giovedì 28 ottobre 2010

Al lavoro per pubblicizzare il PMTCT


Una serie di sessioni fotografiche specifiche, pensate appositamente per cogliere le sfumature culturali delle varie zone della regione Amhara, carpirne gli ambienti e i costumi mettendo in primo piano la gente che realmente abita quelle aree, il tutto per avere le immagini giuste che possano promuovere efficacemente il PMTCT (Protection of Mother To Child Transmission), il sistema di prevenzione della trasmissione dell’HIV da madre a figlio. Con questo scopo si è svolto la scorsa settimana il breve viaggio che ha visto alcuni membri etiopi del CVM, Haileyesus, Betre e Meteke, un volontario italiano, Ugo, e un fotografo professionista, Salomon, percorrere chilometri e chilometri in giro per la regione, passando per i grandi centri ma soprattutto fermandosi nelle aree rurali. L’ONG italiana sta infatti lavorando ad un’importante campagna pubblicitaria in collaborazione con l’HAPCO (l’ufficio preposto al controllo e alla prevenzione dell’HIV), affinché si diffonda una maggior consapevolezza dei rischi che ci sono nelle gravidanze quando la madre è sieropositiva, delle modalità di prevenzione, della necessità di effettuare controlli medici nelle strutture apposite e dell’importanza che tutta la comunità si impegni per promuovere comportamenti e pratiche utili a bloccare la trasmissione del virus al nascituro. Purtroppo, specie nelle aree rurali, la conoscenza in merito all’AIDS è ancora troppo bassa; specialmente in caso di gravidanza e al momento del parto, non c’è nessuna particolare attenzione o rispetto delle norme e delle precauzioni che permetterebbero di ridurre i rischi. Un alto numero di donne incinte non si sottopone a nessuna visita e moltissime partoriscono ancora in casa senza il medico.
La campagna pubblicitaria sarà focalizzata su un messaggio semplice ma ricco di significato: tutta la comunità, dai livelli più bassi alle autorità religiose e alle figure che godono di particolare rispetto, è responsabile per un futuro senza bambini afflitti dall’HIV. Le sessioni fotografiche sono ormai concluse, con non poche difficoltà nate dai timori della gente a lasciarsi immortalare per comparire poi nei materiali informativi; ora è in corso la fase di editing grafico e per fine novembre tutto il materiale pubblicitario sarà pronto e distribuito, un po’ ovunque, nella regione Amhara.

Camilla Corradini - Volontaria CVM, Etiopia

mercoledì 13 ottobre 2010

Kedest Lefalem, la giovane attrice della "Biruh Tesfa"


Non importa se non c’è il palco e neanche i vestiti di scena, quando la rappresentazione prende il via lei si immedesima completamente nel suo ruolo, ci mette convinzione, passione, riuscendo a captare l’interesse degli osservatori e mantenere l’attenzione generale alta fino al termine della storia. Certo, il merito è anche degli altri ragazzini che con lei danno vita allo spettacolo, ma di sicuro Kedest Lefalem è tra i più coinvolti e sembra particolarmente portata per la realizzazione dei ‘drama’, le brevi recite che vengono usate come strumento educativo per trasmettere importanti messaggi a grandi e piccoli. È una dei membri della “Biruh Tesfa”, l’associazione di orfani di Debre Markos nata grazie all’ONG Comunità Volontari per il Mondo (CVM). Quest’ultima cerca di togliere i ragazzini dalla strada, quando possibile affidarli alle cure di familiari o persone fidate e garantire loro la possibilità di andare a scuola. Ma li coinvolge anche in una serie di attività importanti per una crescita equilibrata e tra queste c’è anche la realizzazione di recite. Esiste uno specifico gruppo all’interno dell’associazione che si dedica a questo e Kedest ne è la responsabile.
Ha una particolare passione per le rappresentazioni teatrali, le piace scrivere le storie da mettere in scena ma anche interpretarle. A casa spesso compone piccoli poemi e racconti che poi, negli incontri che l’associazione tiene tutte le domeniche mattina, insieme agli altri membri del gruppo mostra davanti a tutti i ragazzini della “Biruh Tesfa”. Di norma gli spettacoli parlano di orfani e di bambini di strada, delle loro vite difficili, delle sofferenze e dei problemi che devono affrontare, ma anche di cosa possono e devono fare per cambiare le cose. Gli spettacoli però trattano pure di HIV, dello sfruttamento delle giovani ragazze che lavorano come serve in case altrui e, in generale, dei comportamenti corretti che bambini e giovani dovrebbero adottare. “Di pratiche sbagliate ma molto diffuse ce ne sono tante – ci spiega seria e posata -, questi spettacoli sono utili per spiegare in modo semplice ciò che non è corretto e cancellare le brutte abitudini. Ciò di cui preferisco scrivere è dei ragazzini di strada miei coetanei e degli altri membri dell’associazione: abbiamo problemi simili, alcuni di noi vengono dalla strada”. Certo, racconta cercando di sottolineare l’importanza del suo ruolo, coinvolgere i bambini più piccoli nelle recite è difficile:“in un primo momento vogliono partecipare di spontanea volontà, però poi si vergognano a recitare davanti agli altri e alla fine si tirano indietro. In genere sono soprattutto le femmine a voler prender parte agli spettacoli, mentre i maschi si fanno meno avanti. Io di solito scrivo le storie a casa, ma la domenica tutti noi membri del gruppo teatrale ne discutiamo insieme e decidiamo cosa mettere in scena, poi la settimana successiva facciamo la recita”.
Se ufficialmente è responsabile di questo gruppo di piccoli attori e in questo compito è palesemente a suo agio, è anche vero che il suo attivismo e la sua partecipazione emergono lampanti pure in altri momenti di vita dell’associazione. Kedest, infatti, è tra i membri che gestiscono gli incontri della domenica e che si impegnano per coinvolgere i più piccoli e i nuovi arrivati nelle varie iniziative. Con loro tira fuori i tratti da leader del suo carattere, la sua forza trainante. Recentemente è stata anche scelta come uno dei rappresentanti dell’East Gojjam per il network regionale che collega le varie associazioni di orfani.

