. Li ho visti, talvolta, aprirsi ad un sorriso davanti all'obiettivo della mia macchina fotografica. Non ho visto, però, i loro uomini, quei maschi che danno il nome alla stessa etnia (il significato della parola “Gumuz” è riconducibile a “Maschio”), dato che il mercato, vengo poi a sapere, è territorio esclusivo del genere femminile.

Sono tutte donne, con l'eccezione di qualche pargolo, anche quelle che ci hanno accolto in questa spartana bettola, ai margini della spianata dove si svolge il mercato settimanale. Mentre i loro uomini si dedicano al duro lavoro della terra o alla pratica della pastorizia, loro offrono ristoro agli avventori. In questo caso, il clima conviviale che si instaura, unito alla curiosità che un ferengi “viso pallido” come me da sempre suscita in tali contesti, aiuta il dialogo, la condivisione e lo scambio di conoscenze. Così, vengo a sapere che colei che gestisce tale sorta di locanda è in realtà una “mezzosangue”, madre Gumuz e padre Oromo (altra etnia di questo Paese, di fatto una delle più numerose). Ci parla dei piccoli segnali di civilizzazione, che stanno caratterizzando la vita delle comunità Gumuz negli ultimi tempi. Ci indica, ad esempio, i vestiti che ha indosso, di fattura industriale benché non firmati, ben lontani insomma dalla semplice copertura delle proprie “vergogne”, scarno indumento tipico delle comunità più lontane dai villaggi. Ci parla, poi, della sua attività, nella cui gestione è comunque abbastanza libera e indipendente, tanto da permettersi il lusso di esporre persino qualche soft-drink di rinomata marca.

La ascolto con interesse o, meglio, ascolto con interesse la traduzione fornitami in tempo reale da Alghina, collaboratrice CVM ed altra “mezzosangue” Amhara-Gumuz. Sto in ascolto, apprendo, rifletto. E continuo a riflettere anche sul da farsi circa quel liquido grigiastro e denso che è ancora lì, nel mio bicchiere e che verosimilmente non sparirà da sé, benché lo desideri fortemente, al fine di evitare il rischio di possibili contaminazioni (chissà con che tipo di acqua l'hanno preparato?!), senza venir meno a quella sorta di “imperativo sociale” che ti fa fare di tutto pur di accettare l'ospitalità altrui, sotto qualunque forma essa si presenti, pena un'implicita “ingiuria” culturale. Mentre tentenno davanti al borde, ecco che l'ennesimo dilemma gastronomico della mia avventura etiope mi si para dinnanzi, senza che sia peraltro riuscito a risolvere la situazione relativa alla problematica bevanda di cui sopra. Mi arrivano, infatti, in mano dei semi scuri e secchi, o almeno così credo. I miei commensali abesha se li infilano in bocca senza pensarci troppo. Alla fine, lo spirito d'emulazione prevale, rafforzato dalla dimensione collettiva e sociale del contesto. Ma sì, ne prendo uno anche io. Il sapore è molto amaro, per nulla piacevole, ma mi accontenterei solo che non avesse conseguenze sul mio apparato gastro-intestinale, delicato come solo quello di un ferengi (straniero, “bianco”) in Etiopia può essere. Staremo a vedere. Intanto, mi dicono che questi semi vengono considerati dalla tradizione quale medicinale in grado di prevenire la malaria. Ah be', allora: se lo considerano un medicinale, tanto male non potrà fare.

Distolgo finalmente il pensiero dalla mie paranoie nutrizionali, per quanto giustificate possano essere, e presto attenzione ai volti che ho dinnanzi. I loro lineamenti e colore mi affascinano, come quelli della donna che appare divertita dalle foto che le vengono scattate; come questi bambini e fanciulle, ammirevole commistione tra la delicatezza data dalla giovane età ed il forte impatto che hanno su di me le loro fisionomie da profonda Africa; come quella donna che, là fuori, poco distante, allatta il suo pargolo, i prosperosi e neri seni quasi interamente scoperti, ché in fondo non c'è motivo di pudore laddove è Natura a dettar legge. Gesti e usanze semplici, senza falsi perbenismi o complicati schemi comportamentali propri di altre culture, definite più “avanzate”, sotto alcuni aspetti anche a ragione, senza qualunquismi né ipocrisie. Ma, in questo momento, tra tali creature, tutto ciò che ho appreso di “buono” e “cattivo” su questa gente, compresi elementi di oggettiva arretratezza in senso civile, sociale ed economico, fino ad arrivare a particolari usanze ai limiti del rabbrividente, ebbene tutto ciò passa per un attimo in secondo piano. Nel tentativo di comprensione (nel senso letterale del termine, che va oltre il solo “capire”), ogni giudizio morale si sospende ed un unico pensiero, quasi una preghiera, mi occupa la mente: che Dio benedica queste sue magnifiche creature, queste donne, queste anime semplici e un po' bambine!


