Gira per le strade di Debre Markos con grandi cesti pieni di legna e se la si guarda bene si scopre che con lei c’è un piccolo scricciolo, la sua bambina di poco più di un anno: è Amuneggh Mengestu e per sopravvivere raccoglie bastoni nel bosco e li rivende al mercato. Un lavoro faticoso, che la tiene occupata tutta la settimana per diverse ore al giorno e non le assicura neanche una vita dignitosa, ma purtroppo per lei non ci sono altre opportunità. In fondo, ci racconta timidamente, meglio questo che essere un’housemaid in casa d’altri. Lei lo è stata per un po’ e ne porta con sé terribili ricordi.
Amuneggh è originaria di un villaggio di campagna, Yezangira, 30 chilometri da Debre Markos. Dice di avere 19 anni ma a guardarla bene ne dimostra molti di meno. Tre anni fa è rimasta orfana, in poco tempo se ne son andati entrambi i genitori: prima il padre, morto forse per malattia, a quanto le hanno raccontato i vicini; la mamma sembra non abbia retto il colpo e dopo la scomparsa del marito si è ammalata, l’hanno anche portata all’ospedale ma per un solo giorno, poi di nuovo a casa, sempre a letto. Un mese di sofferenze e infine la morte anche per lei. Niente fratelli o sorelle con cui condividere quel terribile momento; così, trovatasi sola, Amuneggh ha lasciato il paesino e ha camminato fino a Debre Markos, dove vive una cugina con la sua famiglia, composta dal marito e dai loro cinque figli. Loro l’hanno ospitata per un mese, ma la sua presenza non era gradita, troppo poveri per accollarsi un’altra bocca da sfamare. L’hanno così aiutata a trovare un posto come housemaid, cameriera tutto fare, presso una famiglia di Addis Abeba. Amuneggh è partita alla volta della capitale, ma ad aspettarla non c’erano i fasti e le opportunità della grande città, bensì sfruttamento, solitudine, dure mansioni e nessun momento di riposo. Era costretta a lavorare 18 ore al giorno, anche di notte mentre tutti dormivano. Preparava l’enjera, i pasti, puliva la casa, lavava i panni, si occupava dei quattro bambini della famiglia, specie del più piccolo di appena due anni. Lavoro e soltanto lavoro, tutta la settimana senza neanche qualche ora libera e per soli 30 ETB (circa € 1,76) da riscuotere ogni trenta giorni. Dopo un mese di sfruttamento e atteggiamenti bruschi, Amuneghh non ce l’ha fatta più e ha chiesto di poter lasciare la casa e tornare a Debre Markos; in risposta a quella sua implorazione sono arrivate le percosse del capofamiglia. Fortunatamente la moglie del datore di lavoro, forse mossa da un’insolita pietà, per una volta ha messo da parte quei comportamenti rudi che di norma riservava alla ragazzina e le ha dato i soldi per andarsene via. La giovanissima orfana è tornata di nuovo dalla cugina, ancora una volta accolta come una scocciatura. Per un mese si è fermata a Debre Markos, dove ha guadagnato qualche soldo raccogliendo legna e rivendendola al mercato, poi è arrivata la seconda opportunità di lavoro come cameriera, ancora una volta trovata tramite la cugina, ma questa volta a Bahir Dar. Amuneggh è partita di nuovo pronta ad affrontare questa esperienza. Come nella capitale, anche nella nuova casa i guadagni erano veramente magri, ma le condizioni di lavoro più sopportabili: lavorava quattordici ore, invece che diciotto e aveva un giorno libero alla settimana, di solito la domenica. Le mansioni erano le stesse: cucinare, pulire, lavare i panni e occuparsi dei figli più piccoli di due e sette anni. Anche questa volta la giovane non ha trovato particolare comprensione da parte dei datori di lavoro: ancora atteggiamenti scostanti, ostilità, rimproveri, ma sicuramente un po’ meglio che nella famiglia di Addis Abeba e le cose sembravano procedere. Un’illusione per la ragazza, che ben presto si sarebbe scontrata con la cattiveria dell’uomo.