Ormai sono cinque anni che il CVM ha preso a cuore il suo caso e l’ha inserita nei progetti rivolti ai ragazzini orfani e meno fortunati. È entrata in contatto con l’ONG italiana grazie ad alcuni coetanei che conoscevano l’associazione e ne hanno parlato con lei; poi l’amministrazione della kebele (come dire quartiere, circoscrizione) ha accertato il suo stato di povertà, condizione necessaria per essere ammessa nel gruppo dei ragazzini supportati dal CVM, che ha quindi cominciato ad aiutarla.
Kedest ha ormai 14 anni, anche se il suo fisico alto e snello e il suo sguardo profondo la fanno sembrare più grande. Ha un carattere forte, è decisa, determinata e nella folla di ragazzini coinvolti nelle attività dell’organizzazione la sua personalità non passa inosservata. È originaria di Dejen, nell’East Gojjam, a circa settanta chilometri da Debre Markos. Ha perso entrambi i genitori quand’era molto piccola: aveva appena un anno quando è venuto a mancare il padre, di cui non sa praticamente nulla, neanche la causa della morte; due anni più tardi è rimasta orfana anche della madre, scomparsa in seguito a una malattia di cui non conosce il nome. Quando la mamma ha cominciato a non star bene, l’ha portata a vivere a Debre Markos, da una zia paterna. Dopo qualche mese, anche la madre e la sorella più grande si sono trasferite nella stessa città, ma da parenti materni. La donna però poco dopo è peggiorata ed è morta. Kedest non ricorda molto di quel periodo, con il suo modo di parlare veloce e spedito racconta solo che la zia paterna non le ha permesso di partecipare al funerale della madre, alla quale non ha potuto dare l’ultimo saluto. Purtroppo, spiega con lo sguardo rassegnato, dopo quella disgrazia ha perso ogni contatto con la sorella: in modo un po’ confuso e facendo trapelare una certa timidezza, dice di non averla più vista. Forse la incontra anche per strada a Debre Markos qualche volta, ma dopo tanti anni non è neanche in grado di riconoscerla: sono ormai due perfette estranee. Qualche tempo fa, aggiunge in modo frettoloso e approssimativo, quasi non volesse affrontare l’argomento, ha chiesto alla zia di cercarla, la donna ha accettato di farlo ma in realtà non si è mai mossa in questo senso. Così, anche l’unica persona in vita del ristretto nucleo familiare, per lei, è come se non ci fosse più. Difficile capire come si senta per questa separazione; nell’affrontare la questione, non lascia trasparire molte emozioni e dalle sue parole appare una situazione quasi normale.
Dalla scomparsa della madre è sempre rimasta a vivere insieme alla zia, con la quale ha un buon rapporto, spiega sorridendo: “A sette anni ho cominciato ad andare a scuola – aggiunge fiera – e lei mi ha sempre incitato a studiare. Mia zia ha anche un figlio, avuto dal primo marito, ma ha trent’anni e vive in un’altra città, a Nazarat, e lavora in ospedale”. Qualche problema in verità c’è in casa, con il secondo consorte della zia, ammette Kedest cambiando tono e facendo scomparire il sorriso: “È scontroso e ha sempre dei comportamenti rudi”, rivela senza vergogna e con una certa sicurezza, precisando che all’uomo non fa piacere ospitare parenti in casa. Una contrarietà che non è legata solo alla sua presenza, in precedenza infatti altri parenti della zia hanno