Simone Accattoli

Volontario in Servizio Civile, Etiopia

martedì 9 giugno 2009

Tutte le sfumature del Nero


Prologo: la bussola geo-etnica e i problemi d'orientamento

Con il mio amico e collega abesha Betre si discute, davanti ad un piattone di injera e shiro wot, sul significato e sulla sussistenza o meno del termine “Etiopia”. Quale idea e, conseguentemente, quale realtà associare a tale parola? “Etiopia” o, potremmo dire, “Etiopicità” sembrano essere segni ambigui, cui non corrisponde un significato e, quindi, un referente univoco, per dirla con i paroloni della Semiotica.
Se è vero, come è vero, che per molte genti, appartenenti alle etnie più disparate e pur presenti all'interno dei confini della stessa Nazione, la parola “Etiopia” non è altro che un'etichetta, un marchio spesso scomodo affibbiato loro da un'istituzione al più estranea, lontana, aliena; se è vero, come è vero, che, solo poche ore fa, nell'ufficio CVM del Metekel, la giovane Alghina, mezzosangue Amhara-Gumuz, affermava chiaramente “Io non sono abesha”, aggettivo quest'ultimo che potremmo, pur con le postille del caso che non si starà qui ad aggiungere, tradurre con “Etiope”; se è vero tutto ciò che sto avendo modo di capire, vedere e sentire in questo altro pezzo d'Etiopia che si apre alla mia curiosità, alla mia esperienza, ai miei occhi, il Metekel, Regione del Benishangul-Gumuz, tanto duro da vivere quanto interessante dal punto di vista culturale, etnico ed antropologico; be', allora la questione non è affatto di poco conto e non può dirsi ristretta all'ambito quasi sofistico di un giochino logico o di una sciarada di parole, avendo invece fattuali ricadute e riflessi sulla reale situazione di questo grande Paese e su ciò che sarà di esso, sul suo futuro.
“Etiopia”, dunque, come mera istituzione politica, Stato (più o meno) democratico guidato da un Governo Federale, specifica frazione di un'aggiornata cartina geo-politica, oppure, andando un po' in profondità e legando il termine a quello di Ethiopianness (il sentimento della “Etiopicità”), il cuore culturale, storico e politico del grande ideale propugnato e portato avanti da re Theodoros, da molti considerato quale “Padre della Nazione”, e cui poi Menelik II, con le sue conquiste, diede le attuali forma e dimensione? Un cuore, questo, ben identificabile con le attuali Regioni Amhara (in sostanza, il Gojjam e Gonder) e Tigray, quelle solcate dal fiume Abbay (il Nilo Blu), di cui parla persino l'Antico Testamento, identificandole proprio con la Terra d'Abissinia. Si scava nella profondità e nelle origini del concetto, complicando non poco la questione.
Complessa è infatti la realtà che si mostra, in questi giorni, ai miei occhi. Si discute, davanti allo shiro e a due bottiglie di Dashen Beer, ma senza la pretesa di arrivare a risposte o soluzioni univoche. Complessa è la realtà e, per questo, affascinante. Come non sono affatto privi di fascino questi volti, quelli dei Kai (“Rossi”) Amhara, spesso riconducibili a fisionomie “occidentali”, e quelli scuri e duri, come l'ebano, degli Shenasha e ancor più dei Gumuz. Non lo sono le storie che ho avuto modo di ascoltare, all'appena refrigerante ombra di un bar o in un caratteristico villaggio dalle spartane capanne di fango e paglia, i racconti in cui la leggenda si confonde con la storia, una storia che parla di sopraffazioni e schiavitù, di migrazioni e battaglie, di odi ancestrali e macabre usanze, come pure di assimilazioni e spinte “civilizzatrici”. La realtà è in continuo divenire, come è vero però che il passato non muore mai. E allora, ancora una volta, cos'è l'Etiopia? Un qualcosa che stenta ancora ad essere, a formarsi, o qualcosa che c'era già molto tempo fa e si è poi mescolata con Altro da Sé, espandendosi o, meglio, inglobando ciò che gli stava attorno e chiamandolo con il proprio nome? Processo di liberazione nazionale, laddove una Nazione (nel senso Romantico del termine, quale insieme di genti unite da identica cultura, lingua e storia) già era presente seppur non istituzionalizzata, o piuttosto cammino di conquista di un popolo su altri, meno forti e capaci a difendersi, invasione con conseguente più o meno (mal)riuscita assimilazione? Da quanto ho avuto modo di comprendere, vedere, intuire, la seconda opzione sembrerebbe quella più vicina alla realtà storica, sebbene la realtà sia sempre un qualcosa di difficilmente definibile, un qualcosa che sta lungo un continuum, muovendosi di volta in volta tra gli estremi di due definizioni, come quelle di cui sopra, che servono più che altro da parametro, strumento per rapportarsi a un qualcosa che è di fatto molto più complesso e “fluido”.
“Io non sono abesha” ha detto Alghina questo pomeriggio. E a pensarla come lei sono, probabilmente, molte altre persone in queste ed altre parti d'Etiopia (qui nel senso prettamente geo-politico ed istituzionale del termine). Si prendano in considerazione gli appartenenti al fronte di liberazione dell'Oromia, i tanti musulmani di etnia somala presenti nel sud-est del Paese e, ancora, piccoli e sparuti gruppi di dissidenti e pseudo-combattenti, che vivono rifiutando qualsiasi tipo di appartenenza nazionale, come i guerriglieri (se così si possono definire, enfatizzando un po') sulle montagne di Armacho, in North Gonder, presso il confine settentrionale con il Sudan. Penso alle donne dai volti duri e scuri, che ho visto proprio da queste parti, al mercato di Gelgel Beles, con bastone e sporte sulle spalle. A coloro che vivono lontani dalle città e dai paesini, le giornate scandite da pratiche e usanze pressoché immutabili nei secoli, quasi immuni all'invasivo processo di globalizzazione, come pure al progresso civile, dato da quell'affermazione di diritti fondamentali che può passare solo attraverso l'educazione. La pensano un po' allo stesso modo, forse, anche quegli uomini di etnia Gumuz, come l'Amministratore della woreda di Mandura, i quali si trovano qui pienamente (?) inseriti in contesti istituzionali, lavorando fianco a fianco con Amhara e rappresentanti governativi in genere, la bandierina con i colori panafricani e la stella del Millennio a far bella mostra di sé sulla scrivania del proprio ufficio.
E allora, dove mi trovo in questo momento, a parte davanti all'ennesima injera della settimana? In Etiopia, sì; ma anche nella terra dei Gumuz e dei Shenasha; come pure tra l'Abissinia citata nelle Sacre Scritture e l'odierno Sudan. Mi trovo, questo posso affermarlo con chiarezza, in un luogo dal caldo asfissiante, fattore climatico che non aiuta certo la lucidità mentale e il discernimento, bensì la fusione dei propri neuroni. Insomma, basta scervellarsi inutilmente, tentando di trovare definizioni, applicando categorie storiche e filosofiche ad una realtà che si conosce da così poco tempo. Raccontare: ecco cosa mi limiterò a fare... dopo aver finito lo shiro che è ancora nel piatto.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

