mercoledì 27 marzo 2013

Africa, oltre i 4 anni






Kosovo! Kosovo!” grida il controllore del minibus, “Acha!” risponde una grassa signora avvolta in un vestito che è un caleidoscopio di colori brillanti e vivaci: giallo, rosso, verde, blu, sudata, si alza con 2 enormi sachetti di plastica nera, scende lentamente dal minibus. Asciugandosi il sudore dalla fronte sotto il sole cocente e abbacinante del meriggio equatoriale, si guarda intorno alla ricerca di una moto-taxi (piki-piki). Kosovo non è lo stato dei Balcani, ma la penultima fermata dei mezzi pubblici sulla tratta che da Dar es Salaam, Dar per gli amici, porta a Bagamoyo, Baga per gli amici.
Sono arrivato a Bagamoyo per la prima volta il 23 novembre 2008, non sembra ieri, sembra tanto tempo fa, molte cose sono cambiate. Tornare ancora qui, oltre quattro anni dopo fa uno strano effetto e avendo tempo per riflettere mi trovo a pensare a quante cose siano cambiate in questi anni e a quante invece siano rimaste le stesse.
Per fortuna la spiaggia è rimasta la stessa, a volte tranquilla e silenziosa, a volte movimentata e rumorosa, fitta di pescatori intenti avendere il pesce, scaricatori di porto che scaricano le immancabili taniche di plastica gialla dai barconi che commerciano con Zanzibar e compratrici di pesce, sdraiate a pulirlo o a contrattare il miglior prezzo possible. Le corde che ancorano le barche a terra sono sempre là, e noi, a schivarle, a passare sopra o sotto. L’odore della spiaggia è lo stesso, alghe, pesce imputridito ma anche la brezza dell’Oceano Indiano, che rinfresca e risolleva il corpo e la mente. Due grandi alberghi sono andati a fuoco 3 anni fa e non hanno più riaperto, mentre un colosso di cemento sbiancato è sorto a pochi centinaia di metri dalla croce che ricorda i primi missionari cattolici che alla fine del XIX secolo sono arrivati a Bagamoyo per predicare il Vangelo. Ora, oltre all’opera evangelizzatrice, hanno costruito e gestiscono un albergo, i tempi cambiano.
Alcune strade, prima di sabbia sono state asfaltate, di certo sono più comode, ma significa anche che i giovani e spericolati guidatori delle moto-taxi e i pazzi guidatori di camion e minibus possono sfrecciare a velocità nettamente superiori, mettendo a repentaglio la vita dei passanti, soprattutto quella di bimbi distratti e anziani dalla vista scarsa e dai movimenti rallentati. Ora a Bagamoyo ci sono 2 banche con il relativi bancomat, di cui uno allacciato ai circuiti internazionali, quando sono arrivato io, per prelevare bisognava andare a Dar es Salaam. Più banche non significa necessariamente che la gente abbia più soldi, anzi l’impressione di tutti è che nei locali pubblici, alberghi e ristoranti ci sia sempre meno gente, locali che una volta erano il fulcro della vita serale e notturna di Bagamoyo (sì, anche in Africa si fa festa…) sono ora smorti e popolati solo di qualche indomabile bevitore e qualche dolce coppietta che sorseggia una bibita sussurrandosi frasi d’amore.
