martedì 5 maggio 2015

On the street/Of the street

Negli anni Ottanta, l’UNICEF ha stabilito una classificazione secondo la quale si possono distinguere i ragazzi di strada in due categorie: the children on the street and the children of the street. Appartengono alla prima categoria i bambini che lavorano tutto il giorno sulla strada, ma tornano a casa la sera per dormire. Appartengono alla seconda categoria i bambini che vivono permanentemente in strada, anche di notte.


Ritrovo la classificazione di cui ho letto e studiato tanto in questa foto, frutto della mia vita a Debre Markos day by day.




Il ragazzo a sinistra appartiene alla prima categoria, è un child on the street. Si chiama Abebe, ma l’ho rinominato Alessandro perché ha lo stesso identico sguardo di un ex-alunno in Italia…ormai tutti lo chiamano così. Abebe vive da sempre in questa città assurda e bellissima. Abita con la madre e una sorella più piccola di lui nello stesso quartiere dove si trova il mio ufficio. Del padre non si sa nulla, inutile cercare di approfondire la questione. Un giorno mi decido a chiedergli perché se ne sta sempre in strada, lo troviamo anche alle sei del mattino, sotto la pioggia scrosciante, o quando cala la notte… dice di avere una casa ma l’impressione è che la sua casa sia questo marciapiede consumato di fronte a uno degli hotel più lussuosi di Debre Markos. Non ha bisogno di molte parole per spiegare la situazione. A casa lui è l’unico uomo , e sua madre è molto povera, si mantiene vendendo pannocchie abbrustolite ai bordi della strada… difficile sfamare una famiglia, difficile per Abebe chiedere soldi, vestiti o altro a questa donna. E così passa il suo tempo qui, in mezzo agli altri steet children, lavorando come può, appena può. A volte lo vedo correre dietro a un minibus che sta per fermarsi, pronto a caricare i bagagli dei passeggeri; a volte lo vedo spingere il pneumatico di un camion, o pulire le scarpe dei passanti. Moltissime volte lo vedo semplicemente seduto in mezzo al “branco”, o impegnato in un’improvvisata partita di calcio con una vecchia bottiglia che fa da pallone.


Il ragazzo a destra appartiene alla seconda categoria, quella dei children of the street. Si chiama Abathun, viene da un villaggio sperduto nella campagna che circonda Debre Markos… è orfano di madre, viveva solo con suo padre. Un giorno si è stancato delle violenze domestiche, della vita povera del villaggio, e ha deciso di partire per la grande città. Mi racconta di essere qui da circa un anno. Ogni giorno lo guardo e mi chiedo se le sue aspettative sono state soddisfatte. È un ragazzino difficile da avvicinare, detesta le istituzioni, le autorità, non appena sente un minimo controllo o pressione si allontana. Ha il tipico piglio del leader, anche se è uno dei più piccoli del gruppo, e spesso lo vedo stupirsi come un bimbo di fronte alle cose più banali: il suo riflesso in uno specchio, una videochiamata in Italia, il racconto del mio viaggio in aeroplano. Lavora come può, come Abebe, e di notte dorme sul famoso marciapiede consumato… durante questi mesi mi è capitato spesso di trovarlo rannicchiato sotto la sua coperta a scacchi neri, restio ad aprire gli occhi nel mezzo della confusione di Debre Markos.


Guardo la foto e ripenso ai rapporti dell’UNICEF, alle teorizzazioni e alle categorie, e mi stupisco di trovarmi nel mezzo di questa realtà. Di sentirmi a mio agio in mezzo ai loro volti, già così familiari. E credo che questo scatto rubato alla strada ci regali un’immagine che supera tutte le nostre teorie e idee, e supera la durezza della vita in cui questi ragazzini loro malgrado si sono ritrovati. Perché mostra la loro forza, che nasce dal legame che li unisce e in poco tempo li rende come fratelli, al di là delle categorie esterne, delle differenze nella loro storia. Fratelli sulla strada, fratelli della strada…brothers on the street, brothers of the streets.