Dopo solo un mese nella nuova casa il giovane figlio del padrone, un ragazzo di 18 anni, ha infatti abusato di lei. Un’esperienza drammatica che non potrà mai dimenticare e i suoi occhi lo rivelano chiaramente. L’ingenua Amuneggh ha cercato aiuto dal capofamiglia e da sua moglie raccontando loro il terribile fatto, ma i due non le hanno creduto e hanno preferito dar credito alla versione del figlio: “Un uomo da fuori era arrivato e l’aveva stuprata”. Pesantemente violata, non creduta e per giunta cacciata via: già, perché il terrore che fosse rimasta incinta ha spinto i suoi datori di lavoro a rimandarla a Debre Markos. Come giustificare un’aiutante incinta? A quali problemi potevano andare in contro? Cosa avrebbe potuto pensare la comunità? Meglio lavarsene le mani subito senza neanche aver appurato la reale presenza di una gravidanza in corso, più facile cercarsi un’altra aiutante domestica, di ragazze povere disposte a lavorare in difficili condizioni ce ne sono molte. Inutili i tentativi di far cambiare loro idea per non perdere il lavoro, Amuneggh ha dovuto raccogliere le sue poche cose e ripartire alla volta di Debre Markos per bussare per l’ennesima volta alla porta della cugina e ricominciare a lavorare come raccoglitrice e rivenditrice di legna, per assicurarsi un posto in casa dei parenti ai quali in cambio dell’ospitalità consegna periodicamente somme di denaro. Non possono fare altrimenti: vivono in una casa in affitto, un’unica stanza non grande, pagano 60 ETB (circa € 3,52) al mese per stare lì, poi ci sono il cibo e le altre necessità a cui provvedere. La cugina e il marito, inoltre, sono malati di AIDS e l’uomo non ha un’occupazione fissa, ma fa qualche lavoro giornaliero quando non sta male. Anche ad Amuneggh, da quando è tornata, tocca fare la sua parte per mandare avanti la baracca.
Ritornata a Debre Markos, purtroppo per lei, le difficoltà non erano finite: la violenza sessuale aveva veramente procurato conseguenze che non si potevano ignorare, la giovane dopo lo stupro era rimasta incinta come temevano i datori di lavoro. Ancora un problema in più in una vita fatta di tristi momenti e continue complicazioni. Amuneggh però non poteva fermarsi, ha così continuato a lavorare. Nove mesi vissuti come se non fosse stata in dolce attesa, costretta dal bisogno di soldi a faticare normalmente: camminate nei boschi per raccogliere la legna e poi al mercato per rivenderla, enormi pesi sulle spalle nonostante il pancione crescesse, niente riposo e nessuna visita o controllo in ospedale. Impossibile chiedere aiuto alla famiglia del giovane che l’aveva messa incinta: sono rimasti a Bahir Dar e la ragazza non ha soldi per recarsi là e parlare con loro, tantomeno i parenti possono aiutarli, troppo poveri per perdere giornate di lavoro. Poi il momento del parto: in casa, anche questa volta niente clinica, ma per fortuna nessuna evidente complicazione a quanto riferisce con un’ingenuità disarmante, quasi non si rendesse conto dei rischi corsi. Per lei però non ci potevano essere i tradizionali 40 giorni in casa, di solito rispettati in Etiopia per ogni partoriente. Solo due settimane a letto per riprendersi un po’ e poi di nuovo cestone sulla schiena e via nel bosco.
