venerdì 20 luglio 2012

Testimonianze - Antonella dall'ospedale di Chalinze, Tanzania

Comincia ad essermi familiare la strada che da Bagamoyo conduce verso l’interno, quell’irrompere della terra rosso ruggine e dell’asfalto dissestato che ad ogni sobbalzo mi ricorda che è mattina e non è tempo di sonnecchiare, quelle capanne nascoste tra la vegetazione, quei piccoli villaggi che si aprono sulla strada e si riempiono di bambini che, seduti a terra e a piedi scalzi, da una tazza bevono latte dipingendosi la bocca di bianco, quelle bancarelle piene di banane e arance, quelle figure di donne che mantengono in equilibrio secchi d’acqua muovendosi sinuosamente.

Dopo circa tre ore passate ad osservare da dietro un finestrino uno scorcio di terra tanzaniana in movimento, dopo una breve sosta a Lugoba, dove una parte del team CVM rimarrà per quattro giorni di workshop sui diritti delle donne, arriviamo nel villaggio di destinazione: Chalinze.

Chalinze è una piccola città, 100 Km ad ovest di Dar es Salam, una zona di passaggio, il centro di rifornimento principale per i viaggiatori provenienti dal sud e nord della Tanzania, data la presenza di sei stazioni di servizio. Sul ciglio della strada una moltitudine di camion e daladala (tipico autobus), intorno tanti piccolissimi bar dove fermarsi ad assaggiare la cucina tanzaniana. Bancarelle stracolme di frutti, piccoli shop dove con un po’ di pazienza riesci a trovare quel che ti serve. Di notte diventa un luogo vivace con bracieri sparsi dappertutto utilizzati per cuocere pietanze dagli odori invitanti e a volte, mischiati al fumo, nauseabondi, banchetti illuminati dalla luce di una fiamma che lascia intuire la tipologia della merce presente. E poi un’immensa moltitudine di gente che si riversa sulla strada alla ricerca del posto in cui consumare la cena ,di uomini soli che vagano alla ricerca di incontri fugaci con giovani donne che vendono il proprio corpo in cambio di pochi scellini: questo è uno dei motivi che contribuisce a fare di Chalinze uno dei centri a più elevata prevalenza di infezioni Hiv/Aids nella regione del Pwani.

Ed è qui che è presente il CTC (CARE AND TREATMENT CENTRE) strutturalmente un’ospedale a padiglioni in mezzo alla natura. Dopo avere effettuato il colloquio con il medico responsabile per decidere di cosa, come e quando occuparmi, vengo accompagnata nel padiglione maternità. Senza nessun preavviso, varcata la soglia d’ingresso e dopo aver percorso un breve corridoio, mi ritrovo catapultata direttamente nella sala parto, dove gli occhi registrano la presenza di tre donne distese, nude, senza alcuna privacy, sui rispettivi letti, tra l’odore pungente di sangue e il vento caldo che entra dalle finestre aperte sul cortile: al sentimento di intrusione forzata in un ambiente così delicato si sostituisce a breve quello di accoglienza da parte del team tanzaniano. Due di queste donne sono nella fase di travaglio, si girano e rigirano nella speranza di trovare la posizione meno dolorosa durante le contrazioni, si lamentano discretamente, si alzano, camminano intorno al letto e si riallungano di nuovo. A distanza di un’ora dal mio arrivo, Hamida, una ragazza di 20 anni alla sua prima gravidanza dai lineamenti del viso perfetti e un corpo impeccabile, richiama la nostra attenzione dando inizio alla fase del parto. Si intravede la piccola testolina ma le spinte di Hamida da sole non bastano: una delle nurse posiziona uno sgabello all’altezza del torace e con tutto il peso del proprio corpo e la forza delle mani comincia a fare pressione su quel pancione contratto ed immobile.

