mercoledì 29 dicembre 2010

Insieme per cambiare vita (Domestiche in Etiopia)


Tra le cinquanta e le ottanta enjere al giorno (una sorta di pane etiope piatto e spugnoso che accompagna ogni pietanza) per un guadagno che può andare dai 100 ai 160 ETB (da 5 a 8 euro circa): sono questi i dati di partenza dell’attività avviata dall’associazione di ex housemaid di Debre Markos, nata grazie al sostegno del CVM (Comunità Volontari per il Mondo). Sono una decina di donne ma soprattutto ragazze, alcune giovanissime, che fino a qualche mese fa lavoravano come domestiche in casa d’altri, in condizioni spesso disumane, faticando per quindici ore al giorno in cambio di salari bassi, quando venivano pagati, e dovendo sottostare a soprusi e maltrattamenti di ogni tipo. Alcune di loro sono state anche violentate dai maschi delle famiglie in cui prestavano servizio, a volte ne è scaturita una gravidanza, ma mai hanno avuto giustizia per l’abuso subito. Ora per loro si apre una nuova strada: hanno abbandonato le precedenti attività e, grazie ad un progetto del CVM e ad un primo aiuto economico fornito dall’ONG (circa 20.000 ETB), hanno formato un’associazione legale e avviato una propria attività: la preparazione e la vendita dell’enjera. Hanno il loro laboratorio, ampio e munito di tutto il necessario, ricavato in una casa presa in affitto, e hanno organizzato dei turni con due gruppi che lavorano a giorni alterni.
I preparativi per dar vita a questa nuova realtà sono cominciati due mesi fa con la selezione delle domestiche, grazie alla collaborazione dell’associazione di donne povere anch’essa supportata dal CVM, cui ha fatto seguito un’attenta valutazione per la scelta dell’attività e poi l’acquisto dei materiali. Da due settimane il laboratorio ha preso a funzionare a pieno ritmo e le ragazze sono entusiaste, hanno una gran voglia di fare perché questa è la loro grande occasione. Alcune di loro le avevo incontrate appena arrivata in Etiopia, erano afflitte per le loro condizioni, disperate per l’impossibilità di cambiare vita, sopraffatte dal peso di tante difficoltà e troppi sacrifici, tutti da affrontare da sole, senza poter contare sull’aiuto di nessuno. Ora nei loro occhi scorgo una nuova speranza, vedo una vitalità che prima non c’era, uno spiraglio di fiducia che cerca di farsi strada. “La nostra vita sta cambiando, prima eravamo costrette a sottostare agli ordini di padroni spesso crudeli e non potevamo fare nulla contro i maltrattamenti che ci impartivano. Ora abbiamo una nostra attività, siamo noi a gestire il nostro lavoro, discutiamo insieme, prendiamo insieme le decisioni, non siamo più sottomesse alle imposizioni altrui”, spiega la coordinatrice dell’associazione, Maymanot Tefera. “Prima eravamo sempre in angoscia, temevamo le violenze degli uomini per cui lavoravamo, ora questo rischio non c’è più”, aggiunge subito Masitea Mengistu, mentre allatta il suo bambino che porta quotidianamente al lavoro. Per essere agli inizi l’attività sta andando bene, ma è necessario ampliarla e le forze per farlo ci sono: “Per ora riforniamo un solo hotel, dobbiamo trovare altri clienti per avere un guadagno che ci permetta di vivere solo con questa entrata. Adesso alcune di noi fanno anche altri piccoli lavoretti, come vendere la canna da zucchero lungo la strada, ma quando avremo più acquirenti da questa attività trarremo tutte le risorse necessarie. Lavoreremo sodo e amplieremo la nostra produzione”, spiega Embet Linger. Con l’importo iniziale che hanno ricevuto hanno comprato il necessario per partire con la preparazione dell’enjera, spendendo circa 6.000 ETB (circa 300 euro) e depositando il restante in un conto bancario comune, in vista del futuro e di possibili necessità improvvise. Qualche timore c’è ancora e finché non troveranno nuovi clienti resterà, ma nell’aria c’è un forte ottimismo, una gran voglia di fare e il fatto di essere insieme, unite, di poter contare le une sulle altre, di non essere più sole ad affrontare le difficoltà infonde a tutte una sicurezza prima sconosciuta. Nella ricerca di nuovi acquirenti, possono poi contare sull’appoggio del CVM e tramite questa ONG dell’Ufficio del Microcredito, che si sta dando da fare per aiutarle ad ampliare l’attività.

