Sorride dolcemente Almaz Wurku, mentre stringe forte tra le mani il libretto del conto bancario di Millennium, l’associazione di persone afflitte dall’HIV di cui fa parte: lei, infatti, è una delle beneficiarie del revolving fund (fondo rotativo) che l’ufficio di Injibara del CVM ha avviato in quella città per aiutare alcuni malati di AIDS che versavano in condizioni critiche. Quel libretto dimostra che ha ben investito i soldi ricevuti e che si sta impegnando per restituire l’intera cifra, 1.200 ETB (circa 57 euro), entro dieci mesi. Quel prestito per lei è stato fondamentale per rialzarsi dopo una serie di disavventure, per occuparsi delle sue due figlie e reagire a tutti i brutti scherzi che la vita le ha fatto. Ne ha dovute affrontare tante e i suoi occhi cupi lo lasciano intuire chiaramente; mentre ne parla, però, appare tranquilla. Riesce a sorridere e rivangare momenti terribili con una serenità e una disponibilità che colpiscono, forse ha imparato a convivere con quel pesante passato; forse ha deciso che è il momento di smettere di soffrire e cogliere le buone opportunità che le vengono offerte per cambiare finalmente il corso della sua vita.
Almaz ha circa trentaquattro anni, ma ne dimostra molti di più; è originaria di Bahir Dar, capoluogo della regione Amhara, a circa duecento chilometri da Injibara. Rimase orfana quando aveva dieci anni e fino a diciotto visse con uno zio benestante che si prese cura di lei permettendole di studiare: “I miei genitori erano anziani e malati, non conosco la causa della loro morte. A quel tempo non c’erano molte informazione sulle malattie e dell’HIV non si sapeva praticamente nulla. Dopo la loro scomparsa, mi trasferii da mio zio e lì cominciai ad andare a scuola, sono arrivata al nono grado (il che significa che ha completato l’istruzione primaria e iniziato il secondo livello di scuola, praticamente ha smesso di studiare nel momento in cui si è sposata). Lui era buono con me e non c’erano problemi”. Quando aveva diciotto anni, un uomo molto più grande di lei, sui trentasei anni, la chiese in sposa e sia lei che lo zio acconsentirono; il matrimonio secondo il rito tradizionale, che prevede la scrittura di un accordo alla presenza degli scimaghilli (anziani molto rispettati all’interno della comunità), fu celebrato a Bahir Dar ma la coppia si trasferì a vivere ad Injibara, luogo di provenienza dell’uomo. “Ero contenta di sposarmi, lui mi piaceva. Ma presto cominciarono i problemi e tutto cambiò”, spiega guardando in alto con un’espressione che è un misto tra un sorriso e una smorfietta di rassegnazione. Il marito era un commerciante e spesso stava giorni interi per lavoro in altre località; fu probabilmente durante uno di quei viaggi che incontrò la donna con la quale instaurò una relazione extraconiugale e mise al mondo un figlio. In un primo momento Almaz non si rese conto di quanto stava accadendo, poi cominciò ad insospettirsi perché le assenze dell’uomo erano sempre più lunghe e lui era ogni volta più restio a darle i soldi per la casa e per le due figlie che nel frattempo erano nate dalla loro unione, Emawayusm Wurkinhe e Wusitina Belay. Quest’ultima ha cambiato cognome perché delusa dal padre che non si è mai occupato di loro.
Quel marito che scompariva sempre più spesso e non l’aiutava quasi mai spinse Almaz ad indagare, chiedendo informazioni a conoscenti e amici venne a sapere che l’uomo aveva un’altra donna e che era con lei che trascorreva gran parte del suo tempo. Una terribile scoperta che la ferì profondamente (...). Così, in un batter di ciglia Almaz si ritrovò sola, senza proprietà e soldi, e con due figlie piccole di cui occuparsi. Lei però non si lasciò sopraffare da quelle complicazioni, affittò una piccola casa a 40 ETB e cercò di guadagnare un po’ facendo la lavandaia e preparando enjera da rivendere ai vicini. In cambio questi ultimi, se poteva, le davano oltre ai soldi che le spettavano come salario anche qualche cosa da mangiare per le figlie. Non furono tempi facili per la donna, nel ricordarli però non emergono lamentale, rabbia o autocommiserazione, ma la consapevole accettazione della sua situazione: “Era molto difficile coprire tutte le spese e purtroppo non riuscivo a mandare le mie figlie a scuola, ma non avevo altre possibilità”. (...)