Sembrano minuti infiniti. Finalmente la testa è fuori, piano piano anche la spalla, il resto del corpicino viene tirato fuori dalla seconda nurse e la comparsa del pianto soffuso e tanto atteso ci fa sorridere di gioia per questo evento così sofferto. E’una bimba! Una futura donna d’Africa!  Una sorpresa, perché qui non esistono ecografie in gravidanza che svelano il sesso del nascituro. La piccola viene posizionata sul grembo materno, il cordone ombelicale clampato, legato e tagliato, avvolta da un tipico kanga colorato me la mettono in braccio per pesarla facendomi sentire meno mzungu: e sì, i bambini in Africa alla nascita sono bianchi, solo con il passare delle ore e dei giorni, in presenza della luce e l’attivazione della melanina, si scuriscono assumendo il colore nero della pelle. Peso:2,9 Kg, indice Apgar 9/10. E il nome?? Come si chiamerà questo batuffolo che ho tra le mie braccia?? non è dato saperlo al momento: sarà il padre, una volta tornata a casa, dove la vedrà per la prima volta, a darle il nome!!! Mentre il resto del team è impegnato nella seconda fase del parto, l’espulsione della placenta, avvolgo la piccola con altri Kanga per evitare l’ipotermia e rimango ad osservala mentre strizza gli occhi, muove le labbra in segno di suzione, si porta il pollice alla bocca come se fosse un ciuccio.

Al termine la riconsegno alla giovane madre che con una naturalezza straordinaria se la avvicina al petto e comincia ad allattarla: che forza Hamida, ha appena partorito e sembra serena e riposata come se nulla fosse successo, un evento così eccezionale ed emozionante per noi e così naturale e tranquillo per loro, a distanza di pochi minuti dal parto è seduta sul letto con in braccio la prima figlia e riesce a mangiare e mandare messaggi con il cellulare. In Italia la sala d’aspetto si sarebbe riempita di parenti ed amici per vedere e fare festa al nascituro, qui non c’è ombra neppure del padre… solo una parente silenziosamente e discretamente entra nella sala per portare cibo e vestiario di ricambio, ma non si ferma neppure a guardare questa nuova creatura d’Africa, presta attenzione alle esigenze della madre. Che mondi diversi!

Intanto nella stanza adiacente alla sala parto, seduta su un lettino, c’è Rukia, 22 anni, in attesa della visita medica. Ci spiega il motivo della sua presenza: dolore addominale, perdite ematiche, ritardo mestruale da circa due mesi. Per me abituata a lavorare in emergenza, fare l’addizione di segni e sintomi non è difficile e il campanello d’allarme che si tratti di un aborto o minaccia d’aborto comincia immediatamente a suonare nella testa diventando certezza dopo la prima sommaria visita ginecologica. Il medico mi spiega che si tratta di un aborto interno ritenuto, ovvero l’embrione è morto, ma non è stato espulso all’esterno, così la soluzione è una sola: revisione uterina, quindi dilatazione e raschiamento. Mi chiedo come riescano questi medici a fare con tale certezza questo tipo di diagnosi solo attraverso occhi senza ad esempio l’utilizzo di un ecografo, e mi chiedo come mai questa donna rimane in silenzio senza porre nessuna domanda, senza chiedere: ma è sicuro? Affidandosi completamente nella mani di quest’uomo con il camice bianco.

E dopo pochi minuti, eccola, Rukia, sdraiata sul lettino ginecologico, sul viso smorfie di dolore, si agita e si dimena fino a che non decide di prendermi le braccia e stringermele fino a farmi male per scaricare il suo, di male. Mi guarda con occhi spalancati quasi a volermi implorare aiuto, a volermi rimproverare per quello che le stà accadendo. Avrei voluto dirle: <> Ma non conosco lo swahili, le sue urla mi lasciano impietrita e allora rimango lì, ferma, immobile, ad osservarla e a lasciare che scarichi il suo dolore sulle mie braccia. E finalmente dopo venti lunghi e interminabili minuti tutto è finito: piano piano molla l’intensità di presa sulle mie braccia e mi lascia andare.