Camilla Corradini (Volontaria CVM in Etiopia)

martedì 28 dicembre 2010

È Natale...


Carissimi,
Vorrei approfittare di un tranquillo momento serale, con le consegne fatte per far a tutti voi un piccolo saluto ed un augurio, come gia' molti di voi hanno fatto.
Ci stiamo lasciando alle spalle un anno non semplice, con molti cambiamenti e difficolta' ma anche pieno di senso e di prospettive nuove. Vorrei ringraziare tutti voi per la collaborazione e la serieta' con cui avete fatto il vostro lavoro in quest'anno. Credo che lo spirito che ci anima e' quello che fa la differenza nel nostro lavoro. A differenza delle imprese, nei momenti di difficolta' non possiamo far affidamento sugli utili accantonati negli anni di abbondanza. Le nostre riserve sono per persone nel momento del bisogno sanno dare quel di piu' che fa la differenza.
Il piacere di lavorare serenamente insieme e' un elemento importante del nostro quotidiano e fa la diffierenza.

Dopo domani e' Natale. Bethlemme e' lontana, lontana geograficamente, nel tempo ed a volte anche nel senso. E' difficile dare un senso al pupazzetto nel presepe o sotto l'albero. Tutto sommato non e' brutto da vedersi e non ci ispira sensazioni particolari.
Mi viene pero' da pensare alle tante Bethlem che ci sono in giro per il mondo e che ci saranno anche dopo domani, mentre noi, giustamente anche, stapperemo lo spumante alla fine di un buon pranzo.
L'immagine piu' recente che ho negli occhi e' quella dei mucchi di cartoni, alcuni con persone dentro, altri mucchietti vuoti in attesa della notte, sotto le pensilline della stazione Ostienze a Roma, domenica 19 dicembre, con le persone che passavano ai lati per andare a prendere il treno.
Penso anche alle tante "capanne" dell'Etiopia, che conosco meglio, dove a volte siamo stati invitati a prendere il caffe' per ringraziarci di un lavoro che abbiamo fatto. Con le mucche che sbuffano dietro la schiena. In quelle stesse capanne dove noi passiamo solamente per una "pausa caffe", si vive, si nasce e si muore, si cresce e si invecchia. Con le galline che razzolano per terra, le mucche che ruminano da un lato e qualche topo che a volte passeggia sui travi in alto. In queste capanne si partorisce distese su una pelle di mucca, messa sopra un piano di terra rialzato che funge da letto. Qui non non si raccolgono le cellule del cordone ombelicale e non c'e' il problema di quanti embrioni si possono o non si possono congelare. Abramo e Sara probabilmente vivevano in un posto simile a questo. Fuori della capanna ci sono sempre gli alberi, se non le quercie, dove sedersi all'ombra per parlare con gli ospiti, mentre le donne dentro preparano da mangiare. Certo in queste capanne non si ammazza il vitello grasso per festeggiare ed intrattenere gli ospiti perche ci sono solo poche vacche rinsecchite.
Quando penso a Bethlem penso a questo piu' che al presepe con le luci che pure fa tanto aria di Natale.

Credo che si addice proprio ai nostri tempi, ed a questi giorni, la frase del profeta "vanita' delle vanita', tutto e' vanita'".
Se pero' questi piccoli segni e questi momenti ci aiutano ad andare con la mente, ed a sentirci un po' piu' vicini alle tante Bethlem del Mondo e della Storia, allora, solo allora, non sara' pura vanita'.