Sara Bosio
Volontaria SVE in Etiopia

giovedì 16 aprile 2015

Testimonianza Marco Angelucci

Sono ormai giunto alla fine di questa esperienza e sto trovando molte difficoltà a riuscire a dare una forma, a tradurre in parole sensate tutto quello che mi sta passando per la testa, visto che i pensieri per loro stessa natura non hanno nulla di concreto. Semplicemente compaiono nella mente, spesso in contraddizione tra loro a seconda dello stato d’animo del momento.

Al momento non riesco a rendermi conto, in modo concreto ciò che lascerò in questo paese ma voglio ringraziare tutti quelli che ho incontrato nel mio cammino, per avermi lasciato un qualcosa di loro: un semplice saluto di uno sconosciuto per strada, il sorriso dei bambini nelle passeggiate dopo le ore di lavoro, le innumerevoli persone conosciute in molti dei luoghi visitati con cui poi ho avuto la possibilità, con alcune di esse, di instaurare ottimi rapporti di amicizia, di confrontarmi o di conoscere semplici racconti di vita.

Facendo una carrellata di tutti i miei stati d’animo che si sono succeduti in questi mesi, diverse sono state le mie sensazioni su questa esperienza. Periodi di forte scoramento in cui è stata forte la sensazione di mollare tutto e tornarsene a casa, in un contesto familiare, dove ti senti  completamente a tuo agio, perché conosci perfettamente tutto quello che ti circonda. La difficoltà di comprendere alcuni gesti, alcune espressioni e modi di fare che rendono meravigliosa la loro cultura mi ha fatto spesso sentire solo nonostante fossi sempre in mezzo ad altre persone. Tutto ciò è stato dovuto in particolare alla difficoltà di comunicare con chiunque entrassi in contatto. La mia totale incapacità di comunicare in amarico e la difficoltà per loro di comunicare in inglese, ha rallentato il mio processo di inserimento nella loro cultura.

Fortunatamente, non sono invece mancati momenti di grande entusiasmo grazie a tutte quelle esperienze che in Italia mai avrei avuto la possibilità di poter fare come aver potuto fare un reportage fotografico di una prigione e conoscere le donne di una tribù per capire i loro problemi e le difficoltà che devono affrontare quotidianamente come il non farsi mangiare dai coccodrilli ogni volta che prendono l’acqua al fiume ed insegnare l’inglese a delle bambine che vivono in una casa famiglia.

Ero partito per questa esperienza pieno di dubbi, inconsapevole di cosa mi avrebbe riservato questo anno della mia vita e chiedendomi se non fosse stato più giusto investirlo in un altro modo, come ad esempio cercare una stabilità ed un equilibrio duraturo. Infatti non appena tutto questo sarà finito le paure per il domani riemergeranno, ma so con certezza che questi 12 mesi non sono stati affatto sprecati, perché ora guardo il futuro con più consapevolezza riguardo i miei obiettivi e le mie aspettative, dandomi la forza di affrontare sfide che solo un anno fa non ne avrei avuto il coraggio.





Marco Angelucci
Volontario Servizio Civile in Etiopia

martedì 14 aprile 2015

Testimonianza Giulia Letizia Spezzani

Pare che il mio anno di servizio civile sia giunto al termine, almeno questo è quello che dice il biglietto aereo Dar es Salaam-Milano fissato tra una decina di giorni. Non mi è facile immaginare quanto tutto sarà differente nel giro di una manciata di giorni, il paesaggio, il clima, le persone e chissà, forse anche io. Se chiudo gli occhi e mi concentro riesco ancora a percepire quella sensazione di eccitazione e curiosità che mi invadeva il giorno del mio arrivo a Bagamoyo, era il 22 Marzo dello scorso anno, e ricordo che ad ogni curva imboccata dalla macchina mi dicevo, chissà cosa c’è dietro l’angolo, forse il mare, di certo dobbiamo essere vicini perché guarda quanta sabbia!

Ebbene, dopo 11 mesi a Bagamoyo, non so ancora cosa aspettarmi dietro l’angolo, dopo una curva (una mucca può sempre essere in agguato), ma almeno so dov'è il mare e quali sono i punti in cui la sabbia è così alta da renderti difficile camminare, andare in bicicletta o pikipiki (le moto abitualmente utilizzate per i piccoli spostamenti). Già, credo che queste siano le uniche risposte che mi riporto a casa, insieme a molte domande, su di me, su questo posto e sulle persone incontrate.