Ora, però, c’è anche un’altra creaturina di cui occuparsi: Amuneggh l’ha chiamata Hulunayhue Nibiret, che vuol dire ‘ho visto molte cose’. Una scelta che porta con sé tutto il dolore e la sofferenza provati negli anni nonostante la giovane età, un nome che sta a ricordare le terribili esperienze vissute, i problemi e le difficoltà. Quella bimba però c’è, nonostante sia il frutto di una violenza, e Amuneggh non l’abbandona. Il problema, dopo il parto, era come fare a lavorare. Dove lasciare la piccola? Non c’è nessuno ad aiutarla: la cugina deve pensare per sé e i suoi figli non possono e non vogliono occuparsene, così Amuneggh si carica anche la neonata addosso, a volte in un cesto sulla testa, e spesso se la porta con sé nel bosco. Un peso in più, una difficoltà in più, specie al ritorno quando c’è la legna raccolta. Due viaggi al giorno nel bosco, se è stanca solo uno, tutta la settimana senza sosta. Poi al mercato per rivendere quanto raccolto guadagnando tra i 6 i 10 ETB giornalieri (da € 0,35 a € 0,58 circa). Poco per vivere, sfamare due bocche e versare la sua parte di affitto alla cugina.
Racconta che a volte non ci sono i soldi per fare tutti i pasti e mai per mangiare la carne: si nutre con i più economici pane, enjera e shiro. Per lei non ci sono altre opportunità per ora, lo ripete spesso, con un filo di voce e una tristezza negli occhi, pensando a quei coetanei che hanno trovato lavori migliori. Lei ha cercato un’occupazione come lavapanni o preparatrice di enjera, ma non ha trovato nulla. La legna ora è la sua unica fonte di sopravvivenza. Ripensando al passato, però, dice di star meglio e rivela che non tornerebbe mai a lavorare come cameriera per una famiglia. Troppo brutte le esperienze vissute, le cattiverie subite e ora traspare forte la paura degli uomini. Purtroppo in queste condizioni per Amuneggh non c’è opportunità neanche di formarsi, educarsi, nonostante il grande desiderio di studiare: non è mai andata a scuola, né quand’era a casa con la famiglia né dopo, quand’era aiutante in casa d’altri, perché i datori di lavoro non glielo hanno permesso. Non sa né leggere né scrivere. Ora, poi, con una figlia da sfamare è impensabile riuscire a trovare tempo e soldi per andare a scuola. Resta un sogno che un giorno spera di realizzare, insieme a quello di cambiare lavoro, magari vendere caffè e latte in un piccolo negozietto. Una speranza in più gliela sta dando l’Associazione di Donne Povere di Debre Markos. La coordinatrice, Hesbalam Mekonan, è una sua vicina di casa e l’ha trascinata nel gruppo: per ora non è un membro, ma l’associazione cerca di aiutare le housemaid e le ex housemaid. Amuneggh partecipa agli incontri della domenica, dove le donne approfondiscono temi quali l’HIV/AIDS e tutte le questioni ad essa relative, i loro diritti, le dannose pratiche di mutilazione femminile. È grazie a loro che la ragazza ora conosce meglio il virus, prima non ne aveva mai parlato con nessuno e praticamente non ne sapeva nulla. Non aveva mai fatto il test, neanche dopo la violenza o prima del parto. Le donne dell’associazione l’hanno spronata a farlo e due mesi fa, impaurita, si è recata in una clinica con la bimba: fortunatamente sono risultate entrambe negative. Per il momento, purtroppo, l’associazione non ha modo di coinvolgerla nel proprio lavoro e di assicurarle un guadagno, non ci sono le condizioni per dare un’occupazione anche alle cameriere o ex cameriere, ma cerca di sostenerle favorendo la loro educazione. Per il futuro, però, ci sono grandi progetti: il gruppo di donne povere da poco ha cominciato a vendere il latte e, con i guadagni di questa attività e della vendita di animali che alleva, vorrebbe aprire un piccolo bar-ristorante. Un localino che darebbe in gestione proprio alle giovani in difficoltà come Amuneggh. Sembra un sogno difficile da realizzare, ma la ragazza e la coordinatrice ci credono sul serio e, parlandone, i loro occhi si illuminano e i volti si riempiono di grandi sorrisi, mentre la mente già immagina il futuro bar pieno di clienti.
Camilla Corradini
Volontaria - Etiopia
Volontaria - Etiopia
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