L'anno che ci si apre davanti contiene tante speranze insieme alle tante difficolta'.
Si apriranno percorsi nuovi, strade ed opportunita' nuove, da percorrere ed esplorare, con fiducia. Qualche compagno di viaggio cambia strada e forse qualche nuovo compagno di strada si unira' a noi per fare un pezzo insieme. Di tutto questo siamo grati a Dio perche' "tutto e' cosa buona" e "niente di quello che e' stato seminato andra' perduto".

Approfittiamo in questi momenti per sentirci anche un po' piu' vicini a quelli accanto a noi che soffrono. Penso al Papa' di Chiara che passera' il Natale in ospedale, ed al papa' di Daniela che oramai da tempo il Natale lo celebra convivendo con la sua infermita'. Come non c'è una ragione per la sofferenza dei bambini africani, cosi' anche ci sfugge il senso della sofferenza intorno e vicino a noi. Cionostante cosi' come un gesto d'affetto puo' fare la differenza per una persona cara che soffre, analogamente un piccolo passo verso la giustizia fa la differenza per un mondo un po' migliore.

Auguri di Buon Natale e per un proficuo 2011 ma anche di pace e serenita'

Pace e Bene


Attilio Ascani, Direttore CVM

martedì 21 dicembre 2010

Tihitna, dal lavoro di muratore al sogno di studiare (D.Marcos - Etiopia)


Potersi iscrivere a scuola è sempre stata una sfida per Tihitna Goshia, i soldi in casa non bastavano mai e il desiderio di istruirsi si scontrava con la decisa opposizione del padre che riteneva fosse più importante avere un lavoro già da giovanissime piuttosto che studiare.

Per i primi sei anni o gradi (la scuola in Etiopia è divisa in gradi) era riuscita ad avere un seppur minimo appoggio della famiglia che le aveva permesso di seguire le lezioni, ma quando al settimo aveva manifestato l’intenzione di proseguire nella sua formazione erano scoppiati i problemi: i suoi genitori non avevano i soldi necessari e avevano insistito affinché si trovasse un’occupazione. Un’idea che proprio non piaceva a Tihitna, che con un’aria rassegnata ma tutto d’un fiato racconta di essersi rivolta in lacrime al fratello, Bizualem. Fu lui, che dall’originaria woreda di Gozamen a quel tempo si era già trasferito nella città di Debre Elias, ad aiutarla accogliendola in casa. Purtroppo però la situazione economica del fratello non era migliore di quella dei genitori e anche lui non poteva permettersi il costo della sua istruzione, le consigliò quindi di lavorare come domestica, donna di servizio a tempo pieno per una famiglia. Tihitna non era certo entusiasta di questa soluzione, ma era altrettanto consapevole che di alternative non ce n’erano: se non voleva abbandonare la scuola quella era l’unica via. In un primo momento sembrò anche aver trovato un buon accordo con i datori di lavoro: “Acconsentirono a lasciarmi il tempo per seguire le lezioni, loro avrebbero coperto le mie spese scolastiche e io mi sarei occupata della mansioni domestiche senza percepire alcuno stipendio”, spiega con il sorriso, poi fa una pausa e il volto si fa in un attimo serio. “Era molto difficile vivere così – continua con la testa china -: lavorare prima e dopo la scuola, e poi trovare pure il tempo per studiare. Dovevo guardare i bambini dei padroni, di cui uno di appena sei mesi, preparare l’enjera (una sorta di pane spugnoso che accompagna ogni portata in Etiopia) e la tella (la birra locale), e occuparmi della casa. Dovevo anche andare a prendere l’acqua, la fonte era molto lontano dall’abitazione e questa era la cosa che odiavo di più, dover camminare parecchio con pesanti anfore per l’acqua”. Tihitna però strinse i denti e cercò di resistere, almeno fino a quanto le fu concesso di andare a scuola: ad un certo punto, però, i datori di lavoro decisero di non coprire più le sue spese e alla richiesta di un nuovo quaderno per gli esercizi si opposero fermamente, sostenendo che lei fosse lì per accudire i bambini e non per studiare. Nel ricordare quei giorni il volto si fa teso, la delusione per quegli atteggiamenti brucia ancora dentro di lei e il racconto diventa concitato. Lei però non aveva mezzi per difendersi, l’unica cosa che poteva fare era abbandonare la casa e chiedere di nuovo aiuto al fratello. Così fece e per un po’ restò da lui. La scuola fortunatamente era quasi al termine e per il breve periodo che si fermò a casa sua, Bizualem riuscì ad aiutarla. Finite le lezioni, la ragazzina tornò a casa, dove nel frattempo la situazione era precipitata: i genitori avevano infatti divorziato e il capofamiglia era andato a vivere altrove.