Rukia rimarrà sdraiata sul fianco ancora altri 15 minuti, giusto il tempo per recuperare le forze fisiche. Quindi si alza, si riveste e, a passo lento ma deciso, varca la porta d’uscita di quella che per un’ora è stata la sua gabbia di tortura.

Eccola quella forza d’animo della donna africana! Negli incontri del CVM l’avevo intravista tra le donne del microcredito, tra le ragazze di Mkanga e Saadani durante il workshops sui diritti delle donne e dei bambini. Ma qui ,tra queste mura dell’area ginecologica, ne ho avuto l’assoluta conferma: è la forza d’animo che si lega con la resistenza fisica al dolore che fa, nella donna, il futuro dell’Africa!

Antonella, Bagamoyo,Tanzania.

martedì 10 luglio 2012

Testimonianze - KARIBU BAGAMOYO, anche Antonella ci scrive dalla Tanzania



Ed eccomi finalmente a scrivere, seduta su un letto sormontato da una zanzariera, in questa prima intensa giornata Africana.
Ore 6:20. Il volo proveniente dal Cairo atterra all’aeroporto di Dar es Salam all’orario previsto mentre il sole piano piano scopre i profili della terra tanzaniana. Tempo burocratico per visto e ritiro bagagli e varcata la soglia d’uscita dell’aeroporto Dar ci si presenta in tutta la sua “caoticità”.
Daniela, la Country Rappresentative del CVM, e Perfect, l’autista, ci accolgono con un cartello per identificarsi e subito ci salutano con quel "Karibuni" che diventa una comune negli incontri quotidiani: "Asante Sana" la risposta. Con la jeep ci dirigiamo verso il centro di Dar per trovare tre cose fondamentali per la nostra permanenza: carta sim tanzaniana per telefono, internet key, money change. E' l’occasione per cominciare a guardarmi intorno e per capire dove sono atterrata. E guardandosi intorno si respira l’aria di una città coloniale con case basse e strade polverose dove a quartieri apparentemente ricchi e sviluppati seguono altri, più poveri e popolari, cosiddetti slum (baraccopoli).


Traffico a Dar
Lungo la strada che separa Dar da Bagamoyo, l’unica strada asfaltata costruita recentemente, è un vai e vieni di gente continua: in bici, in sella su una motocicletta (piki-piki) in macchina, su due gambe, all’interno dei daladala (una sorta di taxi collettivo su minivan) o nei tuk-tuk (una specie di taxi privato a tre ruote paragonabile alla nostra “Ape cross”) a piedi scalzi o con le scarpe, in divisa da scuola o con ceste in testa riempite fino all’orlo. Dai vestiti ci si accorge subito che questa città ha una sorta di multietnicità locale: convivono differenti etnie, tra cui i masai, che si distinguono per l’utilizzo di una veste rossa e viola con un bastone d’appoggio in mano e per i larghi buchi ai lobi dell’orecchio. Lo sguardo si perde tra i mille banchetti dislocati qua e là che vendono cibi: banane, mango, papaya oppure cibi cotti al momento dagli odori invitanti e a volte pungenti. 
La strada è a tratti asfaltata, a volte ricoperta di sabbia e terra rossa, altre disconnessa per le buche. 
Dopo circa un’ora è il villaggio di Bagamoyo a scoprirsi ai nostri occhi: anche qui le strade sono piene di sagome dai colori spesso sgargianti che si muovono su un asfalto sabbioso e disconnesso utilizzando vari e a volte originali mezzi di trasporto. L’odore piacevole dei cibi cotti si mescola con il puzzo dei rifiuti lasciati ovunque, parabole giganti sono posizionate su essenziali capanne di terra o di cemento: è il contrasto, il tutto e il contrario di tutto. 