I prezzi di alcuni beni di consumo sono aumentati in maniera spropositata: la farina di mais per l’ugali, il piatto base dell’alimentazione tanzaniana è passata da 6-700 scellini al kilo (0,33-0,38 cent di euro) a 1.200-1.400, esattamente il doppio; il riso è passato da 1.200-1.300 scellini (66 cent di euro) ad attorno 2.000-2.200 scellini al kilo; la birra ha subito lo stesso aumento del riso, da 1.300 scellini nel 2009 a 2.000 scellini nel 2013. I salari e i prezzi per i contadini non sono aumentati di pari passo e questo ha avuto terribili conseguenze alimentari. Le famiglie più povere, che sono spesso anche le famiglie più numerose, si sono trovate e diminuire il numero di pasti mettendo i bambini a rischio malnutrizione. L’aumento del prezzo della birra ha anche indotto ad un aumento del consumo di alcol prodotto localmente con relativo rischio di salute. L’alcol locale, infatti, viene spesso “tagliato” con sostanze tossiche in maniera da renderlo più potente. Mezzo litro, al costo di circa 500-600 scellini (un quarto di una birra) basta allo sballo per una serata ma spesso costa ai consumatori l’integrità o la funzionalità di fegato, del cervello o la perdita della vista.
Alcune cose cambiano, altre rimangono uguali, spesso sia in un caso che nell’altro capire il perchè è complicato , difficile, l’Africa è un continente complesso, imprevedibile, credo, in un certo qual modo inconoscibile, inafferrabile e inspiegabile. Dopo quattro anni qua non credo di capirne molto di più, si, ho imparato molte cose, parlato con centinaia di persone, mi sono confrontanto e scambiato idee con gente di tutti i tipi ma non credo di aver migliorato di molto la mia compresione delle dinamiche interpersonali, comunitarie e sociali di questo angolo d’Africa. Al contrario, sono convinto che forse, per vivere bene qui, a volte bisogna lasciar stare le spiegazioni razionali e i mille dubbi, la ricerca di un perchè e semplicemente vivere, assaporare, nel dolce e nell’amaro, il gusto di un continente altro, ricco di drammi, ma anche di idée, sogni e speranze.
Al buio, seduto su una scomodissima sedia di plastica, ascolto le rane che nel vicino stagno gracidano fragorosamente, osservo la sagoma nera delle palme, si stagliano contro il cielo blu scuro punteggiato di luci, le fronde si muovono, la brezza soffia leggera sulla pelle e solleva un brivido piacevole. Col naso all’insù, ad ammirare lo scintillio della via lattea e questo meraviglioso spettacolo notturno smetto di pensare, ecco, l’Africa.