A quel punto, però, la madre si sentì libera di assecondare i sogni di formazione della figlia: prima di tutto prese in prestito dei soldi dai vicini, poi vendette un bue per restituire il denaro e averne a sufficienza per la giovane. Nel frattempo Tihitna non restava a guardare, non è tipo da star con le mani in mano: così si diede da fare per guadagnare qualcosina, lavorando giornalmente come muratore nella costruzione di edifici. Sono molte le donne e le ragazze in Etiopia impiegate nei cantieri edili, pubblici e privati. Per le studentesse spesso è l’unico modo per avere il denaro sufficiente per pagarsi la scuola. “Guadagnavo 15 ETB al giorno, stavamo costruendo un palazzo. Era molto faticoso – dice volgendo lo sguardo verso l’alto -. Quando si fanno questi lavori si hanno costantemente le mani ferite e poi io avevo sempre paura di cadere. Di buono, in questo tipo di occupazione, c’è che di notte non si lavora, mentre quando ero una domestica alcune mansioni mi tenevano impegnata anche fino a tarda ora”. Ripensando a quei giorni ricorda inoltre che gli incidenti erano frequentissimi, e non c’è da stupirsi viste la totale mancanza del rispetto di misure di sicurezza. In quei cantieri si lavora senza tute, le ragazze con la gonna, senza guanti, elmetti o altri sistemi di protezione. Anche lei una volta ha avuto un incidente: “Mi feci male ad un polso – racconta toccandosi il braccio e la mano destra -, ma non potevo fermarmi perché rischiavo di perdere il lavoro. Avevo un gran dolore ma dovevo resistere”, precisa aggiungendo con lo sguardo basso che non aveva nessun contratto a tutelarla.

Fu grazie a quei lavori estivi nella realizzazione di palazzi e strade e all’aiuto della madre e del fratello che Tihitna poté continuare la sua formazione. Fu anche in grado di prendere in affitto una piccola stanza in città per alcuni periodi. Durante i mesi delle lezioni si dedicava solo allo studio, mentre d’estate cercava puntualmente un posto nei cantieri. Ad un certo punto anche il padre si decise a concedergli un piccolo aiuto, anche se non era disposto a coprire tutte le spese. Quegli anni, comunque, non furono facili per lei: lavorando solo d’estate i soldi a disposizione durante l’anno erano comunque sempre pochissimi e i sacrifici da fare molti. Spesso il cibo non bastava per il pranzo e riusciva a mangiare qualcosa solo a colazione e cena. Si trattava comunque di un’alimentazione estremamente povera: quasi mai la carne e spesso neanche l’enjera, nonostante sia uno degli alimenti principali della dieta etiope. Purtroppo, in questa già precaria e delicata situazione, sopraggiunse un altro drammatico evento, fonte di dolore e disorientamento per la ragazza: mentre frequentava il nono anno di scuola la madre si ammalò gravemente, fu ricoverata in ospedale ma inutilmente e in poco tempo morì. Una disgrazia per Tihitna e i suoi fratelli, un colpo duro da superare. La ragazza per un mese smise di seguire le lezioni e se ne tornò nel suo kebele d’origine, con il rischio di perdere un anno. Dopo quella grande perdita lei, il fratello e la sorella cominciarono a vivere tutti insieme, in condizioni sempre più precarie. Dopo il matrimonio del ragazzo, però, la situazione si complicò ulteriormente perché la moglie non vedeva di buon occhio la presenza in casa delle sorelle del consorte. La tensione era sempre alta, fino a diventare insopportabile tante da spingere la più piccola a cercare altrove lavoro come housemaid. “Io ne avevo passate già tante ed ero pronta a sopportare i comportamenti rudi della moglie di mio fratello, ma lei era giovanissima e non ce la faceva. Così se ne andò, trovò lavoro come domestica in una casa, ma non so dove. Da allora non ho più avuto contatti con lei”, spiega sommariamente senza soffermarsi sui dettagli e sui suoi sentimenti.

