Il Servizio
Civile internazionale è un’esperienza che consiglio a tutti. Non solo perché
nasce come obbiezione di coscienza all’obbligo di leva, permettendo di partire
per vere missioni di pace, ma perché è un’esperienza unica, irripetibile,
nobile, ricca di valori ed insegnamenti.
In primis insegna ad essere
stranieri e non viaggiatori. Si vive una realtà diversa dalla propria, spesso
in luoghi dove i turisti non passano, dove bisogna adattarsi, adeguarsi,
cambiarsi per non rischiare di essere emarginati. Insegna a non fare tutto ciò
che si vuole, a non bere una birra a pranzo se un anziano signore può rimanerne
sconcertato ed irritato, a non usare abbigliamenti inadeguati al contesto o a
non usare un linguaggio troppo semplice e volgare. Tutto questo può accadere
soprattutto se sei una donna. Non si tratta di limitare il diritto ad essere
ciò che si vuole o la parità di sessi. Si tratta di quieto vivere, di
integrazione, di rispetto. Io ad esempio ho imparato che sono libera di fare
ciò che voglio fino a quando il mio volere non offende qualcun’altro, prima di
venire qui era una frase fatta, ora ne ho preso coscienza al 100%.
In secondo luogo il servizio
civile insegna ad essere patriottici, in modo sano. Si parte in qualità di
difensori non armati della Patria e io ho iniziato a pensare a cosa è una
Patria in questo periodo. Ho iniziato a volere bene all’Italia, ad apprezzarne
ogni lato, anche quelli sempre criticati vedendoci qualcosa di buono. Sarà che
qui in Etiopia gli Italiani sono amati. Non ci sono rancori e a parte qualche
battuta sulla sconfitta di Adua si sentono storie bellissime di soldati
italiani che nel momento in cui dovevano uccidere una qualche persona passata
nel momento sbagliato nel posto sbagliato, l’hanno lasciata andare. Si sente
l’Italia nel quartieri come Bella e Piazza e nelle parole in amarico: Berenda
(Veranda), Calzi (Calze), Portamogaglie (Porta bagagli), e tutti i pezzi di
motori e macchine.
La terza cosa imparata è che
bisogna essere felici, sempre, in qualunque occasione. Che non bisogna
piangersi addosso, che bisogna andare avanti sereni e riconoscenti. Che ogni
sfida in realtà non è una sfida, ma solo vita. Che ogni momento triste non è triste,
ma è vita. Questo lo si impara nei villaggi delle periferie, dove si vive con
niente, dove è necessario che sia un ONG a dare l’acqua agli abitanti perché
sembra che anche la natura si sia scordata di quelle zone. Dove la gente
sorride, e non si sforza per farlo, dove i bambini mangiano una volta al giorno
e hanno la forza per correre dietro la tua macchina urlando you you you, dove
le mamme che si levano il cibo dalla bocca per darlo ai figli, sorridono nel
vederli correre e poi ti salutano con la mano tenendo in braccio il figlio più
piccolo, probabilmente il settimo. Si impara che l’invidia e la competizione
sono bestie orribili, che bisogna essere felice del proprio status, del livello
a cui si arriva senza vivere nell’angoscia di avere sempre un qualcosa in più.
Ti insegna che nella disuguaglianza economica ci può e ci deve essere un’uguaglianza
di spirito che si vede nei momenti in cui ci si scambiano le esperienze, in cui
io ho dato un momenti di divertimento, magari ballando la danza tradizionale e
ho ricevuto in dono la possibilità di danzare grazie ai cantanti dei bambini, un
pezzo di tradizione regalatomi.
Mi porto a casa tante belle cose,
e non mi interessa se i miei vestiti sono tutti bucati a causa dei legnetti che
escono fuori da ogni mobile o consumati da saponi improbabili. Non mi interessa
se le mie scarpe sono da buttare a causa di stradine piene di sassi e polvere
indelebile. Non mi interessa se ameba e malaria mi hanno stesa, se la sera del
mio ritorno, avrò in testa un disastro e addosso cose che ormai sembrano uno
straccio, perché l’unica cosa che mi interessa è che dentro ho un nuovo Mondo,
ho un nuovo punto di vista, che tornerò ricca, ricca dell’esperienza di persone
che mi sembravano così diverse e che invece mi hanno resa così simile.
Cristina Toppo
Volontaria Servizio Civile in Etiopia
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