passato alcuni periodi a Debre Markos con loro: “Provenivano dalla campagna ed erano qui per andare a scuola. Due sono tornati nelle zone rurali d’origine, mentre uno è all’università”. A peggiorare le cose c’è poi il fatto, a quanto precisa ancora, che l’uomo a volte beve e litiga con la zia. “Se io mi intrometto mi picchia. Capita – continua seria gesticolando – che sia violento anche con me, se non faccio i lavori domestici e se i risultati a scuola non sono soddisfacenti”. Kedest, come la tradizione vuole, deve aiutare in casa: lavare i vestiti, pulire e badare agli animali. Non le è poi permesso allontanarsi troppo spesso dall’abitazione, molto raramente la zia acconsente a farla uscire per altri motivi che non siano le lezioni a scuola: è una femmina e per questo corre maggiori rischi rispetto ai coetanei dell’altro sesso, quindi va controllata di più. Non è la giovane a spiegarcelo ma il project facilitator del CVM di Debre Markos, Geremew Aklessa: all’inizio la donna era anche preoccupata quando la ragazzina usciva per partecipare agli incontri dell’ONG e spesso si opponeva; per questo, i responsabili l’hanno invitata ad alcune iniziative, le hanno mostrato cosa fanno i bambini facendole comprendere che non c’è nulla di cui preoccuparsi, anzi per Kedest quelle attività sono delle importanti occasioni di crescita e formazione. Così, ora la ragazzina è più libera di partecipare alle riunioni e di passare il tempo con i compagni della “Biruh Tesfa”.
L’incontro con il CVM è stato molto importante per la giovane: nonostante abbia qualcuno che si occupi di lei e non sia quindi costretta a vivere per strada o a lavorare come sguattera in qualche casa, non si può dire che la sua situazione sia facile. Oltre al fatto di aver perso entrambi i genitori quando era ancora piccolina e di non sapere nulla della sorella, Kedest deve fare pure i conti con i problemi economici della zia. La donna, infatti, non lavora e oltre alla pensione del marito le uniche entrate vengono dall’allevamento di alcuni animali da cortile. Per il cibo i soldi bastano, ma per tutto il resto si devono fare grossi sacrifici e le difficoltà maggiori riguardano le spese necessarie per permetterle di studiare. Ora è all’ottavo grado di scuola (la scuola in Etiopia è divisa in gradi, l’ottavo è l’ultimo della scuola primaria), ma se è arrivata fino a qui è solo grazie al supporto del CVM, è lei stessa che con voce seria lo spiega: “Se non ci fosse stata questa ONG non avrei potuto continuare a studiare: fornisce uniformi e materiali scolastici a me e agli altri ragazzini che non potrebbero procurarseli da soli”. Il CVM in verità l’aiuta anche in altro modo: quando la scuola è chiusa cerca di inserirla nei progetti di IGA, in modo da assicurarle un piccolo guadagno. All’inizio ha venduto il grano, mentre recentemente le è stata affidata una pecora da allevare. Rispetto al passato, ora ha qualche possibilità in più di costruirsi un futuro dignitoso, può permettersi di fare progetti: cosa vuol fare di preciso da grande ancora non lo sa, vorrebbe dedicarsi di più alla recitazione, ma anche l’idea di insegnare non le dispiace, di sicuro sa che vuol frequentare l’università. In fondo, per decidere ha ancora tempo, ciò che conta è che ora ha una speranza per l’avvenire.

