mercoledì 5 dicembre 2012


UNITY, BERE ACQUA AVVELENATA PER NON MORIRE DI SETE





Il camino fuma in lontananza, “hanno fatto ripartire la produzione di petrolio”, sostiene laconico Afayo: piccolo, magro, spalle larghe, capelli rasati a zero come la maggior parte dei sudsudanesi, viene dal sud Afayo e ha molti caratteri in comune con gli africani che già conosco, parlando in inglese usa frasi come: “Mangerò il Natale a Bentiu” per dire “Trascorrerò il Natale a Bentiu” oppure usa la parola “dolce” per riferirsi a qualsiasi cosa saporita, anche fra quella salate: quell’animale (una specie di faraona selvatica) è piu dolce del pollo”, un uso molto strano per noi italiani. Afayo ha lo sguardo timido, spesso abbassa la testa quando gli si pone una domanda, parla poco e mai a caso, a volte quando non vuole dire le cose si morde le grandi e larghe labbra carnose, ha una bocca larga ma la usa poco, in compenso sorride molto, sorride spesso. Quella bocca la ricorderò per sempre, dopo aver trascorso una domenica sera ad illuminarla con la luce del mio telefonino (la luce sul telefonino ha cambiato la vita di chi vive in Africa) mentre un dottore ugandese gli strappava un dente cariato. Afayo è uno degli autisti della nostra organizzazione, avrà 25 anni ma è un ragazzo calmo, posato e responsabile, non beve e guida a velocità moderata, sempre, non suona troppo il clacson, qualità rara qui, non insulta passanti distratti, bimbi giocosi e lenti vecchi cenciosi che pullulano sulle polverose strade del Sud Sudan. Afayo è una brava persona ed è facile lavorare con lui, mi piace davvero molto e quando viaggiamo insieme è bello fare una chiacchierata con lui.




Sono in Sud Sudan da 4 mesi ormai, ma se penso ai miei primi e ormai già lontani ricordi mi sembra di aver vissuto in due paesi completamente diversi. Sono arrivato che le pianure del Sud Sudan settentrionale erano una distesa di smeraldo peloso, una coperta verde di erba alta punteggiata da alberi verdi e rigogliosi, tanti acquitrini, vaste pianure allagate a perdita d’occhio, il fango era il compagno delle mie giornate. Nei campi profughi regnava il fango, mescolato alle tracce biologiche dell’esistenza di questi esseri umani fuggiti dalle montagne Nuba. sulle montagne si spara, e queste anime disperate sono finite nel fango di Pariang a tirare avanti mangiando polenta di sorgo e lenticchie, ricevute una volta al mese dall’Altro Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Sulle montagne Nuba si continua a sparare e la gente continua a fuggire, circa 2,000 a settimana passano il confine ma qui il fango si è asciugato ed è diventato rossa terra polverosa che il vento di fine novembre alza e porta, sulla pelle, negli occhi, fra I capelli e più lontano.
Ad Addis Abeba i pasciuti politici di Juba e Khartoum hanno firmato scartoffie simbolicamente importanti ma che difficilmente risolveranno una delle questioni più complesse dell’attuale situazione geo-politica internazionale. La creazione dello Stato del Sud Sudan ha creato almeno altrettanti problemi di quanti non ne abbia risolti: incertezza sui confini e molti territori contestati, traffici commerciali bloccati con pesanti conseguenze sulla sicurezza alimentare ed il costo della vita per gli Stati del Sud Sudan settentrionale legati a doppio filo a Khartoum, tensioni fra i due eserciti alle prese con la guerriglia del Darfur, delle montagne Nuba e dello Stato del Nilo Blu, tutti situati in Sudan ma al confine col Sud Sudan, tutti alleati contro Khartoum e ora saldati in un Fronte Nazionale, segretamente ma poi neanche tanto, appoggiato dal governo Sud Sudanese. Ma il fattore di gran lunga più importante della contesa è la maledizione nera, chiamato anche, ingannevolmente, “oro nero”.