giovedì 28 maggio 2009

E le porte di casa si son poi aperte...



North Gonder/ Housemaids Association

C'è Etiye che, china sulla jebena, prepara il caffè secondo tradizione. C'è Assefu, dal capo coperto, e accanto a lei Enanitu, che sfoggia caratteristiche treccine. C'è la taciturna Hana e c'è anche, ogni tanto, Zenbu che, forse intimidita, passa la maggior parte del tempo fuori dalla piccola stanza. Sono una di fianco all'altra, vicine pure nelle esperienze di vita, tali ragazze, figlie d'Etiopia, che prestano servizio nelle case della woreda di Azezo. Sono componenti dell'Alem Housemaids Association, cioè l'associazione di domestiche sorta tre mesi fa e promossa da CVM/APA, al fine di educare, rafforzare e rendere meno vulnerabili a soprusi e violenze queste giovani di campagna.

Oggi, queste ragazze, qualche tempo fa paralizzate dalla paura, nelle case come durante i training psicologici e sanitari del CVM, sono di fronte a me, per parlare delle loro vicende, come fanno ogni domenica, nell'ufficio dell'Anti-HIV/AIDS Association, dove si ritrovano per discutere della settimana trascorsa, per condividere, tra un sorso di caffè e l'altro, le proprie esperienze e problemi. Si può immaginare la difficoltà nel convincere i padroni di casa a lasciarle andare, anche solo per un giorno alla settimana: un lungo lavoro di perseveranza, specialmente da parte dei volontari dell'Anti-HIV/AIDS Association. In totale, le ragazze sono 25 e tutte provenienti da quell'Azezo Woreda dove violenze e abusi sessuali sono quasi tradizione.

“Vengo dalla campagna – racconta Enanitue, dopo la morte di mio padre, non ho potuto continuare gli studi ed ho iniziato a lavorare come domestica. Adesso, la situazione è migliore rispetto all'inizio e, grazie al training, mi sento più sicura di me.” Etiye interrompe la preparazione del caffè per aprire la nera scatola dei ricordi: “Nel nostro lavoro, ci sono molti problemi, come i maltrattamenti cui spesso veniamo sottoposte. Io, ad esempio, sono stata più volte insultata, picchiata, bagnata con l'acqua bollente e pure... stuprata.” A questo punto, la voce di Etiye diviene flebile suono, rotto dall'emozione, e la sicurezza iniziale si scioglie in lacrime. Ma è solo un attimo, in un rapido cenno la mano spazza via l'angoscia, gli occhi tornano sulle tazzine pronte a ricevere il nero nettare che qui chiamano bunna.