Un anno fa è arrivato il momento di scegliere la scuola, dopo la formazione di base: a quel punto Tihitna si è buttata su un istituto tecnico e sull’indirizzo ‘Machining’ (Meccanica). Avrebbe voluto seguire un corso per infermiera ma quel genere di scuole costano troppo e lei non ha i soldi sufficienti: “Gli indirizzi tecnici sono più economici e questo che faccio io dura solo due anni, perciò l’ho scelto – puntualizza sorridendo dolcemente -. Non avrei potuto permettermi una scuola più costosa o la cui durata fosse di tre anni”. Pur di studiare si è accontenta dell’unico corso che le era accessibile anche se, rivela nascondendo vergognosamente il volto dietro le mani, non sa esattamente quale professione potrebbe fare da grande dopo tali studi. Nonostante tutto questo non la scoraggia poi molto e lei una sorta di progetto per il suo futuro in mente già ce l’ha, e anche abbastanza chiaro: “Vorrei lavorare per un ufficio governativo o una ditta privata, non importa molto il settore, e con i soldi che guadagnerei mi pagherei un corso serale che mi piace di più”. Non è una sprovveduta e sa bene che tutto ciò non è semplice da realizzare, ma la voglia è grande e il difficile passato non ha scalfito il suo ottimismo. È veramente convinta di voler metter in pratica questa idea, lavorare e studiare ciò che le piace, quando ne parla trasmette una gran forza d’animo che spinge a pensare che ce la possa veramente fare.

Camilla Corradini (Volontaria CVM in Etiopia)

venerdì 10 dicembre 2010

La donna del "Millennium" (Microcredito - RF)


Sorride dolcemente Almaz Wurku, mentre stringe forte tra le mani il libretto del conto bancario di Millennium, l’associazione di persone afflitte dall’HIV di cui fa parte: lei, infatti, è una delle beneficiarie del revolving fund (fondo rotativo) che l’ufficio di Injibara del CVM ha avviato in quella città per aiutare alcuni malati di AIDS che versavano in condizioni critiche. Quel libretto dimostra che ha ben investito i soldi ricevuti e che si sta impegnando per restituire l’intera cifra, 1.200 ETB (circa 57 euro), entro dieci mesi. Quel prestito per lei è stato fondamentale per rialzarsi dopo una serie di disavventure, per occuparsi delle sue due figlie e reagire a tutti i brutti scherzi che la vita le ha fatto. Ne ha dovute affrontare tante e i suoi occhi cupi lo lasciano intuire chiaramente; mentre ne parla, però, appare tranquilla. Riesce a sorridere e rivangare momenti terribili con una serenità e una disponibilità che colpiscono, forse ha imparato a convivere con quel pesante passato; forse ha deciso che è il momento di smettere di soffrire e cogliere le buone opportunità che le vengono offerte per cambiare finalmente il corso della sua vita.