Gruppetti di bambini a piedi scalzi e con occhioni incuriositi che ti guardano, spalancano un sorriso dai mille denti, alzano e agitano le mani in aria, ti salutano divertiti con Hello o Hi perché sei Mzungu, straniero, e ti corrono incontro aspettandosi in cambio caramelle. Che Bagamoyo sia il distretto più povero e meno sviluppato della regione del Pwani lo si intuisce in fretta. Diventa una certezza all'arrivo nella guest house, dove l’acqua è una presenza incostante e fare una doccia, nel senso europeo del termine, diventa un’avventura non facile, dove la corrente elettrica è discontinua e anche ricaricare un cellulare può essere un problema. E il cellulare portato in mano o attaccato al collo è diventato uno strumento anche qui indispensabile, utilizzato non solo come mezzo di comunicazione, ma anche per lo spostamento di denaro e per i pagamenti, indispensabile pur non avendo una presa per ricaricare la batteria in casa e pur dovendo ricorrere, per usufruire del servizio, alle tante piccole botteghe (small shops) del distretto. 
Bagamoyo
La House of volunteers non è situata nelle zone residenziali dei più benestanti, ma in uno dei quartieri poveri di questo distretto, è la linea del CVM (Comunità Volontari per il Mondo): non per i poveri, ma con i poveri, condividendone la stessa modalità di vita. Daniela è il nostro “cicerone” giornaliero, ci accompagna per le strade di Bagamoyo rispondendo alle mille curiosità e facendo da traduttore simultaneo swahili-italiano, una lingua dal suono caldo e dolce come questa terra.

E sulla spiaggia di Bagamoyo, dove rimangono ancora i resti dell’edificio in cui gli schiavi venivano scelti e venduti (il nome Bagamoyo letteralmente in lingua Swahiili significa “deponi il tuo cuore”, probabilmente riferito agli schiavi che portati qui abbandonavano ogni speranza), e dove è presente la comunità dei pescatori, la cui attività rappresenta una delle attività economiche del distretto, che per me il sole tramonta per la prima volta in terra d’Africa, regalando un gioco straordinario di forme e colori.


Antonella, Volontaria CVM da Bagamoyo Tanzania.



Testimonianze - Eugenia da Bagamoyo



Mamboooo!! quante volte ho detto questa parola oggi... Poa!

Sembra di essere a casa, di vivere qui da sempre, di conoscere tutti da una vita. Le donne sono bellissime ed hanno gli occhi pieni di vita, speranza, amore. I bambini sono stupendi, simpatici, sorridenti e la parola che usano più spesso è "pipi", ovvero caramella: le chiedono in continuazione! 

Nonostante tutto, questa gente è riuscita a donarmi un senso di serenità e pace. Camminare a piedi nudi sulla loro Terra, fare "giro giro tondo" con una bimba, vedere Mamma Aisha che sorridendo cambia Abdul che mi ha fatto la pipì addosso, farsi la doccia prendendo l'acqua da un secchio...si, è proprio questo che intendevo, la capacità di rendere un istante magico, un semplice gesto pieno di emozioni: loro ci riescono. Potrebbero essere tristi e non lo sono, potrebbero odiarci, ma ci ringraziano, potrebbero essere cupi, non aver fiducia in nessuno e invece ogni volta che li incontriamo ci stendono la mano ee MAMBO!! HABARI YA? 

Queste le mie prime emozioni nella MamaAfrica, domani comicia il lavoro, vedrò l'altra parte della medaglia, sicuramente non sarà tutto così sereno e tranquillo, l'Africa non è solo sorrisi, Dada e Kaka, ma mi basta pensare che questa gente riesce a darmi tanto e così ho ancora più voglia di comiciare. 

Usiku Mwema!! 