Ora, si chiacchiera serenamente, sorseggiando caffè. Le ragazze si aprono al dialogo, abbattono le barriere che spesso ci rendono monadi, mondi a sé, chiusi all'Altro, finché, nel misterioso specchio dell'empatia, nell'Altro non si ritrova se stessi.


Simone Accattoli

Volontario in Servizio Civile, Etiopia

venerdì 15 maggio 2009

Ragazze, ce la possiamo fare!


Come funzionano i fondi rotativi CVM

“Wasichana tunaweza” è il motto delle ragazze di Bagamoyo che partecipano al progetto di rafforzamento del ruolo femminile nella società che CVM sta portando avanti nel Distretto di Bagamoyo. Significa “Ragazze, ce la possiamo fare” ed è veramente quello che le ragazze stanno facendo, grazie a piccoli prestiti elargiti secondo le modalità dei fondi rotativi.
CVM ha identificato 18 villaggi del Distretto in cui aprire i fondi rotativi. 12 di questi fondi si rivolgono alle ragazze e 6 alle donne. Per quanto riguarda le ragazze, ogni fondo è stato pensato per essere gestito da associazioni composte da 32 ragazze. Ogni associazione è suddivisa in 4 sottogruppi di cui fanno parte 8 ragazze. I 6 fondi rotativi rivolti alle donne sono invece gestiti da 24 donne, suddivise in 4 sottogruppi composti da 6 donne l’uno.
I fondi rivolti alle ragazze fanno circolare 4.000.000 di Scellini Tanzaniani l’uno (l’equivalente di circa 2.500 Euro), mentre quelli per le donne ammontano a 3.000.000 di Scellini Tanzaniani l’uno (l’equivalente di circa 1.875 Euro). L’ammontare massimo del prestito ottenibile è di 500.000 Scellini Tanzaniani (l’equivalente di circa 310 Euro). Le donne, più sicure di sé e spesso già impegnate in attività economiche da tempo, chiedono solitamente prestiti da 500.000Tsh per migliorare la propria attività o porne in essere di nuove. Le ragazze, invece, puntano a prestiti dall’ammontare inferiore, a partire da 100.000Tsh. Gli interessi ammontano al 10% del prestito, e servono per coprire i costi di gestione che la segretaria del gruppo deve sostenere, ad esempio le spese di trasporto per portare i soldi in banca, e per proteggere il fondo dall’inflazione che in Tanzania è galoppante (un tasso medio annuo del 10,3% nel 2008). Inoltre, oltre alle restituzioni mensili, le donne e le ragazze stanno iniziando a depositare sui conti correnti bancari del proprio gruppo delle piccole somme a titolo di risparmio.
CVM ha organizzato la formazione delle prime 48 ragazze (6 gruppi) e 36 donne (6 gruppi) in giugno 2008. Le ragazze e le donne hanno partecipato ad un corso di stampo economico, della durata di 10 giorni, in cui sono state fornite informazioni relative a come gestire una piccola attività economica, come tenere una basilare contabilità ed il funzionamento del fondo rotativo. Le 48 giovani hanno poi frequentato altri 5 giorni di formazione per diventare educatrici dei propri coetanei relativamente all’HIV/AIDS, al cambiamento comportamentale, alla salute riproduttiva ed ai diritti umani.
Il momento formativo a cui donne e ragazze partecipano è molto importante, serve loro per riflettere sul fondo rotativo, sulla responsabilità che hanno verso gli altri membri del gruppo e focalizzare sull’attività che svolgeranno. E’ successo infatti che alcune ragazze, dopo la formazione, abbiamo deciso di lasciare il programma perché non si sentivano in grado di ripagare il prestito.
I primi gruppi di donne e ragazze, formati a giugno, hanno ricevuto i prestiti in settembre mentre altre 48 ragazze, appartenenti a nuovi 6 gruppi, sono state formate a novembre 2008 ed hanno ricevuto i prestiti in gennaio 2009. Le restituzioni dei prestiti stanno procedendo bene, con le dovute piccole eccezioni che non possono mancare in ogni “buona famiglia”. Comunque, il denaro delle restituzioni continua ad alimentare i fondi. Così, in febbraio 2009, le donne e le ragazze appartenenti ai secondi sottogruppi dei 12 fondi rotativi aperti in settembre sono state formate e stanno ottenendo i prestiti, man mano che i ripaganti dei primi sottogruppi rimpinguano i rispettivi fondi rotativi. Nelle prossime settimane di maggio saranno i secondi sottogruppi dei 6 fondi aperti a gennaio a ricevere la formazione ed i relativi fondi sono già pronti per l’elargizione dei primi prestiti.
Da un recente monitoraggio svolto fra le beneficiarie dei fondi rotativi è emerso che i guadagni delle donne e delle ragazze hanno subito una variazione positiva. Se, in media, prima di ottenere il prestito esse guadagnavano l’equivalente di 1 o 2 Euro al giorno, ora guadagnano dai 4 ai 6 Euro in una giornata lavorativa. Chi, fra le donne, già aveva piccoli negozi che consentivano guadagni di 5 Euro giornalieri, ora ne guadagna dagli 8 ai 12. Questo aumento delle entrate è usato per pagare le spese mediche e d’istruzione per i propri figli, acquistare cibo migliore, medicine, vestiti e affrontare le spese di tutti i giorni. Anche la capacità di accantonare dei piccoli risparmi è aumentata. Le donne e le ragazze, economicamente indipendenti si sentono ora più forti e possono sperare in un futuro più roseo per sé e per le proprie famiglie.
Inoltre, le ragazze che sono ora formatrici dei propri coetanei in tema di HIV/AIDS, cambiamento comportamentale, salute riproduttiva e diritti umani, hanno iniziato a svolgere questa importante missione nei propri villaggi ed ora non hanno più problemi ad affrontare questi temi che prima consideravano dei tabù.
Insomma, i fondi ruotano, le informazioni relative alla prevenzione dell’HIV circolano e le ragazze ce la fanno. Naturalmente è solo l’inizio, ma queste donne e ragazze sono già una bella realtà per Bagamoyo e, come recita un detto tanzaniano: “Little by little, a little becomes a lot”.