Ero partita con tante domande: come sarà Bagamoyo? Come sarà lo staff? E le persone? Cosa farò? Avrà un senso tutto questo? Sopravviverò? All'ultima domanda mi sento di poter rispondere con un certo grado di sicurezza: sì, sono sopravvissuta e pare anche bene (nessuna infezione, strana malattia o altro), e per quanto riguarda Bagamoyo lo dico: è un posto che irradia bellezza, nonostante i numerosi tentativi di renderla meno attraente (basti pensare alle montagne di rifiuti che inondano le strade e la distruzione di foreste centenarie in alcune zone del distretto per la produzione di mkaa, il legno usato comunemente per cucinare).

Lo staff CVM è stata la mia famiglia qui in Tanzania, con loro ho condiviso le fatiche, le gioie quotidiane, la frustrazione, i pettegolezzi e tante risate. Mi hanno insegnato quante sfumature di grigio ci siano tra il bianco e il nero, quante diverse variabili si debbano considerare nell'interpretare una situazione, in fondo se una beneficiaria ritarda a ripagare mensilmente il prestito ottenuto, può essere semplicemente in attesa del raccolto e quindi a corto di risorse in quel momento e non necessariamente qualcuno che non sta ai patti. Insomma a loro devo un immenso grazie, per essermi stati umanamente e professionalmente vicini in tutti questi mesi.

Durante quest’anno mi sono scoperta e riscoperta. Ho scoperto quanto bianca sono, non solo fuori (il mio incarnato latteo non viene intaccato nemmeno dal sole equatoriale), ma anche dentro. È stata dura allentare i miei schemi per far posto anche a quelli altrui, per poi scoprire che magari ce ne può essere uno condiviso, ibrido tra i due precedenti. Ho scoperto quanto amo il cibo italiano, nonostante abbia trovato qualcosa di interessante anche nel menu tanzaniano. Mi sono sorpresa nel vedermi seduta a terra, nel negozio della sarta vicino a casa, a spulciare modelli di borse con una sconosciuta e a sognare quelle che più ci sarebbero piaciute.

Rispetto al senso del mio anno qui e alle persone di Bagamoyo, riparto invece con tanti dubbi, domande e questioni aperte. I cambiamenti non seguono i tempi di un progetto, sono processi lenti che vanno accompagnati con pazienza e perseveranza. Chissà, forse i risultati più duraturi delle azioni di oggi si vedranno tra una generazione, e proprio per questo la motivazione deve essere forte e l’obiettivo ben chiaro. Ecco, io a Bagamoyo durante il mio anno di servizio civile ho trovato questo. Nell'ascoltare le storie  delle persone incontrate, nel vedere i volti, io ho trovato un senso più profondo, una consapevolezza più acuta e tagliente, una motivazione più forte. I numeri letti tante volte su report ed articoli hanno preso vita, i beneficiari dei progetti, sono diventati persone con le quali rapportarsi, lavorare, gioire e perché no, anche arrabbiarsi.

Come ho detto più volte in questi giorni agli amici felici di sapermi a breve di ritorno, sento che questa esperienza mi ha cambiata profondamente, provo una sensazione di scavo interiore, Bagamoyo mi è entrata sotto la pelle, non so ancora con quale risultato. Ai cambiamenti visibili - ora affronto gli insetti di ogni forma e dimensione con una freddezza chirurgica - si affiancano cambiamenti invisibili ad un primo sguardo. La socievolezza tanzaniana, quella che ti impedisce di restare sola sulla spiaggia a leggere per intenderci, mi ha contagiata e, come qualcuno mi ha recentemente fatto notare, parlo anche con gli alberi; mi siedo senza vergogna a far compagnia ad una barista con il locale vuoto. Ho avuto il coraggio di farmi travolgere da ciò che mi ha circondata negli ultimi 11 mesi e ora sento il bisogno di trovare uno spazio mio per capire cosa sono diventata.