Eugenia da Bagamoyo

La Torcia dell’Unità e i diritti di donne e Bambini

Ogni anno, per 4 mesi, la Tanzania viene ripercorsa villaggio per villaggio, regione per regione, da una torcia, una torcia simbolica che attraversa le varie tappe che hanno condotto il paese all’indipendenza dal colonialismo britannico. Fu Alexander Nyirenda, nel dicembre del 1961, a portare la torcia sul monte Kilimangiaro, affinché tutta la nazione fosse illuminata e guidata verso un nuovo periodo di libertà e convivenza pacifica.

Da allora, ogni anno, Uhuru Torch o Mwenge, la “torcia dell’unità”, passa di comunità in comunità per ricordare quel momento e tornare sul monte più alto della Tanzania. Il passaggio della torcia diventa così un'occasione per riunirsi, per discutere , per ricordare e festeggiare: quest’anno ha rappresentato anche l’occasione per riconoscere ufficialmente i WCR groups.

WCR significa Women and Children Rights, il nome attraverso cui definire i gruppi che nascono con lo scopo di facilitare lo sviluppo di una nuova coscienza sulla violenza e gli abusi contro le donne e i bambini e sui loro diritti. Si sono formati nei villaggi e sono composti da 6 a 10 persone, uomini e donne che svolgono già un ruolo attivo nella propria comunità di riferimento in qualità di TOTs (formatori di formatori), TOAs (formatori di animatori) CJFs (Facilitatori di Giustizia), oppure come maestri e medici. Queste persone vogliono contribuire su base volontaria a realizzare un ambiente più sicuro e sano nel distretto di Bagamoyo, attraverso la promozione e la difesa dei diritti dei più vulnerabili.


Kassim, CJF di Lugoba, ha ufficialmente presentato alle autorità e alla popolazione i gruppi del WCR, con un discorso ufficiale cui è seguito il taglio del nastro all'interno di una cerimonia che ha visto la consegna simbolica degli “attrezzi di lavoro”, fatti di diritti, leggi e rispetto dei più deboli, a Maria e Mwanahamisi, membri del gruppo di Lugoba.

CVM è riuscita a formare 372 persone, oggi tutte impegnate nei gruppi WCR presenti nelle 22 Wards di Bagamoyo con l’impegno di prevenire e dare, a livello comunitario, una risposta efficace e sostenibile alla violenza di genere e contro i bambini. Per raggiungere tale obiettivo i gruppi organizzeranno azioni di sostegno volte all’implementazione di leggi locali che a livello di villaggio possano essere di supporto alle leggi nazionali, per diversi aspetti carenti nella tutela dei diritti di donne e bambini. Inoltre i gruppi stabiliranno, in collaborazione con specifici Dipartimenti di Distretto, primi tra tutti Salute, Genere e Politiche Sociali, un sistema di riferimento e raccolta dati sui casi di abuso registrati nella comunità e allestiranno campagne di sensibilizzazione contro la violenza e gli abusi di genere e la violenza contro i bambini, coinvolgendo gruppi teatrali, educatori ed altre persone già formate sui diritti umani.

In Tanzania, secondo recenti indagini sulla salute e in relazione a numerose rilevazioni demografiche, 3 ragazze su 10 di età inclusa tra i 13 e i 24 anni riportano almeno un caso di violenza sessuale subita prima dei 18 anni. Il 23,7% delle donne e il 51,3% dei bambini riferiscono di aver subito violenza fisica dai loro mariti e dai loro padri, cifre altissime, soprattutto se si considera il gran numero di violenze che non viene riportato o a causa di una mancanza di consapevolezza di quelli che sono i diritti di donne e bambini o per sfiducia verso il sistema di giustizia formale, in un contesto sociale in cui la maggioranza delle comunità considerano la violenza domestica un comportamento socialmente accettabile.

E’ in questa dimensione che trovano significato e importanza i gruppi WCR nel Distretto di Bagamoyo, è qui che vorremmo trasformare la torcia un simbolo dell’unità nazionale in Tanzania nell'emblema dell’impegno della comunità nella difesa dei diritti di donne e bambini.

Daniela Biocca, Rappresentante Paese CVM in Tanzania