Stefano Battain, ex volontario CVM ora in Sud Sudan 

lunedì 18 marzo 2013

L'acqua del vicino 

Mercoledí ho cominciato a prendere lezioni di amarico da una ragazza che vive vicino a casa. Ci vado dopo lavoro, alle 6, quando rientra anche suo marito che si diverte un sacco a guardarci e poi vuole fare lui il maestro. Hanno un bambino di 5 mesi sempre con il culetto fuori, non so se gli tagliano apposta un buco dietro sulle tutine, o se gli hanno regalato tutti I vestitini di seconda mano già bucati. Il pannolone non è ancora arrivato a Bonga.
Gennet, la mia insegnante, ha una casa di fango, sempre piena di galline, pulcini, gatti e cani. Al calar del sole arrivano tutti perchè fuori diventa pericoloso (scimmie, serpenti, cani randagi..) sicchè la lezione è interrotta da una gran confusione. Due chioocce si mettono in riga con I pulcini su una panca a dormire, altre due galline vanno da Gennet che le lancia in alto così si piazzano su una trave di legno del soffitto e dormono lì.
Venerdí sera Gennet ha organizzato un “coffee programme” per il compleanno di Sally, la mia amica del Peace Corp americano che ha compiuto 28 anni questa settimana. C'erano lei, in vestito di garza bianca elegantissima per l'occasione, suo marito e il piccolo Geremia con il culetto fuori, le 3 sorelle di lei con I figli e qualche bambino dei vicini. Hanno piazzato me e Sally al posto d'onore e ci hanno riempito due flûtes con il tej, un liquore di miele. Poi hanno fatto la preghiera (tutti pregano prima di mangiare, o almeno fanno un segno della croce al piatto), ed è stato davvero commovente. Il marito di Gennet, pensando a lungo le parole in inglese, ha detto qualcosa tipo” Non sappiamo cosa succederà domani, cosa ci sarà nel nostro futuro, ma oggi siamo qui tutti insieme, Signore concedi la salute a Sally, a Giulia e a tutti, facci stare under your holy umbrella” quando ha detto così mi è quasi venuto da piangere per l'impegno che ci stava mettendo nel trovare le parole giuste e per quanto ci credeva in quello che stava dicendo.
La stanza era tutta addobbata con cartelli stampati in ufficio “Happy birthday Sally” e avevano preparato l'angolo per la cerimonia del caffè. Vuol dire che si sparpagliano delle erbe per terra, erbe che crescono sulle sponde dei corsi d'acqua, per ricreare l'ambiente naturale all'interno della casa, foresta e acqua. Per le grandi occasioni, come questa, si mettono anche un sacco di fiori attorno al tavolinetto del caffè. Questo di solito è di legno, piccolino, alto un 30-40 cm, pieno di tazzine sopra. Accanto c'è la jebena sul braciere a carbone, è una brocca di ceramica nera usata appositamente per il caffè. Cerimonia del caffè vuol dire:
  1. tostatura dei grani su un piatto di ferro largo
  2. macinatura su una specie di zancola per il burro, non lo mai guardata bene da vicino, comunque è una specie di pestello gigante.
  3. infusione della polvere ottenuta nell'acqua calda nella jebena
Insomma, è un procedimento abbastanza lungo ed elaborato, e ti accorgi di quanto ti considerano importante come ospite da quanti fiori hanno messo intorno e quante fasi della cerimonia vengono fatte davanti ai tuoi occhi (a volte alcune si saltano per ovvie ragioni...tipo non perdere un pomeriggio per una tazza di caffé...). Dimenticavo, col caffé sempre si accompagna anche un piatto di pop-corn.
Per l'occasione Gennet aveva preparato anche una specie di torta, cioè un pane intriso di boh...qualcosa di oleoso e dolciastro, e sopra ci aveva spennellato una specie di sciroppo colorato. Non esistono dolci nella cucina etiope, per cui aveva cercato di fare qualcosa che venisse incontro ai nostri gusti da ferenji...
Io avevo trovato in città dei mars e un bounty, e li avevo messi su un piatto insieme a del pane con la marmellata, che a Bonga non esiste perchè non c'è molta varietà frutta (io l'ho portata da Addis, è importata dall'Olanda). I bambini erano tutti in riga ordinati sulla panca davanti a noi e hanno fatto I seri per tutta la sera, visto che era una festa importante, ed hanno molto apprezzato questa cosa della marmellata. È stato davvero bello.