Almaz ha circa trentaquattro anni, ma ne dimostra molti di più; è originaria di Bahir Dar, capoluogo della regione Amhara, a circa duecento chilometri da Injibara. Rimase orfana quando aveva dieci anni e fino a diciotto visse con uno zio benestante che si prese cura di lei permettendole di studiare: “I miei genitori erano anziani e malati, non conosco la causa della loro morte. A quel tempo non c’erano molte informazione sulle malattie e dell’HIV non si sapeva praticamente nulla. Dopo la loro scomparsa, mi trasferii da mio zio e lì cominciai ad andare a scuola, sono arrivata al nono grado (il che significa che ha completato l’istruzione primaria e iniziato il secondo livello di scuola, praticamente ha smesso di studiare nel momento in cui si è sposata). Lui era buono con me e non c’erano problemi”. Quando aveva diciotto anni, un uomo molto più grande di lei, sui trentasei anni, la chiese in sposa e sia lei che lo zio acconsentirono; il matrimonio secondo il rito tradizionale, che prevede la scrittura di un accordo alla presenza degli scimaghilli (anziani molto rispettati all’interno della comunità), fu celebrato a Bahir Dar ma la coppia si trasferì a vivere ad Injibara, luogo di provenienza dell’uomo. “Ero contenta di sposarmi, lui mi piaceva. Ma presto cominciarono i problemi e tutto cambiò”, spiega guardando in alto con un’espressione che è un misto tra un sorriso e una smorfietta di rassegnazione. Il marito era un commerciante e spesso stava giorni interi per lavoro in altre località; fu probabilmente durante uno di quei viaggi che incontrò la donna con la quale instaurò una relazione extraconiugale e mise al mondo un figlio. In un primo momento Almaz non si rese conto di quanto stava accadendo, poi cominciò ad insospettirsi perché le assenze dell’uomo erano sempre più lunghe e lui era ogni volta più restio a darle i soldi per la casa e per le due figlie che nel frattempo erano nate dalla loro unione, Emawayusm Wurkinhe e Wusitina Belay. Quest’ultima ha cambiato cognome perché delusa dal padre che non si è mai occupato di loro.

Quel marito che scompariva sempre più spesso e non l’aiutava quasi mai spinse Almaz ad indagare, chiedendo informazioni a conoscenti e amici venne a sapere che l’uomo aveva un’altra donna e che era con lei che trascorreva gran parte del suo tempo. Una terribile scoperta che la ferì profondamente (...). Così, in un batter di ciglia Almaz si ritrovò sola, senza proprietà e soldi, e con due figlie piccole di cui occuparsi. Lei però non si lasciò sopraffare da quelle complicazioni, affittò una piccola casa a 40 ETB e cercò di guadagnare un po’ facendo la lavandaia e preparando enjera da rivendere ai vicini. In cambio questi ultimi, se poteva, le davano oltre ai soldi che le spettavano come salario anche qualche cosa da mangiare per le figlie. Non furono tempi facili per la donna, nel ricordarli però non emergono lamentale, rabbia o autocommiserazione, ma la consapevole accettazione della sua situazione: “Era molto difficile coprire tutte le spese e purtroppo non riuscivo a mandare le mie figlie a scuola, ma non avevo altre possibilità”. (...)

Quasi due anni fa, pensando di migliorare la sua situazione e consigliata anche dai vicini, Almaz decise di unirsi di nuovo ad un uomo. Ormai erano passati circa sei anni da quando era finito il suo primo matrimonio e trovare marito poteva essere la soluzione ai suoi problemi economici. “Quest’uomo mi chiese in moglie e i miei vicini mi suggerirono che andando a vivere con lui avrei risparmiato i soldi dell’affitto e insieme, lavorando entrambi, avremmo avuto più denaro per le nostre necessità e per quelle delle mie bambine. In verità non lo amavo ma poteva essere effettivamente un modo per migliorare la mia condizione”, ammette senza vergogna. Lui era vedovo e a quanto sapeva lei la prima moglie era morta di parto. Forse, però, questa non era proprio la verità e Almaz si trovò ben presto a fare i conti con un altro problema, più grosso di quelli affrontati fino a quel momento.