Francesca Gritti
Volontaria in Servizio Civile, Tanzania

lunedì 27 aprile 2009

CADERE, ALZARSI E RISALIRE



La straordinaria parabola di Eyayu

Da negletto, allontanato da tutti, quasi untore di manzoniana memoria, a campione da imitare, esempio di come nella vita ci si possa sempre rialzare, rimboccandosi le maniche e dandosi da fare. È la straordinaria, quasi miracolosa, parabola esistenziale di Eyayu, uomo di mezza età, che qualche anno fa scoprì di essere sieropositivo. Era il 2003 e lavorava come cameriere in un ristorante di Gonder, impiego umile ma onesto; lavoro che perse non appena il proprietario del locale venne a sapere della sua condizione, del “marchio” che recava ormai addosso, stigma indelebile, vergogna inaccettabile.

Eyayu aveva appena conosciuto il CVM - Comunità Volontari per il Mondo e, ricevuta una formazione medico-sanitaria e pure psicologica, attraverso il Positive Living Training, iniziava a divulgare informazioni sul virus che lo aveva colpito, non solamente per allontanare la discriminazione che segnava lui e tanti altri come lui, ma anche per prevenire altri casi simili, laddove la maggior parte della gente ignorava anche le minime nozioni pratiche sul contagio da HIV/AIDS. Il suo impegno in tal senso non valse, tuttavia, a guadagnare la stima del suo capo; tutt'altro. Licenziato, senza più uno straccio di lavoro e con la difficoltà persino di trovare cibo sufficiente per sfamare la propria famiglia, Eyayu trovò la forza di non arrendersi, di non lasciarsi andare di fronte agli sguardi di accusa e disprezzo dei suoi pari. Decise, allora, di far fruttare al massimo la formazione ed il capitale iniziale che CVM gli fornì: 500 birr, non molto ma abbastanza per consentirgli di mettere in piedi un'attività, grazie alla quale provvedere al sostentamento della propria famiglia ed essere economicamente indipendente dall'assistenza di terzi.

“Quando iniziai il mio programma di IGA (Attività Generatrici di Reddito, ndr.), – racconta Eyayu, all'interno del suo negozietto “marcato” Pepsi (nella foto), dove vende bevande, cibi e prodotti vari – la gente aveva paura di avvicinarsi al mio baracchino e pure gli studenti dell'Università qui accanto preferivano andare a comprare bibite e altro da rivenditori più lontani. Avvertivo pesantemente la discriminazione nei miei confronti. Ma poi, con il passare del tempo, trasferendo quanto insegnatomi dal CVM ai ragazzi che passavano di qui, facendomi io stesso formatore in tema di prevenzione e controllo dell'AIDS, il muro dello stigma è caduto poco a poco. Ora, i ragazzi e le altre persone, che si trovano a passare da queste parti, mi prediligono addirittura rispetto ad altri commercianti della zona! Sembra un paradosso, ma la chiave naturale di tutto è l'educazione, vale a dire la conoscenza che si acquisisce, che io ho acquisito dal CVM e che ora provo a trasmettere a quanti, clienti abitudinari o meno, si trovano a passare dal mio negozio, parlando apertamente con loro, senza remore o vergogna.”

