Fiato
corto, il fango secco scricchiola sotto i piedi, una mattina di
gennaio a Bentiu, la mia ultima corsa in sud Sudan. Per la verità
sono state poche, pigrizia, lavoro, alta mobilità fra i 2 campi
rifugiati e la base di Bentiu, tanto fango e poi la pesante malaria
di Ottobre hanno contribuito a rendere le mie corse davvero
sporadiche. Tempo di bilanci e di “ultime volte”.
L’ultima
tappa alla panetteria di Mohamed, l’allegro signore, anzianotto e
pacioccone, dalla pelle color del rame, incorniciata da una barba
d’argento ed un cappello bianco, cilindrico e un po’ consumato,
il suo negozio è nel souk
(mercato) di Rubkona, nelle vicinanze l’ufficio di CARE
International e di un paio di agenzie delle Nazione Unite, vende il
più buon pane di tutta Bentiu, morbido, lievitato, soffice, al
contrario dell’ esh, piatto,
bianco, non lievitato e senza sale, quello che spesso in Italia
chiamiamo “pane arabo”. Mohamed è stata una tappa fondamentale
di ogni visita sul campo. Sveglia presto, preparativi pre-partenza,
un occhio alla mail, una saluto a Daniela su Skype e poi via, Land
Cruiser carico di materiale, telefono satellitare carico,
radiotrasmittenti accese e quell’eccitazione mista ad entusiasmo
che sempre c’è nell’aria all’inizio di ogni visita sul campo,
che poi altro non è che un viaggio, di lavoro, ma pur sempre un
viaggio.
L’ultima
visita sul campo, l’auto dondola lenta per le vie di Bentiu, donne
magrissime con enormi carichi in testa oppure sedute al mercato
improvvisato a vendere zucchero, di cui i sudsudanesi sono assai
ghiotti. Polvere, c’è tanta polvere in questo periodo, da due mesi
niente piogge, l’ultima pioggia che ho visto è stata quella che mi
ha fatto passare la notte in macchina con Afayo, a fine Ottobre,
bloccati nel fango in attesa di soccorsi. Appena fuori Bentiu tappa
da Mohamed, pane e qualche soda, compro anche un po’ di sale, da
aggiungere al pane di Mohamed per insaporirlo un po’. Poi via verso
nord, attraversando i campi petroliferi, le enormi pianure dominate
da branchi di centinaia di mucche al pascolo, controllate da
magrissimi pastori dinka, a volte provvisti di mitra AK-47, anche
conosciuto come Kalashnikov, secondo
voci ben informati reperibile senza in zona (ovviamente senza
licenza) per circa 200 dollari, lo stipendio mensile della nostra
donna delle pulizie-cuoca.
Ultima
visita a Pariang, qualche successo e molte battaglie perse, 6 mesi
intensi fra campi rifugiati allagati, campi che sono acquitrini, i
ragazzi del progetto che cercano di far crescere pomodori, melanzane
e cipolle su una terra difficile, prima molle come argilla poi dura
come il carbone. Le lunghe giornate a camminare per Pariang con Kuol
e le centinaia di buche scavate per niente per piantare alberi che
poi abbiamo dovuto spostare di nuovo, alti a bassi di 6 mesi vissuti
intensamente, fra la mancanza di elettricità, la rete del telefonino
che c’è come se non ci fosse e tanti piatti di riso e lenticchie
(a proposito, incredibile a dirsi ma mi mancano già un bel po’ le
lenticchie).
L’ultima
volta a Nyeel, il campo rifugiati in miniatura ma dove si trova gente
dal cuore grande, e a volte anche dalla testa dura, gente do
montagna, montagne Nuba, diretti, pronti a criticare errori ma anche
a riconoscere quando le cose vanno per il verso giusto, gente
orgogliosa ma anche africanamente ospitale e sorridente.
Ultimi
sguardi su una terra aspra, dalla savana secca che dall’altro
diventa una pelle di leopardo a causa degli enormi ed estesissimi
incendi di questo periodo dell’anno, volontari o meno rendono
l’aria carica di cenere che penetra in casa e si deposita ovunque,
il cielo diventa più opaco e aleggia, portato dal vento, un forte
odore di erba bruciata.
Ultima
serata al Grand Hotel, con i colleghi di altre ONG, sedie di
plastica, una notiziario in kiswahili lla TV, birra Red Horse calda,
qualche verde latina di Heineken sul tavolo, sigarette keniane di
sottomarca, chiacchere indistinte, racconti di incertezza e
frustrazioni, io alzo gli occhi e guardo il cielo stellato di questo
Sud Sudan così instabile e cosi complesso, affascinante e
selvaggio.
Ultimo
abbraccio a Michael nel buio della notte e penso ai 6 mesi trascorsi
insieme, un grande amico, tante serate, tante ore di lavoro e sudore
insieme, tante notti in tenda, ognuno chiuso un po’nel suo mondo a
ritrovare le energie per affrontare la giornata successiva, come
lumache che si ritirano nel proprio guscio, la sera si parla poco,
bisogna staccare, musica, affetti, qualche telefonata oltre confine e
qualche serie televisiva.
Sto
sedimentando ora l’esperienza in Sud Sudan, ci impiego tempo ad
elaborare emozioni, esperienze, punti di vista, da fuori sarà più
facile ora che ho lasciato la terra dei pastori dinka, dei falchi e
delle pianure del Nilo a perdita d’occhio
Stefano Battain,
ex volontario CVM ora in Sud Sudan
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