Dopo alcuni mesi dall’inizio della relazione con quest’uomo, cominciò infatti ad avvertire dei fastidi, continui mal di testa e forti dolori addominali. Visto che i disturbi non si placavano, Almaz si confrontò con una donna malata di HIV e decise di sottoporsi all’analisi del sangue; purtroppo i suoi sospetti erano fondati: aveva contratto il virus dell’AIDS. Quando lo scoprì il primo pensiero fu per le sue figlie, era disperata all’idea che anche loro potessero essere sieropositive: “Uscii dal centro ambulatoriale dove mi avevano dato i risultati del test e feci tutta la strada fino a casa con il terrore che le avessi contagiate, perché non separavamo gli strumenti taglianti come aghi e forbici. Era per loro che ero preoccupatissima in quel momento, non tanto per me. Decisi che avrebbero dovuto fare subito il test, già il giorno dopo. Quella notte rimasi sveglia, la paura per le mie figlie non mi lasciò dormire. Quando diedi loro la notizia scoppiarono a piangere ma cercai di rassicurarle. Dopo che fecero l’analisi del sangue ci tranquillizzammo un po’ perché risultarono negative e io spiegai loro che di me non si dovevano preoccupare, però avremmo dovuto usare subito delle precauzioni come tenere separati gli strumenti taglianti che adoperavo io da quelli loro”. Almaz non era una tabula rasa in merito all’HIV come molte sue coetanee, aveva infatti una discreta conoscenza del virus grazie ad un corso sulle cure domiciliari di base seguito quando era a Bahir Dar: “Avevo partecipato ad un training. In verità non mi volevo occupare delle persone malate, anzi la cosa mi spaventava un po’, ma nel kebele cercavano volontarie per quel corso e io accettai perché pagavano”, ammette vergognosa dopo una serie di tentennamenti e tentavi di addurre motivazioni diverse. Quanto appreso durante quegli incontri l’aiutò un po’ ad affrontare quella scoperta tanto dura da mandar giù, ma non alleviò molto il dispiacere che quella terribile verità le stava causando. La questione che la tormentava, poi, era legata a come aveva contratto il virus e fin dall’inizio non ebbe grossi dubbi: “È stato il mio secondo marito a trasmettermelo, ne sono sicura. Io prima era negativa, avevo fatto già il test”, precisa con la solita aria pacata e disponibile. Almaz si era infatti sottoposta altre tre volte all’analisi del sangue: quando aveva partecipato al corso sull’HIV, durante un incontro di donne e dopo il divorzio dal primo marito quando aveva scoperto che lui la tradiva. Era sempre risultata negativa. A quel punto il pensiero corse di nuovo alla storia della prima moglie del suo compagno: “Quando qualche conoscente mi aveva detto che sospettava che fosse morta di HIV e non di parto, mi ero preoccupata ma poi avevo chiesto chiarimenti a mia suocera e lei aveva confermato la versione di mio marito e non avevo fatto il test. Quando scoprì il mio stato ero arrabbiatissima, scioccata e mi tornò in mente quella storia. Cominciai a domandarmi perché avevo incontrato quell’uomo. Ero disperata, perché sapevo che prima di stare con lui non ero malata”. Ad avvalorare la sua ipotesi fu anche l’atteggiamento dell’uomo che si rifiutò ostinatamente di sottoporsi al test: lei glielo chiese subito ma lui non accettò mai, sostenendo che era stato il primo marito di Almaz a contagiarla e che il suo sangue, invece, era di un gruppo che difficilmente viene attaccato dal virus. La notizia della malattia e la reazione scontrosa del marito spinsero Almaz ad andarsene di casa, a lasciarlo e ricominciare per l’ennesima volta una vita da sola con le sue bambine. I ricordi di quei giorni sono un po’ sfumati come pure i pensieri che le passarono per la mente in quel periodo di smarrimento e confusione: “Se lui era veramente negativo era giusto che si trovasse una donna non malata, quindi era meglio che ci lasciassimo”, dice in un primo momento aggiungendo poi: “Nel suo volto c’erano i segni dell’HIV e io son convinta che prima di lui non ero sieropositiva. È stato lui a contagiarmi", precisa guardando verso l’alto e alzando il tono della voce.

