Comincia ad essermi familiare la strada che da Bagamoyo conduce verso l’interno, quell’irrompere della terra rosso ruggine e dell’asfalto dissestato che ad ogni sobbalzo mi ricorda che è mattina e non è tempo di sonnecchiare, quelle capanne nascoste tra la vegetazione, quei piccoli villaggi che si aprono sulla strada e si riempiono di bambini che, seduti a terra e a piedi scalzi, da una tazza bevono latte dipingendosi la bocca di bianco, quelle bancarelle piene di banane e arance, quelle figure di donne che mantengono in equilibrio secchi d’acqua muovendosi sinuosamente.
Dopo circa tre ore passate ad osservare da dietro un finestrino uno scorcio di terra tanzaniana in movimento, dopo una breve sosta a Lugoba, dove una parte del team CVM rimarrà per quattro giorni di workshop sui diritti delle donne, arriviamo nel villaggio di destinazione: Chalinze.
Chalinze è una piccola città, 100 Km ad ovest di Dar es Salam, una zona di passaggio, il centro di rifornimento principale per i viaggiatori provenienti dal sud e nord della Tanzania, data la presenza di sei stazioni di servizio. Sul ciglio della strada una moltitudine di camion e daladala (tipico autobus), intorno tanti piccolissimi bar dove fermarsi ad assaggiare la cucina tanzaniana. Bancarelle stracolme di frutti, piccoli shop dove con un po’ di pazienza riesci a trovare quel che ti serve. Di notte diventa un luogo vivace con bracieri sparsi dappertutto utilizzati per cuocere pietanze dagli odori invitanti e a volte, mischiati al fumo, nauseabondi, banchetti illuminati dalla luce di una fiamma che lascia intuire la tipologia della merce presente. E poi un’immensa moltitudine di gente che si riversa sulla strada alla ricerca del posto in cui consumare la cena ,di uomini soli che vagano alla ricerca di incontri fugaci con giovani donne che vendono il proprio corpo in cambio di pochi scellini: questo è uno dei motivi che contribuisce a fare di Chalinze uno dei centri a più elevata prevalenza di infezioni Hiv/Aids nella regione del Pwani.
Ed è qui che è presente il CTC (CARE AND TREATMENT CENTRE) strutturalmente un’ospedale a padiglioni in mezzo alla natura. Dopo avere effettuato il colloquio con il medico responsabile per decidere di cosa, come e quando occuparmi, vengo accompagnata nel padiglione maternità. Senza nessun preavviso, varcata la soglia d’ingresso e dopo aver percorso un breve corridoio, mi ritrovo catapultata direttamente nella sala parto, dove gli occhi registrano la presenza di tre donne distese, nude, senza alcuna privacy, sui rispettivi letti, tra l’odore pungente di sangue e il vento caldo che entra dalle finestre aperte sul cortile: al sentimento di intrusione forzata in un ambiente così delicato si sostituisce a breve quello di accoglienza da parte del team tanzaniano. Due di queste donne sono nella fase di travaglio, si girano e rigirano nella speranza di trovare la posizione meno dolorosa durante le contrazioni, si lamentano discretamente, si alzano, camminano intorno al letto e si riallungano di nuovo. A distanza di un’ora dal mio arrivo, Hamida, una ragazza di 20 anni alla sua prima gravidanza dai lineamenti del viso perfetti e un corpo impeccabile, richiama la nostra attenzione dando inizio alla fase del parto. Si intravede la piccola testolina ma le spinte di Hamida da sole non bastano: una delle nurse posiziona uno sgabello all’altezza del torace e con tutto il peso del proprio corpo e la forza delle mani comincia a fare pressione su quel pancione contratto ed immobile.
