giovedì 27 febbraio 2014



MAMA JAMILA!



Venerdì sono andata insieme alle colleghe di BAGEA in una primary school di Bagamoyo per una mattinata di peer education con gli studenti. BAGEA è nata per promuovere il diritto allo studio delle ragazze qui nel distretto, dati gli enormi ostacoli culturali, economici e sociali che ancora esistono a un riconoscimento pieno e reale dei diritti per le donne, in primis quello all’educazione. Normalmente lavoriamo e promuoviamo attività di educazione, promozione dei diritti e sensibizzazione per le ragazze dai 16 ai 30 anni, ma abbiamo capito che se non si lavora anche con bambini e bambine, se non si comincia fin da subito a parlare del diritto alla dignità, all’educazione, alla promozione femminile, poi sarà molto più difficile lavorare con le ragazze ma anche con le stesse comunità locali nelle quali le ragazze vivono.
E cosi, ecco l’idea di andare nelle scuole, per cercare di spiegare e fare passare, in maniera semplice e “giocosa”, concetti come il diritto all’educazione e il diritto a un’educazione paritaria per bambini e bambine, lotta contro la violenza sulle donne, un inizio di educazione sessuale e sulle malattie sessualmente trasmissibili. Forse sembra un po’ prematuro, ma in un paese in cui il tasso di gravidanze precoci (riferendosi a un’età che va dai 11 ai 14 anni) è tra i più alti al mondo forse cambierete idea. L’obiettivo è che gli studenti formati a loro volta possano trasmettere un po’ delle nozioni apprese ai loro coetanei e amici. Ecco il senso della peer education.
Sono arrivata a scuola con Alala, la presidente di BAGEA che ha una carica ed un’energia trascinante soprattutto con i giovani, Jamila, la segretaria dell’associazione, e Valentina, nuova SVE sbarcata da poco più di un mese a Bagamoyo. Per me non era la prima volta che partecipavo alla peer education, ma confesso che fa sempre un certo effetto entrare in queste classi polverose e ombrose, dove ti servono alcuni minuti per abituarti all’oscurità venendo dalla luce accecante di fuori, in cui stanno stipati, in rigoroso silenzio e ansiosa attesa dai 45 ai 60 bambini. Una classe. 120 occhi fissi su di te. Ad aspettare quello che tu farai e dirai. Ad aspettare un tuo cenno. Alala si è presentata, ha presentato l’associazione e il motivo della nostra presenza qui. Poi ci ha fatto presentare. L’ultima peer education a cui avevo partecipato era stata diversi mesi fa, quando il livello del mio swahili era davvero basico, mi toccava presentarmi in inglese e i bambini mi guardavano sempre con deferenza e un po’ di timore. Questa volta mi sono presentata in swahili, e i bambini hanno risposto al mio “Mambo!” con un caloroso “Poa!!” Alala ha cominciato a introdurre diversi concetti chiedendo ai bambini di intervenire con suggerimenti e opinioni. Parlando della vita quotidiana, chiedendo il riferimento alle loro storie personali, a quello che i bambini vedono e vivono in casa e a scuola è molto più facile riuscire a parlare anche di concetti “difficili” come parità uomo-donna, educazione, violenza. A ogni spiegazione seguiva una fase di lavori di gruppi in cui i bambini si raggruppavano a gruppetti di 6-7 per discutere insieme dei temi affrontati e sviluppare le loro idee. E poi, per sciogliere la tensione, la parte più bella: una sorta di bans-versione tanzaniana proposti da Alala. Ce n’è in particolare uno che Alala mi ha insegnato durante la prima peer education e che è un po’ il suo cavallo di battaglia. Inizia cosi: “Mama Jamila (una presa in giro nei confronti della “nostra” Jamila) anasonga ugali”: che tradotto vuol dire “Mama Jamila prepara l’ugali (uno dei piatti nazionali tanzaniani: la tipica polenta bianca di mais). E poi continua: “con una mano, con l’altra mano, con i piedi, abbassandosi fino a terra, ballando” etc. Tutto mimato. Alala ha cominciato in sordina, invitando i bambini a seguirla. Credo che non credessero ai loro occhi e ai loro orecchi. Un adulto che dava loro l‘autorizzazione e ballare e cantare a squarciagola in classe. Subito hanno cominciato timidamente poi si sono scatenati, come solo i bambini sanno fare, soprattutto quelli africani. Ad un certo punto ho pensato che l’aula sarebbe venuta giù. E devono averlo pensato anche  le persone fuori, perché è venuta un’insegnante da un altra classe per chiedere se andava tutto bene. Dopo un’altra “sessione di lavoro” Alala ha riproposto il bans, chiedendo a me e Valentina di accompagnarla. È stato lo spettacolo. Cioè non per la nostra performance, che davvero lasciava alquanto a desiderare soprattutto se paragonata all’elasticità africana, ma per il momento di condivisione che si è creato. I bambini si sbellicavano dalle risate, e poi, dopo un attimo, hanno ripreso a ballare con noi. Siamo qui per parlare di diritti, di educazione, e spesso rimaniamo chiusi nei nostri uffici, sapendo poco di cosa vuol dire “educazione” qui, e di cosa vuol dire lavorare insieme con la gente del posto per rafforzare questo diritto. Io non sono un’educatrice o un’animatrice, non mi ci vedo e non credo che sarebbe il mio posto, ma in quella classe, cantando insieme di come si prepara l’ugali, mi è sembrato per un attimo di essere più vicina a quei bambini che mi prefiggo di “aiutare” dal mio ufficio, di capire un po’ di più, di entrare un po’ di più nella loro storia. Come quando con l’ortolano mi fermo a discutere di come si cuoce il matembele (una sorta di bietola locale), o come quando con Roma, il mio insegnante di swahili, discutiamo di cosa vuol dire essere giovani lavoratori in Tanzania o in Europa..

Oggi, dopo il lavoro, stavo camminando per le stradine di Bagamoyo. Un gruppo di bambini con indosso la divisa scolastica mi si è avvicinato e mi ha salutato. Capita spesso e non ci ho fatto troppo caso. Poi però mi hanno detto “Mambo Vale!Mama Jamila wapi???” (Ciao Vale, dov’é Mamma Jamila???.. erano i “nostri” studenti..si erano ricordati! Era rimasto qualcosa della mattinata passata insieme! Mi piace pensare che tra una parola di un bans e un’altra sia rimasto anche qualche riferimento a educazione e diritti umani. Spesso mi sento amareggiata o delusa, quando ho l’impressione che si riesca a fare cosi poco, che alla fine le persone siano cosi poco interessate a quello che facciamo. È bastato un “Mama Jamila” a farmi tornare il sorriso. A farmi dire che non è mai tutto inutile. Ridendo ho risposto “Mama Jamila pale ofisini ya BAGEA!” (è all'ufficio di BAGEA).

Valentina Codeluppi - SVE Tanzania
Bagamoyo, 18 febbraio 2014




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