Così, circa un anno fa, Almaz è tornata di nuovo a vivere da sola con le sue figlie mantenendosi commerciando con il mais, prendendone a credito grosse quantità e rivendendolo al mercato. Purtroppo però la loro situazione economica era più che critica, quell’attività non riusciva a decollare e ad assicurarle un’entrata fissa e decente: erano costrette a vivere nella miseria, spesso senza avere le risorse necessarie neanche per due pasti al giorno, ridotte a volte a cibarsi solo di kolo (misto di noccioline e cereali tostati). “A volte mia figlia mi aiutava a lavare i vestiti quando non andava a lezione così potevamo guadagnare più soldi, ma non erano mai sufficienti. Anche per il materiale scolastico spesso non c’era denaro ed ero costretta a chiedere continui prestiti e favori ai vicini”.

Cinque mesi fa le cose, però, hanno cominciato a girare dal verso giusto e per lei e le sue figlie si è aperto uno spiraglio di luce: grazie ad una conoscenza fatta ai tempi del corso sull’HIV è venuta a sapere dell’esistenza dell’associazione Millenium e ha cominciato a frequentarla. È stata poi selezionata per partecipare ad un corso sulla gestione dei soldi e l’avvio di attività commerciali e le è stato concesso il prestito di 1.200 ETB, da restituire entro undici mesi. Quando avrà versato tutta la somma, quel denaro verrà consegnato ad un’altra donna nelle sue stesse condizioni. Con quel prestito ha potuto incrementare la sua attività: “Prima ero costretta a prendere a credito il mais presso i commercianti di Injibara a prezzi alti, rivendendolo ci guadavano ben poco, due o tre ETB a quintale. Ora posso acquistarlo da rifornitori in altre zone perché posso pagare nel momento in cui compro, così lo prendo in posti dove lo pago di meno e rivendendolo il guadagno è più altro: 20 ETB a quintale. In questo modo la mia attività mi assicura un’entrata ben più alta”, spiega in modo dettagliato, precisando che ciò le permette di soddisfare le esigenze della sua famiglia, senza chiedere in continuazione aiuto ai vicini. Ora hanno cibo a sufficienza ed è in grado di coprire i costi per l’istruzione di Emawayusm e Wusitina, sottolinea con il sorriso. Far parte di quell’associazione non ha voluto dire per lei solo ricevere una somma di denaro, ma avere anche un punto di riferimento a cui rivolgersi, qualcuno con cui condividere le difficoltà, soprattutto quelle legate al virus di cui è affetta.

“Far parte di Millennium – spiega mentre continua a stropicciare il libretto bancario – mi ha permesso di entrare in contatto con tante persone come me, malate di HIV. Prima ne conoscevo poche. All’inizio mi sentivo sola, come se fossi l’unica con l’AIDS, ora so che non è così”. Il futuro non la preoccupa molto, grazie al corso fatto sa come deve comportarsi e a dire il vero non è stata oggetto neanche di forti discriminazioni, questo le dà un po’ di sicurezza. L’aver inoltre accertato che le sue figlie sono sane è la cosa che più conta per lei. “Ora prendo le medicine anti-retrovirali e sto meglio. La mia maggior preoccupazione era per loro, ora che sono sicura che stanno bene non ho paura per l’avvenire”, ribatte seria. Tanta forza e fiducia arriva anche dal fatto che la sua attività stia andando bene, è convinta che potrà restituire tutto il debito nei tempi previsti: “Ho già ricominciato a pagare. Se riconsegnerò l’intera somma, forse in futuro il CVM sarà disposto ad aiutarmi di nuovo e potrò beneficiare di un altro prestito. L’idea sarebbe quella di aprire un piccolo ristorante”. Il suo sogno in realtà sarebbe quello di tornare a vivere a Bahir Dar, ma sa che per lei là sarebbe impossibile dato che ogni cosa è più costosa, quindi ha deciso di restare ad Injibara e cercare di rimettere in piedi la sua vita, dopo tutte le brutte vicissitudini che l’hanno colpita.

Camilla Corradini (Volontaria CVM - Etiopia)