Quasi due anni fa, pensando di migliorare la sua situazione e consigliata anche dai vicini, Almaz decise di unirsi di nuovo ad un uomo. Ormai erano passati circa sei anni da quando era finito il suo primo matrimonio e trovare marito poteva essere la soluzione ai suoi problemi economici. “Quest’uomo mi chiese in moglie e i miei vicini mi suggerirono che andando a vivere con lui avrei risparmiato i soldi dell’affitto e insieme, lavorando entrambi, avremmo avuto più denaro per le nostre necessità e per quelle delle mie bambine. In verità non lo amavo ma poteva essere effettivamente un modo per migliorare la mia condizione”, ammette senza vergogna. Lui era vedovo e a quanto sapeva lei la prima moglie era morta di parto. Forse, però, questa non era proprio la verità e Almaz si trovò ben presto a fare i conti con un altro problema, più grosso di quelli affrontati fino a quel momento.
Dopo alcuni mesi dall’inizio della relazione con quest’uomo, cominciò infatti ad avvertire dei fastidi, continui mal di testa e forti dolori addominali. Visto che i disturbi non si placavano, Almaz si confrontò con una donna malata di HIV e decise di sottoporsi all’analisi del sangue; purtroppo i suoi sospetti erano fondati: aveva contratto il virus dell’AIDS. Quando lo scoprì il primo pensiero fu per le sue figlie, era disperata all’idea che anche loro potessero essere sieropositive: “Uscii dal centro ambulatoriale dove mi avevano dato i risultati del test e feci tutta la strada fino a casa con il terrore che le avessi contagiate, perché non separavamo gli strumenti taglianti come aghi e forbici. Era per loro che ero preoccupatissima in quel momento, non tanto per me. Decisi che avrebbero dovuto fare subito il test, già il giorno dopo. Quella notte rimasi sveglia, la paura per le mie figlie non mi lasciò dormire. Quando diedi loro la notizia scoppiarono a piangere ma cercai di rassicurarle. Dopo che fecero l’analisi del sangue ci tranquillizzammo un po’ perché risultarono negative e io spiegai loro che di me non si dovevano preoccupare, però avremmo dovuto usare subito delle precauzioni come tenere separati gli strumenti taglianti che adoperavo io da quelli loro”. Almaz non era una tabula rasa in merito all’HIV come molte sue coetanee, aveva infatti una discreta conoscenza del virus grazie ad un corso sulle cure domiciliari di base seguito quando era a Bahir Dar: “Avevo partecipato ad un training. In verità non mi volevo occupare delle persone malate, anzi la cosa mi spaventava un po’, ma nel kebele cercavano volontarie per quel corso e io accettai perché pagavano”, ammette vergognosa dopo una serie di tentennamenti e tentavi di addurre motivazioni diverse. Quanto appreso durante quegli incontri l’aiutò un po’ ad affrontare quella scoperta tanto dura da mandar giù, ma non alleviò molto il dispiacere che quella terribile verità le stava causando. La questione che la tormentava, poi, era legata a come aveva contratto il virus e fin dall’inizio non ebbe grossi dubbi: “È stato il mio secondo marito a trasmettermelo, ne sono sicura. Io prima era negativa, avevo fatto già il test”, precisa con la solita aria pacata e disponibile. Almaz si era infatti sottoposta altre tre volte all’analisi del sangue: quando aveva partecipato al corso sull’HIV, durante un incontro di donne e dopo il divorzio dal primo marito quando aveva scoperto che lui la tradiva. Era sempre risultata negativa. A quel punto il pensiero corse di nuovo alla storia della prima moglie del suo compagno: “Quando qualche conoscente mi aveva detto che sospettava che fosse morta di HIV e non di parto, mi ero preoccupata ma poi avevo chiesto chiarimenti a mia suocera e lei aveva confermato la versione di mio marito e non avevo fatto il test. Quando scoprì il mio stato ero arrabbiatissima, scioccata e mi tornò in mente quella storia. Cominciai a domandarmi perché avevo incontrato quell’uomo. Ero disperata, perché sapevo che prima di stare con lui non ero malata”. Ad avvalorare la sua ipotesi fu anche l’atteggiamento dell’uomo che si rifiutò ostinatamente di sottoporsi al test: lei glielo chiese subito ma lui non accettò mai, sostenendo che era stato il primo marito di Almaz a contagiarla e che il suo sangue, invece, era di un gruppo che difficilmente viene attaccato dal virus. La notizia della malattia e la reazione scontrosa del marito spinsero Almaz ad andarsene di casa, a lasciarlo e ricominciare per l’ennesima volta una vita da sola con le sue bambine. I ricordi di quei giorni sono un po’ sfumati come pure i pensieri che le passarono per la mente in quel periodo di smarrimento e confusione: “Se lui era veramente negativo era giusto che si trovasse una donna non malata, quindi era meglio che ci lasciassimo”, dice in un primo momento aggiungendo poi: “Nel suo volto c’erano i segni dell’HIV e io son convinta che prima di lui non ero sieropositiva. È stato lui a contagiarmi", precisa guardando verso l’alto e alzando il tono della voce.