Camilla Corradini (Volontaria CVM - Etiopia)

venerdì 1 ottobre 2010

Yerab: quando la vita ricomincia... nonostante tutto


Ora gestisce due piccoli esercizi commerciali, dove vende bevande alcoliche, tè, caffè ed enjera, e ci mostra con orgoglio gli spazi in cui esercita queste attività, ma per ottenere ciò che ha ora Yerab Yesmanem ne ha dovute passere tante e più di una volta se l’è vista veramente brutta.
Vive a Debre Markos ormai da undici anni, ma è originaria di Abazashi nella woreda di Sinan, dalla quale se ne andò quando rimase vedova e senza mezzi per sfamare i suoi due figli. I problemi però erano cominciati ben prima. Il padre morì quando lei era ancora una bambina: ammalatosi improvvisamente se ne andò in poco più di due settimane, senza aver fatto ricorso alle visite di un medico e senza scoprire quale fosse il suo problema. Quando aveva quindici anni, la madre la forzò a sposare, contro la sua volontà, un uomo che non conosceva perché “la tradizione voleva così”: “A quel tempo - spiega con un velo di tristezza negli occhi, mentre fissa il vuoto – non era comune che le ragazze andassero a scuola e ricevessero un’educazione, in più mia madre era molto povera e c’erano altri tre figli, due maschi e una femmina, di cui occuparsi. L’unica alternativa che mi si presentava era quella di sposarmi. Non ero contenta ma questa è la nostra cultura, allora le cose non erano come ora e non potevo fare diversamente”. Nonostante quel matrimonio non fosse da lei né cercato né voluto, ben presto Yerab cominciò ad affezionarsi e ad amare quell’uomo che la madre aveva scelto per lei. Lui proveniva da una famiglia di agricoltori e i suoi genitori, al momento delle nozze, gli regalarono un terreno che diventò la principale fonte di sostentamento per la giovane coppia. Nel ricordare la vita con il marito sorride dolcemente, quasi vergognosa: con lui stava abbastanza bene, non la picchiava e non era rude, anche se c’erano comunque alcune tensioni. I problemi sorgevano quando lui minacciava di voler vendicare l’assassinio del nonno paventando la volontà di vendere gli animali per comprare un fucile, idea che Yerab non condivideva affatto, o quelle volte che si recava in città per il mercato e, dopo essersi ubriacato, trascorreva la nottata fuori casa. Specie in quest’ultimo caso, lei tornava a vivere dalla madre e lui, ogni volta, andava a riprendersela chiedendo scusa. Da quel matrimonio sono nati due figli: la dolce Bayelign e il fratellino Yechalem, che attualmente hanno rispettivamente 15 e 12 anni. Purtroppo, alla gioia per la nascita del secondo seguì un triste momento per Yerab: la madre cominciò a star male, bloccata a letto da continui spasmi di vomito. I soldi per portarla in ospedale non c’erano e il marito di Yerab non era disposto a vendere i capi di bestiame per ottenere la somma necessaria per le cure. Così, la donna usufruì solo dell’acqua santa a cui spesso la tradizione ricorre in caso di malattia, ma senza ricavarne benefici, e dopo tre mesi morì. Un brutto colpo per Yerab, ma questo era solo l’inizio.
A distanza di un anno, si trovò di nuovo ad affrontare la malattia di una persona cara, questa volta si trattava del marito e la situazione fu ancora più difficile per lei. L’uomo cominciò a tossire pesantemente e ad aggravarsi giorno dopo giorno: in ospedale gli diagnosticarono la tubercolosi. Per tre mesi rimase a letto in casa, sotto le vigili cure della moglie, mentre i fratelli di lui e di lei si occupavano dei campi. Per poterlo curare nella maniera migliore Yerab chiese anche un prestito ai vicini di casa, ma non ci fu nulla da fare per l’uomo che morì lasciandola sola con i due bimbi, di cui il più piccolo di appena un anno. La seconda perdita in poco tempo e ancora più difficile da sopportare. Ora, tutte le responsabilità erano sulle sue spalle: in un primo momento riuscì a mandare avanti la casa e sfamare se stessa e i piccoli, grazie alle riserve che avevano messo da parte precedentemente, come si usa fare nelle aree rurali. Dopo circa un anno, le scorte però finirono e le cose cominciarono a complicarsi terribilmente, anche perché per restituire i soldi presi in prestito dai vicini fu costretta a vendere gli unici animali che possedeva, un bue e una mucca. Come se quanto