Il mio vicino è un insegnante in pensione, si chiama Alemayu. Ha avuto anche il nostro autista Agegno come studente. Vado a casa sua ogni tanto perchè mi ha gentilmente invitato ad andare a prendere l'acqua da lui. La mia casa è a secco e lo rimarrà fino alla stagione delle piogge, per cui ogni 2-3 giorni vado a riempire un secchio da 20 litri. Ho scoperto che con circa 40 litri d'acqua in una settimana posso lavarmi, cucinare, lavare stoviglie e bucato, non l'avrei mai detto dopo 30 anni di vita in Italia, dove aprendo il rubinetto esce tutta l'acqua che voglio.... Per bere compro delle bottiglie, in attesa di procurarmi un filtro per rendere l'acqua potabile.
Ho il permesso di entrare nel cortile di Alemayu a qualsiasi ora e rifornirmi di acqua. Qui a Bonga basta spingere il cancello per entrare nelle case, non ci sono molte serrature. La zona in cui abito è la più alta del paese, si chiama Mishin per via della Missione Cattolica (mission in inglese). L'acquedotto cittadino ci arriva, per cui alcune case hanno un rubinetto in cortile (quelle in cui la tubazione arriva fin dentro casa per la cucina o il bagno sono pochissime, forse nessuna), molti altri invece vanno a riempire le taniche a una fontana costruita recentemente. Io non ci posso andare per il momento, dovrei andare all'Ufficio dell'Acqua e pagare l'apposita tariffa, non mi sono ancora organizzata, per cui....dal vicino!
Ieri mentre aspettavo che il mio secchio si riempisse quest'uomo anziano, con radi capelli bianchi, è venuto a farmi compagnia. Mi ha raccontato che è nato ad Addis Abeba, ma la sua famiglia è originaria del Nord dell'Amara. Ha studiato per diventare insegnante e appena ha finito è stato preso dalla Chiesa Cattolica Etiope per la scuola di Bonga. È venuto a vivere qui 44 anni fa. Ha sposato una ragazza giovanissima, di 14 anni, che stava frequentando l'ottava classe (questo potrebbe scandalizzare più di qualcuno, ma dobbiamo tenere conto che qui in Etiopia è la prassi nelle zone rurali, e che la speranza di vita oggi, mediando tra città e campagna, non arriva a 50 anni, quindi chissà quanto poteva essere in questa zona rurale più di 40 anni fa, 30 anni?). Quando si sono sposati vivevano con lo stipendio da insegnante di lui, con il quale hanno pagato gli studi di lei prima alla scuola superiore e poi al college di Jimma (a circa 150 km da qui), così è diventata insegnante pure lei.
In seguito in Etiopia ha preso il potere il regime comunista, chiamato Derg, che ha nazionalizzato tutte le scuole, per cui entrambi sono diventati dipendenti statali e hanno continuato a lavorare alla scuola pubblica. Hanno avuto 5 figli, Alemayu si esprime abbastanza bene in inglese ma non capisce molto quello che gli dico, per cui più che altro ascolto e mostro interesse o stupore con la faccia, ad ogni modo sono contenta che mi voglia raccontare sua storia... Oggi I 4 figli maggiori, 2 maschi e 2 femmine, sono in America. Uno è medico, un'altra è infermiera specializzata, degli altri non mi ha detto che cosa facciano. Ogni tanto I genitori li vanno a trovare e rimangono qualche mese in America. La figlia più giovane sta studiando ingegneria civile ad Awassa. “Ho avuto una bella vita, lunga e bella” mi dice **NOME** concludendo. “Ho anche avuto una brutta malattia allo stomaco e mi hanno operato in America”, aggiunge, “ e grazie a Dio da più di un anno sto bene. Mia moglie deve lavorare ancora qualche anno prima di andare in pensione, e poi ci riposeremo tutti e due. I figli stanno bene. Sono vissuto molto felice a Bonga per 44 anni, pensa, 44 anni!!”. È bello sentirglielo dire. Un'insegnante etiope oggi prende poco più di 50 euro al mese, lo stretto necessario per vivere. Alemayu sottolinea un po' il suo trasferimento dalla capitale anche perchè la maggior parte delle persone nate e cresciute a Addis non verrebbero qui molto volentieri, e chissà com'era questa cittadina negli anni '70, senza strade, senza luce, senza telefono, senza dottori o medicine... Oggi io ci vivo bene perchè posso comunicare facilmente con il resto dell'Etiopia attraverso il telefono, e con il resto del mondo attraverso internet, ma appena fuori del centro abitato di Bonga non funziona ancora nulla di tutto ciò. E soprattutto, motivo per cui sono qui, la quasi totalità degli abitanti della zona rurale della Kaffa tuttora si rifornisce di acqua presso pozze, torrenti o comunque fonti non sicure.