Ne ha fatta di strada Eyayu, eccome. Per rendersene conto basta guardare l'auto gialla che sosta davanti al negozietto, un taxi con il quale l'ex negletto ne farà ancora altra di strada. “Ora – confessa Eyayu – riesco a gestire bene gli affari familiari ed il lavoro, che ci consente di vivere più che dignitosamente. Io e mia moglie ci alterniamo al negozio, poiché sono riuscito ad ampliare la mia attività con un servizio taxi. L'auto che è qui fuori l'ho acquistata investendo parte dei miei guadagni dall'attività commerciale. Devo ammettere, però, che non è stato facile: ho dovuto metterci tutto l'impegno, cosa che altre persone, nelle mie stesse condizioni sei anni fa, non hanno fatto, spendendo il capitale iniziale fornito loro dal CVM in alcolici, droghe e, nel migliore dei casi, in qualche pasto, senza avere lungimiranza. Ora queste persone vivono ancora del supporto di altri, del cui aiuto non possono fare a meno per sopravvivere.” Già, lungimiranza, capacità di pensare e vedere oltre, caratteristica che non fa certo difetto al buon Eyayu, il quale, a conferma di ciò, non si siede sugli allori, bensì guarda avanti, come ha sempre fatto in questi sei anni. “I miei piani futuri – confessa il commerciante – consistono nell'incrementare e migliorare sempre la mia attività, per poter aiutare la mia famiglia e farla vivere bene. Per questo, ho in programma di acquistare un'altra auto più grande per il mio servizio di taxi.” Guardare avanti e pensare positivo, al di là della propria sieropositività: per Eyayu non è un gioco di parole, ma un effettivo stile di vita, un'esemplare condotta esistenziale.


Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

giovedì 23 aprile 2009

C'è sempre un mango


C’è sempre un mango.

Il sole brilla chiaro ed indisturbato alto nel cielo azzurro, nessuna nuvola a intralciare i suoi raggi potenti e penetranti. Dondoliamo dentro il fuoristrada, sudati e sonnolenti per la temperatura e il viaggio di un paio d’ore su strade polverose e dissestate, oggi è giornata di visita sul campo, dopo giorni di lavoro in ufficio oggi è arrivato il momento di andare a vedere come procedono le attività ma soprattutto di incontrare i veri protagonisti del progetto che stiamo facilitando, donne e uomini dei villaggi del distretto di Bagamoyo, amici e compagni di viaggio.
Qualche discussione durante il viaggio, normalmente in inglese, sempre più spesso in “tentato swahili” e a volte in italiano. Complice il caldo, ci si assopisce, soprattutto io e Francesca, ma veniamo presto svegliati da una buca o da un dosso, non possiamo lamentarci, il nostro viaggio è molto più comodo rispetto a quello di qualsiasi altra persona che incontriamo lungo il tragitto, pulmini sovraffollati da mamme con il loro relativo fagottino dagli occhi grandi e neri, incerte biciclette sovraccariche e scricchilanti oppure gruppetti donne e ragazze in fila indiana con pesanti secchi in testa, i corpi avvolti da kanga variopinti e i volti rigati dal sudore.
Ormai è marzo e dovrebbe essere iniziata la stagione delle piogge, ma di acqua nemmeno l’ombra, solamente qualche breve acquazzone che dura meno del tempo di una canzone. Larghi appezzamenti di campagna iniziano ad ingiallire e i contadini iniziano a temere per i propri raccolti ma la per gran parte il colore dominante è ancora il verde degli immensi spazi non coltivati punteggiati da magre mucche al pascolo e palme spettinate dalla brezza proveniente dall’ Oceano Indiano. Arriviamo a Talawanda, il primo villaggio della giornata, ci accolgono volti sorridenti e mani tese, mani ruvide e dalla pelle spessa, sguardi timidi e sfuggenti, sguardi più vivaci e curiosi di bambini scalzi che giocano allegramente sotto un mango. Eh sì perchè c’è sempre un mango, c’è sempre un mango all’ombra del quale sedersi e chiacchierare, spuntano le sedie e le panche e ci si siede insieme, una alla volta spuntano le ragazze che grazie ad un piccolo prestito hanno migliorato o iniziato una loro piccola attività economica, c’è chi cucina, c’è chi compra e vende vestiti, che chi prepara pane e frittelle e le vende per strada, c’è chi ha deciso di vendere frutta e verdura o chi ha preferito il pesce. Ascoltiamo, consigliamo, incoraggiamo. Saliamo di nuovo in macchina e ci spostiamo verso il prossimo villaggio, Msata, anche qui c’è un mango, un verdissimo mango frondoso, al momento privo di frutti, ci sediamo con il gruppo locale dell’associazione di persone che vivono con l’HIV. Anche qui volti sorridenti, sguardi sfuggenti e mani ruvide, compaiono due stuoie e ci sediamo sotto il mango, ancora una volta scenografia naturale di questo incontro, all’ombra del mango ascoltiamo racconti di vita, di gente che lotta, gente discriminata, gente che ha voglia di vivere una vita piena e ha voglia di lottare.
Abbiamo viaggiato molto lungo le strade del distretto, stretto decine di mani, salutato molte persone, sotto un mango abbiamo condiviso problemi, ascoltato speranze e bisogni, sogni di un futuro migliore, l’importante è che ci sia sempre un mango sotto al quale sedersi senza fretta, lentamente, aprendosi all’ascolto e essendo pronti a raccontarci, per condividere qualcosa e crescere insieme. Credo che questa sia una lezione molto importante, dovremmo cercare un mango tutti i giorni, se non fisicamente, almeno un mango spirituale, sotto al quale sederci e lasciare da parte la fretta, i piccoli doveri quotidiani e lasciarci andare in conversazioni e cuore aperto, lentamente, senza tempo, senza barriere e senza pregiudizi, abbassiamo lo scudo protettivo di cui spesso abbiamo bisogno, o pensiamo di aver bisogno, per andare avanti nella vita di tutti i giorni. Abbassiamo lo scudo, abbassiamo le armi e sediamoci insieme sotto un mango, anche questo l’ho imparato qui, in Africa.