Giulia Letizia Spezzani
Volontaria Servizio Civile in Tanzania

venerdì 10 aprile 2015

Testimonianza Cristina Toppo

Il Servizio Civile internazionale è un’esperienza che consiglio a tutti. Non solo perché nasce come obbiezione di coscienza all’obbligo di leva, permettendo di partire per vere missioni di pace, ma perché è un’esperienza unica, irripetibile, nobile, ricca di valori ed insegnamenti.

In primis insegna ad essere stranieri e non viaggiatori. Si vive una realtà diversa dalla propria, spesso in luoghi dove i turisti non passano, dove bisogna adattarsi, adeguarsi, cambiarsi per non rischiare di essere emarginati. Insegna a non fare tutto ciò che si vuole, a non bere una birra a pranzo se un anziano signore può rimanerne sconcertato ed irritato, a non usare abbigliamenti inadeguati al contesto o a non usare un linguaggio troppo semplice e volgare. Tutto questo può accadere soprattutto se sei una donna. Non si tratta di limitare il diritto ad essere ciò che si vuole o la parità di sessi. Si tratta di quieto vivere, di integrazione, di rispetto. Io ad esempio ho imparato che sono libera di fare ciò che voglio fino a quando il mio volere non offende qualcun’altro, prima di venire qui era una frase fatta, ora ne ho preso coscienza al 100%.

In secondo luogo il servizio civile insegna ad essere patriottici, in modo sano. Si parte in qualità di difensori non armati della Patria e io ho iniziato a pensare a cosa è una Patria in questo periodo. Ho iniziato a volere bene all’Italia, ad apprezzarne ogni lato, anche quelli sempre criticati vedendoci qualcosa di buono. Sarà che qui in Etiopia gli Italiani sono amati. Non ci sono rancori e a parte qualche battuta sulla sconfitta di Adua si sentono storie bellissime di soldati italiani che nel momento in cui dovevano uccidere una qualche persona passata nel momento sbagliato nel posto sbagliato, l’hanno lasciata andare. Si sente l’Italia nel quartieri come Bella e Piazza e nelle parole in amarico: Berenda (Veranda), Calzi (Calze), Portamogaglie (Porta bagagli), e tutti i pezzi di motori e macchine.

La terza cosa imparata è che bisogna essere felici, sempre, in qualunque occasione. Che non bisogna piangersi addosso, che bisogna andare avanti sereni e riconoscenti. Che ogni sfida in realtà non è una sfida, ma solo vita. Che ogni momento triste non è triste, ma è vita. Questo lo si impara nei villaggi delle periferie, dove si vive con niente, dove è necessario che sia un ONG a dare l’acqua agli abitanti perché sembra che anche la natura si sia scordata di quelle zone. Dove la gente sorride, e non si sforza per farlo, dove i bambini mangiano una volta al giorno e hanno la forza per correre dietro la tua macchina urlando you you you, dove le mamme che si levano il cibo dalla bocca per darlo ai figli, sorridono nel vederli correre e poi ti salutano con la mano tenendo in braccio il figlio più piccolo, probabilmente il settimo. Si impara che l’invidia e la competizione sono bestie orribili, che bisogna essere felice del proprio status, del livello a cui si arriva senza vivere nell’angoscia di avere sempre un qualcosa in più. Ti insegna che nella disuguaglianza economica ci può e ci deve essere un’uguaglianza di spirito che si vede nei momenti in cui ci si scambiano le esperienze, in cui io ho dato un momenti di divertimento, magari ballando la danza tradizionale e ho ricevuto in dono la possibilità di danzare grazie ai cantanti dei bambini, un pezzo di tradizione regalatomi.


Mi porto a casa tante belle cose, e non mi interessa se i miei vestiti sono tutti bucati a causa dei legnetti che escono fuori da ogni mobile o consumati da saponi improbabili. Non mi interessa se le mie scarpe sono da buttare a causa di stradine piene di sassi e polvere indelebile. Non mi interessa se ameba e malaria mi hanno stesa, se la sera del mio ritorno, avrò in testa un disastro e addosso cose che ormai sembrano uno straccio, perché l’unica cosa che mi interessa è che dentro ho un nuovo Mondo, ho un nuovo punto di vista, che tornerò ricca, ricca dell’esperienza di persone che mi sembravano così diverse e che invece mi hanno resa così simile.



Cristina Toppo
Volontaria Servizio Civile in Etiopia