Lo Stato di Unity (cioè Unità) galleggia letteralmente sul petrolio, niente a che vedere con gli immensi giacimenti petroliferi dell’ Iran, dell’Iraq, della Nigeria o del Venezuela ma pur sempre importanti riserve di petrolio. Il  territorio è piatto, appoggiato sui detriti millenari del serpeggiante e maestoso Nilo bianco e ricoperto di una spessa vegetazione secca e giallastra, almeno in questo periodo dell’anno. Questa non è l’Africa da cartolina, non è l’ Africa di turisti con cappelli ridicoli e vestiti come David Livingstone e nemmeno l’Africa delle spiagge bianche con le mucche e le donne avvolte da vestiti colorati, questa è l’arida terra dei falchi e a giudicare dal numero di falchi, anche la terra delle vipere e dei serpenti. Un ambiente duro, secco, primitivo, dove ogni goccia d’acqua è preziosa e i falchi la fanno da padroni. In mezzo a questa campagna dura ed incontaminata ci sono stormi di uccelli bellissimi, gialli, in stormi di alcune centinaia che volano di campo in campo a mangiare il sorgo dei poveri contadini, oppure rossi, come il sangue versato durante le battaglie combattute da secoli fra Dinka e Nuer, tribù sorelle impegnate da sempre in una eterna ed infinita lotta all’ultima mucca. Le mucche sì, talmente importanti e rispettate che l’impostazione culturale dinka impone alle donne di starne lontane dalla cura delle mucche, troppo importanti perché se ne occupino degli essere “deboli ed inaffidabili” come le donne. L’unica cosa che le donne possono fare con le mucche è mungerle, per tutto il resto l’uomo la fa da padrone e decide, e spesso è l’unica cosa che fa. L’uomo solitamente delega alle donne tutto il resto: il compito di crescere i bambini e le bambine, sfamarli, lavarli, educarli e pensare a tutto ciò che serve per la casa dalla legna all’acqua, dall’agricoltura al piccolo commercio. Dinka e Nuer popoli guerrieri e fieri, dall’orgoglio feroce, impulsive, distruttivo e autodistruttivo, un orgoglio che si riflette nella vita di tutti I giorni con conseguenze violente in una terra dove sopravvive solo il più forte. Basta guardarli in faccia i Dinka e I Nuer, sguardi severi, volti spigolosi, fronti basse, rigate per lungo da cicatrici rituali che affondano le radici in una storia senza tempo, profondità e memoria.
La piatta pianura intatta e selvaggia è stuprata da oasi di modernità volgare, dietro una curva compare un mastodontico deposito di petrolio, appena fuori un villaggio di fango e malaria ecco le tubature dell’ oleodotto che porta questo veleno nero a Port Sudan. E allora forse si capisce perché questa zona di confine sia cosi importante ed ambita. Ecco che forse si spiegano le lunghe colonne di auto con mitragliatori, mortai e cannoni di gruppi ribelli in sfilata in pieno giorno, braccia di menti fredde e corrotte che siedono a pancia piena dietro agli scranni dei parlamenti nazionali. Sulle montagne Nuba si uccide e si è uccisi, si fugge dalle bombe la vera partita si gioca altrove: Juba, Khartoum, Washington, Pechino, Bruxelles. I falchi , I corvi e gli avvoltoi che giocano sulla pelle dei sudanesi, giovani e vecchi, Dinka o Nuer non importa, tutti fili d’erba della battaglia fra elefanti malati che combattono per un mondo sempre più a rischio.
Basta guardarsi attorno mentre si percorrono le polverose piste di polvere di Unity per capire perché il 100% dei pozzi d’acqua della contea di Koch sono gravemente contaminate e l’acqua non adatta per il consumo umano. Pozzi avvelenati da metalli pesanti che staranno nella terra argillosa, dura e secca per secoli, souvenir ai posteri di una maledizione nera che prima o poi finirà. E le ONG che fanno? Al momento raccomandano che è meglio berla quell’acqua inquinata piuttosto che morire di sete, pensiero freddo, razionale e sensato ma terribilmente triste ed ingiusto. Cosi si chiude la riunione delle ONG, un grido di rabbia e disperazione mi si soffoca in gola, in fondo non ci si può far niente, per ora…

Stefano Battain, 
ex volontario CVM, ora in Sud Sudan



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