Stefano Battain
Volontario in Servizio Civile, Tanzania

lunedì 20 aprile 2009

Sotto la superficie delle cose


Wajakero Kebele – Hand Pomp

L'essenziale è spesso invisibile agli occhi.
Allora, laddove non si riesca a scorgere la soluzione ai propri problemi, a vedere immediatamente una strada da percorrere, la cosa giusta da fare potrebbe essere quella di non arrendersi e cercare in profondità, perché ciò che prima non si vedeva potrebbe finalmente emergere alla luce.

Così, per le circa settanta famiglie della comunità di Wajakero, piccola kebele della Wolayita Zone, non è stato facile avere ciò che prima non c'era, una fonte di vita dove agli occhi solo terra e polvere si mostravano o poco più. Nessun fiume, corso d'acqua o qualcosa che potesse vagamente avvicinarvisi. Almeno alla superficie delle cose. Già, perché ciò che avrebbe dato vita e benessere alla gente di Wajakero si trovava sotto terra, a 11 metri di profondità. É fin lì che sono arrivati a scavare, con la forza delle loro mani e l'impegno di chi sa che la meta si fa sempre più vicina: una fonte d'acqua da cui la comunità intera da un anno a questa parte si approvvigiona, per bere, cucinare, lavarsi, azioni semplici, essenziali, che però significavano in passato esporsi al serio rischio di infezioni e malattie, oltre alla perdita di tempo per raggiungere fonti idriche ben lontane dal proprio villaggio.
Tutto ciò, però, non sarebbe stato possibile senza il supporto tecnico del CVM, che ha reso fruibile la risorsa non più nascosta mediante un progetto di hand pomp, cioè pompa a mano, grazie al quale, con un semplice movimento di leva, ogni persona di Wajakero può far zampillare acqua pulita per sé e per gli altri. Ma, anche in questo caso, è bene non fermarsi alle apparenze, all'immediatamente visibile, perché sotto il meccanismo di leva ed uscita dell'acqua sussiste l'impianto atto a raggiungere la fonte sotterranea, da cui poi succhiare, tirar su mediante forza meccanica il liquido vitale: due condotti concentrici, il primo in plastica ed il secondo, di protezione, in cemento. In totale, un mese di lavoro per dare alle oltre 400 anime di Wajakero una fonte d'acqua finalmente loro, finalmente vicina, finalmente sana.
Il progetto targato CVM per la comunità di Wajakero non si ferma qui. Durante l'anno appena trascorso, infatti, sono state approntate ben 15 latrine per i servizi igienici di altrettante famiglie; anche questa cosa essenziale, elementare quasi, ma che scontata non è in tali luoghi, dove spesso manca persino la consapevolezza di ciò che è giusto, di ciò che è bene per la salute propria e di chi sta attorno. Per questo, l'opera del CVM, in tale specifico ambito, è iniziata con un'attenta attività di sensibilizzazione e formazione della popolazione sulle tematiche igienico-sanitarie, fin dal relativo abbiccì. Dopodiché, l'associazione ha fornito le strutture esterne in pietra, che fanno oggi da contorno ai fori approntati dagli stessi fruitori del servizio. Tra questi, c'è Alemitu, donna di casa e commerciante allo stesso tempo, che ha quindi doppiamente goduto dei benefici portati dalla pompa idrica e dalla realizzazione dei sanitari.
“Prima di avere una fonte d'acqua nel villaggio, – racconta Alemitu – dovevamo andare fino ad un fiume parecchio lontano e pure sporco. Quindi, ci ammalavamo e dovevamo spendere molti soldi per le cure mediche: cose che ora possiamo evitare, così come le perdite di tempo. Ulteriore beneficio è stata, poi, la realizzazione della latrina, che qui non abbiamo mai avuto.” “I benefici portati dall'intero progetto – continua la donna – sono tanti, sia per la mia attività commerciale che per la casa. Posso, infatti, dedicarmi di più al mio bar, senza andare a cercare acqua in posti lontani ed ho anche più tempo per accudire i miei bambini, cucinare e fare le faccende di casa, il tutto nella giusta maniera, pulita e igienica. Oltre a questo, ho avuto la possibilità di partecipare a diversi meeting sul tema del rispetto per le norme igienico-sanitarie, organizzati non solo dal CVM, ma anche da organi governativi. Tutto ciò mi ha fatto capire molte cose e ha accresciuto la mia consapevolezza.” Proprio così. Diventare consapevoli: è questo il primo passo da fare, come vuole lo stile operativo del CVM. Prendere coscienza, accorgersi di qualcosa, un po' come vedere ciò che era prima invisibile agli occhi.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