Giulia Baldissera, ingegnere CVM in Etiopia 

lunedì 4 marzo 2013

Bentiu, ultima corsa






Fiato corto, il fango secco scricchiola sotto i piedi, una mattina di gennaio a Bentiu, la mia ultima corsa in sud Sudan. Per la verità sono state poche, pigrizia, lavoro, alta mobilità fra i 2 campi rifugiati e la base di Bentiu, tanto fango e poi la pesante malaria di Ottobre hanno contribuito a rendere le mie corse davvero sporadiche. Tempo di bilanci e di “ultime volte”.
L’ultima tappa alla panetteria di Mohamed, l’allegro signore, anzianotto e pacioccone, dalla pelle color del rame, incorniciata da una barba d’argento ed un cappello bianco, cilindrico e un po’ consumato, il suo negozio è nel souk (mercato) di Rubkona, nelle vicinanze l’ufficio di CARE International e di un paio di agenzie delle Nazione Unite, vende il più buon pane di tutta Bentiu, morbido, lievitato, soffice, al contrario dell’ esh, piatto, bianco, non lievitato e senza sale, quello che spesso in Italia chiamiamo “pane arabo”. Mohamed è stata una tappa fondamentale di ogni visita sul campo. Sveglia presto, preparativi pre-partenza, un occhio alla mail, una saluto a Daniela su Skype e poi via, Land Cruiser carico di materiale, telefono satellitare carico, radiotrasmittenti accese e quell’eccitazione mista ad entusiasmo che sempre c’è nell’aria all’inizio di ogni visita sul campo, che poi altro non è che un viaggio, di lavoro, ma pur sempre un viaggio.
L’ultima visita sul campo, l’auto dondola lenta per le vie di Bentiu, donne magrissime con enormi carichi in testa oppure sedute al mercato improvvisato a vendere zucchero, di cui i sudsudanesi sono assai ghiotti. Polvere, c’è tanta polvere in questo periodo, da due mesi niente piogge, l’ultima pioggia che ho visto è stata quella che mi ha fatto passare la notte in macchina con Afayo, a fine Ottobre, bloccati nel fango in attesa di soccorsi. Appena fuori Bentiu tappa da Mohamed, pane e qualche soda, compro anche un po’ di sale, da aggiungere al pane di Mohamed per insaporirlo un po’. Poi via verso nord, attraversando i campi petroliferi, le enormi pianure dominate da branchi di centinaia di mucche al pascolo, controllate da magrissimi pastori dinka, a volte provvisti di mitra AK-47, anche conosciuto come Kalashnikov, secondo voci ben informati reperibile senza in zona (ovviamente senza licenza) per circa 200 dollari, lo stipendio mensile della nostra donna delle pulizie-cuoca.
Ultima visita a Pariang, qualche successo e molte battaglie perse, 6 mesi intensi fra campi rifugiati allagati, campi che sono acquitrini, i ragazzi del progetto che cercano di far crescere pomodori, melanzane e cipolle su una terra difficile, prima molle come argilla poi dura come il carbone. Le lunghe giornate a camminare per Pariang con Kuol e le centinaia di buche scavate per niente per piantare alberi che poi abbiamo dovuto spostare di nuovo, alti a bassi di 6 mesi vissuti intensamente, fra la mancanza di elettricità, la rete del telefonino che c’è come se non ci fosse e tanti piatti di riso e lenticchie (a proposito, incredibile a dirsi ma mi mancano già un bel po’ le lenticchie).





L’ultima volta a Nyeel, il campo rifugiati in miniatura ma dove si trova gente dal cuore grande, e a volte anche dalla testa dura, gente do montagna, montagne Nuba, diretti, pronti a criticare errori ma anche a riconoscere quando le cose vanno per il verso giusto, gente orgogliosa ma anche africanamente ospitale e sorridente.
Ultimi sguardi su una terra aspra, dalla savana secca che dall’altro diventa una pelle di leopardo a causa degli enormi ed estesissimi incendi di questo periodo dell’anno, volontari o meno rendono l’aria carica di cenere che penetra in casa e si deposita ovunque, il cielo diventa più opaco e aleggia, portato dal vento, un forte odore di erba bruciata.
Ultima serata al Grand Hotel, con i colleghi di altre ONG, sedie di plastica, una notiziario in kiswahili lla TV, birra Red Horse calda, qualche verde latina di Heineken sul tavolo, sigarette keniane di sottomarca, chiacchere indistinte, racconti di incertezza e frustrazioni, io alzo gli occhi e guardo il cielo stellato di questo Sud Sudan così instabile e cosi complesso, affascinante e selvaggio.




Ultimo abbraccio a Michael nel buio della notte e penso ai 6 mesi trascorsi insieme, un grande amico, tante serate, tante ore di lavoro e sudore insieme, tante notti in tenda, ognuno chiuso un po’nel suo mondo a ritrovare le energie per affrontare la giornata successiva, come lumache che si ritirano nel proprio guscio, la sera si parla poco, bisogna staccare, musica, affetti, qualche telefonata oltre confine e qualche serie televisiva.
Sto sedimentando ora l’esperienza in Sud Sudan, ci impiego tempo ad elaborare emozioni, esperienze, punti di vista, da fuori sarà più facile ora che ho lasciato la terra dei pastori dinka, dei falchi e delle pianure del Nilo a perdita d’occhio




Stefano Battain,
ex volontario CVM ora in Sud Sudan