L’aria è acre, quasi irrespirabile. Entra dai finestrini della nostra auto che attraversa Addis Abeba, il “Nuovo Fiore” (questo è il significato del suo nome in Amarico), anche se in questo primo tragitto dall’aeroporto di fiori non se ne vedono. Piuttosto vetture, tante, troppe per quello che riescono ad emettere lungo le strade, affollate di gente che si muove tra la polvere, le baracche e qualche negozietto, come pure sullo sfondo di grandi palazzi, sprazzi di Occidente qua e lá, “Pepsi” e “Coca Cola”; il tutto in un generale senso di rutilante disordine, caos, ma senza frenesia, “prodotto” che il mondo sedicente evoluto non sembra essere riuscito ancora a far entrare in questo continente.
Da queste parti capitò pure il padre di mio padre. Altri tempi: niente veicoli dagli scarichi nauseanti, né tanto meno l’asfalto, che ora bolle sotto il sole sub sahariano. C’era una guerra da combattere, anzi da vincere, in nome della patria, per la gloria del rinascente Impero e altre amenitá del genere, in quegli anni bui così in voga. Egli ci capitò – ho scritto – perché chi viene chiamato alle armi deve partire, anche se non sa o non ne capisce le ragioni, da sempre, anche se ha una famiglia da sostenere o mille altre cose migliori e più degne da fare che non andarsene in luoghi sconosciuti a sparare contro uomini altrettanto sconosciuti, che nulla avrebbero a che spartire con lui, poiché lontani, lontanissimi, non solo geograficamente. Questione di prioritá; quelle di altri.
Io, invece, in Etiopia ho scelto di venire, lasciando l’ennesimo pseudo-lavoro da giornalista straprecario e sottopagato. “L’ultima volta che c’è stato qualcuno di Destra alle Politiche Giovanili, – ebbe a dire poco tempo fa l’irriverente Maurizio Crozza, ironizzando sull’attuale establishment politico italiano – i nostri ragazzi li mandavano in Etiopia.” Ebbene, eccomi qua, proprio nella Nazione di Hailé Selassié e Menelik, degli altopiani e dei grandi fondisti d’atletica, delle 80 lingue parlate e degli ancor più numerosi dialetti, la Nazione della ‘ngera e del tegh, delle tante etnie e contraddizioni, della millenaria tradizione ebraico-cristiana e dell’immensa cultura che attaverso questa si è preservata e tramandata fino ai giorni nostri. Sono qui, ma di mia sponte, ripeto. Questione di prioritá, anche in questo caso, ma di tutt’altra specie, sentite e non imposte.
“Farengi” (cioé “stranieri”) dicono i ragazzini che si accostano al finestrino, parziale schermo verso un mondo a me nuovo, in questo primo impatto con la terra da cui tutto ha avuto inizio, dove la creatura che esercita il suo dominio su tutte le altre mosse i suoi primi passi, per poi andare alla conquista del globo intero, espandendosi quale tremendo virus che infetta, modifica, deturpa l’organismo che lo ospita, in questo caso il nostro pianeta. Un virus, nel senso proprio del termine, da anni ormai colpisce in modo inesorabile la popolazione di questi luoghi e di questa Nazione in particolare: é quello dell’immunodeficenza umana, meglio noto come HIV, stadio antecedente all’AIDS o Sindrome d’Immunodeficienza Acquisita. A quest’ultima non servono presentazioni, é il motivo centrale, benché non unico, della presenza da queste parti del CVM, l’Ong italiana alla quale presterò il mio servizio nei prossimi undici mesi, documentandone i progetti e cercando di scoprire e narrare, all’interno di questi, le vicende, le storie e le vite di chi vi si trova coinvolto, nei diversi ruoli che la sorte riserva.
Pensieri, impressioni. La mente é alle prese con il Nuovo, si appresta ad affrontarlo, a svelarlo, a comprenderlo. Gli occhi ce lo hanno giá davanti; ma “l’essenziale é invisibile agli occhi”. Essenziale sarebbe, ora come ora, una superficie piana su cui far viaggiare il nostro mezzo targato CVM, che traballa e ballonzola tra i ciottoli, le buche e le irregolaritá varie di un tragitto improvvisamente mutato sotto i nostri piedi. A un tratto, niente asfalto; ma la polvere... quella non manca, anzi é ancora di più. I contorni del Nuovo sfumano. Ci sará tempo e modo per comprenderlo. Almeno un po’.
Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia
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