venerdì 3 aprile 2009

LE RAGAZZE DI LUGOBA


Le ragazze di Lugoba sono belle.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che sorridono dietro la rete di un bugigattolo colorato adibito a negozio di cellulari, o meglio, negozi di caricabatterie a pagamento, con tanto di rassegna completa di ogni tipo di caricabatterie esistente, soluzione per chi non ha la corrente in casa ma non rinuncia al cellulare.

Le ragazze di Lugoba sono quelle sorridono camminando lentamente trascinando le infradito e aggiustandosi il loro kanga* sgargiante mosso dal vento, vento che solleva la polvere rossa in turbini e onde, polvere che si muove nell'aria entrando nelle narici dei venditori di anacardi, pronti a rincorrere camion vuoti e pullman stipati di gente sudata diretti ad Arusha o a Dar es Salaam.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che vivono in case piccole e nel primo pomeriggio dormono all'aperto con un paio di bambini nudi, sdraiate per terra all'ombra di una veranda, sono quelle che passeggiano lungo la superstrada che attraversa il paese. Sono quelle che sorridono al'ora del tramonto, quando il sole diventa grande illuminando la pelle scura e liscia dei loro giovani volti, il cielo si fa arancione e il flusso continuo di camion traballanti e puzzolenti rallenta un po', l'aria si fa tiepida e leggera e i gas di scarico nell'aria diminuiscono, la polvere non si vede piu' ma si annusa lo stesso.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che escono dalle loro case all'imbrunire, quando il muezzin chiama i fedeli musulmani alla preghiera della sera e dagli altoparlanti eccheggia questo richiamo incomprensibile ma affascinante, la citta' inizia a respirare ed inizia una nuova vita per Lugoba, una vita buia, poche le luci, in movimento quelle dei rari camion che fanno fischiare i freni in questa notte africana, alcuni bagliori di fuochi accesi per arrostire il kitimoto (maiale) o friggere un chipsimayai (uovo e patatine fritte,insieme), l'odore di carne arrostita aleggia nell'aria mescolandosi a quello delle sigarette, il cibo e' pronto a sfamare camionisti di passaggio o uomini del posto che a sera hanno stancato i loro poveri sederi a forza di starsene seduti a bere e giocare a carte tutto il giorno.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che servono una birra dopo l'altra al bar o ballano il giovedi' improvvisando danze che mimano rapporti sessuali e poi il venerdi, con tanto di velo, si siedono al bar dopo la preghiera nella moschea.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che sono qui per caso, hanno due figli avuti presto che vivono con i genitori, un marito anima persa da qualche parte a Dar es Salaam e ti chiedono di pagar loro una soda o qualcosa da mangiare per non intaccare il magro stipendio da cameriera.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che si siedono ai tavolini di plastica silenziose e regalano sesso fugace in cambio di due birre o qualche etto di carne.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che se di amarle ti vien la voglia ti regalano il paradiso anche senza prenderle per la mano e senza salire al primo piano, anime perse sotto lo stellato cielo di Lugoba.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che stanno mentre tutti se ne vanno da qualche parte, capitate per caso, rimangono senza ragione se non quella di andare avanti, da sole, con le proprie forze, in qualche maniera, orgogliose ma a rischio, in molti sensi.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che si ammalano di AIDS, ingrossando le fila di questo flagello africano.#

Le ragazze di Lugoba sono quelle che fanno sesso con il preside della loro scuola a tredici anni, rimangono incinte e vengono fatte abortire in una bella e fredda clinica di Dar es Salaam, e vedono il carnefice della loro anima arrestato e rilasciato in poche ore perche' intoccabile segretario delle sezione locale del partito di governo e membro dei servizi segreti.

Le ragazze di Lugoba sono quelle che hanno un futuro, forse...

*drappo colorato che copre gli arti inferiori, usato dalle donne tanzaniane anche per molti altri usi)

# Due terzi dei portatori di HIV vive in Africa (22 milioni su 33 totali).


Stefano Battain

Volontario in Servizio Civile, Tanzania