finora successo non fosse abbastanza, ci si mise anche la famiglia del defunto a crearle problemi: quando l’uomo era in vita i suoi genitori avevano sempre preteso parte del raccolto, ma ora che lui era venuto a mancare volevano addirittura indietro il terreno e, per di più, pretendevano in custodia anche uno dei figli della coppia. Yerab non poté far altro che restituire il campo, ma si rifiutò di dare loro in custodia i bambini. La questione, però, a quel punto era come sfamarli e assicurare loro una vita dignitosa. Nei suoi sogni c’era anche quello di poterli mandare a scuola e far in modo che ricevessero quell’educazione di cui lei era stata privata.
Yerab era veramente disperata, giovane ma già con tanta sofferenza nel cuore e duri pesi da sopportare, senza opportunità e con un futuro davanti che si prospettava tutto in salita. La zona rurale dove viveva non le offriva molte chance, così decise di buttarsi, di rischiare spostandosi sola in città. Con la scusa di andare al mercato lasciò i due bambini al fratello e, senza rivelare le sue reali intenzioni, si trasferì a Debre Markos, dove trovò quasi subito un’occupazione come domestica a casa di un commerciante. L’uomo aveva un piccolo bar dove vendeva birra e altri alcolici e Yerab si divedeva tra i servizi in casa, dalle sei del mattino a mezzanotte, per i quali percepiva 15 ETB (circa 83 centesimi di euro) al mese, e il lavoro al locale, dove non era però solo una semplice cameriera. L’estremo bisogno di soldi la spinse, infatti, a lavorare come prostituita per gli avventori del bar. “Era molto dura, – racconta con un filo di voce – ma avevo tanto bisogno di denaro, volevo guadagnarne il più possibile per essere in grado di allevare i miei figli. Volevo tornare presto a riprendermeli a casa di mio fratello e portarli a vivere con me”. Yerab sapeva che prostituendosi avrebbe corso dei rischi, ma per i suoi bambini era disposta a fare di tutto: “Qualcosa sull’HIV avevo sentito, anche se non ero ben informata. Sapevo che era meglio usare il preservativo e chiedevo ai clienti di indossarlo, ma spesso si rifiutavano. Se volevo i soldi dovevo accettare di avere rapporti sessuali senza precauzioni e alla fine per il denaro acconsentivo”. Poco dopo il suo arrivo a Debre Markos il fratello l’andò a cercare, lei gli spiegò che stava lavorando come domestica per accumulare i soldi per crescere i figli ma tenne segreta la sua seconda occupazione, così l’uomo accettò di occuparsi per un po’ dei nipoti in attesa del suo ritorno. Per sei mesi Yerab fece quella terribile vita, fino a quando riuscì ad accumulare 800 ETB e ad affittare una casa per cinquanta ETB al mese. A quel punto comprò il necessario per avviare una piccola attività, inizialmente quanto serviva per vendere tè e pane poi col tempo anche birra ed enjera. Dopo tre settimane tornò nella sua zona d’origine per riprendersi i figli e portarli con sé a Debre Markos. Il più grande aveva ormai sei anni: l’età giusta per andare a scuola ma anche per piccoli lavoretti. Fece in modo che iniziasse a studiare ma gli comprò anche il set per lavorare come lustrascarpe nel tempo libero così che poteva anche lui contribuire all’economia familiare. Le entrate restavano tuttavia troppo limitate per i bisogni della famiglia e Yerab cercò aiuto dagli uffici governativi, affinché le dessero un prestito in modo da poter incrementare la sua attività. Ottenuto il denaro, da restituire in due anni, la situazione sembrava migliorare a poco a poco: le vendite stavano lievemente crescendo, lei poteva comprarsi i materiali necessari per preparare thè e quant’altro, che di solito prendeva in prestito dai vicini, e ora anche il secondo figlio poteva andare a scuola. Sembrava finalmente aver trovato la sua strada e, ricorda con uno sguardo pieno di rammarico, raggiunto una certa serenità.
