Quando a inizio Settembre ho lasciato Bagamoyo per
trascorrere qualche giorno a casa, mi sono trovata nella difficile situazione
di raccontare a parenti ed amici quello che questi sei mesi in Tanzania hanno
rappresentato per me. Ho sempre trovato difficile raccontare a terzi pezzi di
viaggi, esperienze, storie sentite e persone incontrate. Alla luce di questo,
al ritorno dopo ogni periodo passato lontano da casa, ho sempre atteso con un
certo timore il momento in cui parenti ed amici avrebbero iniziato con le domande di routine “Com’è andata?”, “Ma ti
è piaciuto?”, “Cosa hai fatto?”, “Come ti sei trovata?”, “Cos’hai
imparato?”. Dopo anni di esperienza,
posso dire con un certo orgoglio di aver ormai sviluppato tecniche di risposta
tali da permettermi di condividere quello che io definisco “il giusto
necessario”, ovvero quanto basta per dare qualche informazione ma allo stesso
tempo trattenere per me il cuore dell’esperienza appena vissuta.
Di conseguenza, quando sono salita sul volo diretto a
Milano Malpensa, avevo la consapevolezza che da lì a qualche ora, mi sarei
trovata a dover raccontare i mesi trascorsi a Bagamoyo e che difficilmente i
miei amici e la mia famiglia si sarebbero accontentati di qualche elusiva
informazione perché, si sa, sei mesi in Africa sono qualcosa che stuzzica la
curiosità delle persone.
Sorprendentemente, tuttavia, una volta giunta a casa
qualcosa di nuovo è accaduto: per la prima volta ho provato il desiderio di
condividere la mia esperienza. Ho raccontato a ruota libera i diversi aspetti
della mia vita qui, dalla quotidianità a Bagamoyo, a quella in villaggio, dal
lavoro in ufficio, alle attività durante le visite di monitoraggio nei villaggi
del distretto di Bagamoyo, dai momenti di ilarità a quelli di sconforto e
rabbia, perché se è vero che ci sono i primi è anche vero che le storie di vita
che ascolti ti restano dentro come macigni e non hai altra scelta se non quella
di diventarne testimone e di condividere con altri quella sofferenza per
renderli consapevoli, per denunciare.
Mi sono così trovata a raccontare di quando, una
mattina, durante un incontro nel villaggio di Msoga con il Education Committe locale, ovvero i gruppi di volontari che a
livello di villaggio hanno il compito di sensibilizzare le famiglie in
riferimento all’importanza dell’educazione dei bambini, io e Peacy, la
facilitatrice di CVM alla quale sono affiancata, ci siamo trovate a fare visita
a una famiglia dove era stato denunciato un caso di maltrattamento. Nello
specifico, il caso riguardava un bambino, con handicap mentali fin dalla
nascita, al quale non solo era negato il diritto all’istruzione, ma che era
solito passare giornate legato ad un palo fuori casa e il cui stato fisico
faceva sorgere molti dubbi anche sul suo stato di salute, mostrando evidenti
segni di malnutrizione.
Oppure ho raccontato delle ragazze che fanno parte di
Muungano, l’associazione di barworkers
di cui CVM sta sostenendo la nascita nelle Wards di Bagamoyo. Ho raccontato di quanto sia
difficile per queste donne, spesso solo ragazze, parlare di diritti in una
realtà in cui non esistono contratti di lavoro, ferie o orari di lavoro
precisi, in cui la paga è misera e in cui essere cameriere spesso significa
dover vendere anche il proprio corpo ai clienti.
Ho raccontato le tante cose belle che questa
esperienza mi sta donando, ma anche la concretezza che assume l’assenza di diritti per alcuni, i più
deboli e vulnerabili.
Giulia Letizia Spezzani
Volontaria Servizio Civile Tanzania
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