Sembrano minuti infiniti. Finalmente la testa è fuori, piano piano anche la spalla, il resto del corpicino viene tirato fuori dalla seconda nurse e la comparsa del pianto soffuso e tanto atteso ci fa sorridere di gioia per questo evento così sofferto. E’una bimba! Una futura donna d’Africa! Una sorpresa, perché qui non esistono ecografie in gravidanza che svelano il sesso del nascituro. La piccola viene posizionata sul grembo materno, il cordone ombelicale clampato, legato e tagliato, avvolta da un tipico kanga colorato me la mettono in braccio per pesarla facendomi sentire meno mzungu: e sì, i bambini in Africa alla nascita sono bianchi, solo con il passare delle ore e dei giorni, in presenza della luce e l’attivazione della melanina, si scuriscono assumendo il colore nero della pelle. Peso:2,9 Kg, indice Apgar 9/10. E il nome?? Come si chiamerà questo batuffolo che ho tra le mie braccia?? non è dato saperlo al momento: sarà il padre, una volta tornata a casa, dove la vedrà per la prima volta, a darle il nome!!! Mentre il resto del team è impegnato nella seconda fase del parto, l’espulsione della placenta, avvolgo la piccola con altri Kanga per evitare l’ipotermia e rimango ad osservala mentre strizza gli occhi, muove le labbra in segno di suzione, si porta il pollice alla bocca come se fosse un ciuccio.
Al termine la riconsegno alla giovane madre che con una naturalezza straordinaria se la avvicina al petto e comincia ad allattarla: che forza Hamida, ha appena partorito e sembra serena e riposata come se nulla fosse successo, un evento così eccezionale ed emozionante per noi e così naturale e tranquillo per loro, a distanza di pochi minuti dal parto è seduta sul letto con in braccio la prima figlia e riesce a mangiare e mandare messaggi con il cellulare. In Italia la sala d’aspetto si sarebbe riempita di parenti ed amici per vedere e fare festa al nascituro, qui non c’è ombra neppure del padre… solo una parente silenziosamente e discretamente entra nella sala per portare cibo e vestiario di ricambio, ma non si ferma neppure a guardare questa nuova creatura d’Africa, presta attenzione alle esigenze della madre. Che mondi diversi!
Intanto nella stanza adiacente alla sala parto, seduta su un lettino, c’è Rukia, 22 anni, in attesa della visita medica. Ci spiega il motivo della sua presenza: dolore addominale, perdite ematiche, ritardo mestruale da circa due mesi. Per me abituata a lavorare in emergenza, fare l’addizione di segni e sintomi non è difficile e il campanello d’allarme che si tratti di un aborto o minaccia d’aborto comincia immediatamente a suonare nella testa diventando certezza dopo la prima sommaria visita ginecologica. Il medico mi spiega che si tratta di un aborto interno ritenuto, ovvero l’embrione è morto, ma non è stato espulso all’esterno, così la soluzione è una sola: revisione uterina, quindi dilatazione e raschiamento. Mi chiedo come riescano questi medici a fare con tale certezza questo tipo di diagnosi solo attraverso occhi senza ad esempio l’utilizzo di un ecografo, e mi chiedo come mai questa donna rimane in silenzio senza porre nessuna domanda, senza chiedere: ma è sicuro? Affidandosi completamente nella mani di quest’uomo con il camice bianco.
E dopo pochi minuti, eccola, Rukia, sdraiata sul lettino ginecologico, sul viso smorfie di dolore, si agita e si dimena fino a che non decide di prendermi le braccia e stringermele fino a farmi male per scaricare il suo, di male. Mi guarda con occhi spalancati quasi a volermi implorare aiuto, a volermi rimproverare per quello che le stà accadendo. Avrei voluto dirle: <> Ma non conosco lo swahili, le sue urla mi lasciano impietrita e allora rimango lì, ferma, immobile, ad osservarla e a lasciare che scarichi il suo dolore sulle mie braccia. E finalmente dopo venti lunghi e interminabili minuti tutto è finito: piano piano molla l’intensità di presa sulle mie braccia e mi lascia andare.
Rukia rimarrà sdraiata sul fianco ancora altri 15 minuti, giusto il tempo per recuperare le forze fisiche. Quindi si alza, si riveste e, a passo lento ma deciso, varca la porta d’uscita di quella che per un’ora è stata la sua gabbia di tortura.
Eccola quella forza d’animo della donna africana! Negli incontri del CVM l’avevo intravista tra le donne del microcredito, tra le ragazze di Mkanga e Saadani durante il workshops sui diritti delle donne e dei bambini. Ma qui ,tra queste mura dell’area ginecologica, ne ho avuto l’assoluta conferma: è la forza d’animo che si lega con la resistenza fisica al dolore che fa, nella donna, il futuro dell’Africa!
Antonella, Bagamoyo,Tanzania.