Così, circa un anno fa, Almaz è tornata di nuovo a vivere da sola con le sue figlie mantenendosi commerciando con il mais, prendendone a credito grosse quantità e rivendendolo al mercato. Purtroppo però la loro situazione economica era più che critica, quell’attività non riusciva a decollare e ad assicurarle un’entrata fissa e decente: erano costrette a vivere nella miseria, spesso senza avere le risorse necessarie neanche per due pasti al giorno, ridotte a volte a cibarsi solo di kolo (misto di noccioline e cereali tostati). “A volte mia figlia mi aiutava a lavare i vestiti quando non andava a lezione così potevamo guadagnare più soldi, ma non erano mai sufficienti. Anche per il materiale scolastico spesso non c’era denaro ed ero costretta a chiedere continui prestiti e favori ai vicini”.
Cinque mesi fa le cose, però, hanno cominciato a girare dal verso giusto e per lei e le sue figlie si è aperto uno spiraglio di luce: grazie ad una conoscenza fatta ai tempi del corso sull’HIV è venuta a sapere dell’esistenza dell’associazione Millenium e ha cominciato a frequentarla. È stata poi selezionata per partecipare ad un corso sulla gestione dei soldi e l’avvio di attività commerciali e le è stato concesso il prestito di 1.200 ETB, da restituire entro undici mesi. Quando avrà versato tutta la somma, quel denaro verrà consegnato ad un’altra donna nelle sue stesse condizioni. Con quel prestito ha potuto incrementare la sua attività: “Prima ero costretta a prendere a credito il mais presso i commercianti di Injibara a prezzi alti, rivendendolo ci guadavano ben poco, due o tre ETB a quintale. Ora posso acquistarlo da rifornitori in altre zone perché posso pagare nel momento in cui compro, così lo prendo in posti dove lo pago di meno e rivendendolo il guadagno è più altro: 20 ETB a quintale. In questo modo la mia attività mi assicura un’entrata ben più alta”, spiega in modo dettagliato, precisando che ciò le permette di soddisfare le esigenze della sua famiglia, senza chiedere in continuazione aiuto ai vicini. Ora hanno cibo a sufficienza ed è in grado di coprire i costi per l’istruzione di Emawayusm e Wusitina, sottolinea con il sorriso. Far parte di quell’associazione non ha voluto dire per lei solo ricevere una somma di denaro, ma avere anche un punto di riferimento a cui rivolgersi, qualcuno con cui condividere le difficoltà, soprattutto quelle legate al virus di cui è affetta.
“Far parte di Millennium – spiega mentre continua a stropicciare il libretto bancario – mi ha permesso di entrare in contatto con tante persone come me, malate di HIV. Prima ne conoscevo poche. All’inizio mi sentivo sola, come se fossi l’unica con l’AIDS, ora so che non è così”. Il futuro non la preoccupa molto, grazie al corso fatto sa come deve comportarsi e a dire il vero non è stata oggetto neanche di forti discriminazioni, questo le dà un po’ di sicurezza. L’aver inoltre accertato che le sue figlie sono sane è la cosa che più conta per lei. “Ora prendo le medicine anti-retrovirali e sto meglio. La mia maggior preoccupazione era per loro, ora che sono sicura che stanno bene non ho paura per l’avvenire”, ribatte seria. Tanta forza e fiducia arriva anche dal fatto che la sua attività stia andando bene, è convinta che potrà restituire tutto il debito nei tempi previsti: “Ho già ricominciato a pagare. Se riconsegnerò l’intera somma, forse in futuro il CVM sarà disposto ad aiutarmi di nuovo e potrò beneficiare di un altro prestito. L’idea sarebbe quella di aprire un piccolo ristorante”. Il suo sogno in realtà sarebbe quello di tornare a vivere a Bahir Dar, ma sa che per lei là sarebbe impossibile dato che ogni cosa è più costosa, quindi ha deciso di restare ad Injibara e cercare di rimettere in piedi la sua vita, dopo tutte le brutte vicissitudini che l’hanno colpita.
Camilla Corradini (Volontaria CVM - Etiopia)