Purtroppo però in agguato c’era un altro nemico da combattere ed era alquanto minaccioso: quattro anni fa Yerab cominciò a star male, dolori di testa e gastrite. Purtroppo, nonostante le prime cure la sua salute continuava a peggiorare vistosamente e i dottori le consigliarono di fare il test dell’HIV. In quel momento le sue conoscenze sull’AIDS erano maggiori dei tempi in cui lavorava come prostituta, aveva infatti avuto la possibilità di partecipare ad uno dei training che gli uffici governativi organizzano con le ONG e aveva chiari in mente quali erano i rischi che correva. Non fu facile per lei sottoporsi a quell’esame del sangue, la paura era tanta: “Mi domandavo come avrei fatto ad accudire i miei figli se fossi risultata sieropositiva e temevo che i miei clienti non avrebbero più voluto bere e mangiare quanto preparavo”, spiega con un’espressione di rassegnazione. Tentennò un po’ cercando di prendere tempo, poi cedette e si sottopose al test: purtroppo per lei il risultato era quello tanto temuto, aveva contratto il virus e quei disturbi erano i sintomi di quella terribile malattia chiamata AIDS. Quello è stato un momento orribile per Yerab, terrorizzata dal quel virus mortale ma ancora di più dal rischio di essere discriminata; anche le cure antiretrovirali la spaventavano, ne temeva gli effetti e non si convinceva a cominciarle. La malattia era però lì, non poteva ignorarla e alla fine si fece forza e l’affrontò, iniziando ad assumere le medicine prescritte dai medici. Tra le indicazioni fornitegli dal personale sanitario c’erano anche quelle per iscriversi ad un’associazione di persone malate di HIV con sede a Debre Markos, promossa dall’ONG italiana Comunità Volontari per il Mondo insieme a degli uffici governativi come l’HAPCO. Nonostante stesse prendendo confidenza con la malattia, quel virus e le conseguenze che poteva avere nella sua vita all’interno della comunità la intimorivano veramente troppo così Yerab aspettò oltre sei mesi prima di contattare l’associazione. Si decise solo quando scoprì che anche un suo vicino di casa ne faceva parte e che ne era molto soddisfatto: a quel punto mise da parte le sue remore e si avvicinò al gruppo. Un passo importante perché in quel momento prese coscienza del fatto che ci sono tante persone come lei, affette dall’HIV ma che conducono una vita normale. Lì capì che non era sola, che non deve avere paura a rivelare il suo stato e che c’è gente disposta ad aiutarla se ha buona volontà e voglia di lavorare.
Le cose però stavano di nuovo per precipitare: se all’inizio le medicine non le avevano creato disturbi particolari, col passare dei mesi, forse a causa di un’alimentazione non adeguata e del troppo lavoro, Yerab cominciò a star sempre più male fino ad essere costretta a letto per lunghissimi periodi. Troppo debole per occuparsi della sua attività commerciale, troppo faticoso stare davanti al fuoco per preparare le bevande, con continui dolori addominali che non la lasciavano in pace. Il suo fisico non riusciva ad adattarsi ai pesanti antiretrovirali. Quella situazione proseguì per circa un anno tra alti e bassi, in cui la donna non poté lavorare in modo regolare e il suo bar cominciò a perdere clienti. I soldi non bastavano mai e i bambini erano costretti entrambi a piccoli lavoretti per racimolare un po’ di denaro. Circa tre anni fa, finalmente il suo fisico cominciò a reagire meglio alle cure e lei, piano piano, riprese in mano la sua vita. Quei mesi però avevano sortito pesanti effetti anche sulla sua attività di commerciante e le vendite stentavano a riprendersi. A quel punto arrivò l’aiuto prezioso dell’associazione: Yerab seguì i training per i malati di AIDS in basic business skills in vista della concessione di un prestito. Un anno fa le sono stati concessi tremila ETB: con quei soldi ha comprato nuove materie prime per preparare bevande e piatti e ha potuto affittare un’altra stanza da usare come bar. Ora vende alcolici e non alcolici accompagnati da enjera in casa e in un piccolo localino a pochi metri da dove vive. Per gestire questi due spazi ha pure assunto due giovani aiutanti. Adesso è più serena, il peso della sofferenza e delle difficoltà affrontate non l’abbandonano mai, quando parla nei suoi occhi c’è sempre un velo di tristezza, ma i momenti più bui sono passati e riesce a prendersi cura di sé, dei suoi due figli e della giovane sorella trasferitasi a vivere con lei. “Sto meglio – ammette sorridendo -. Ciò che voglio ora è restituire i soldi che ho avuto in prestito e risparmiarne altri per costruirmi una casa tutta mia. Desidero poi che i miei figli ricevano un’educazione e trovino un buon lavoro”.

Camilla Corradini
(Volontaria CVM in Etiopia)