martedì 25 gennaio 2011

Donne e Sanità (Report dall'Etiopia)


Molto spesso non sono istruite, non sanno né leggere né scrivere, difficilmente hanno modo di ricevere informazioni sanitarie, soprattutto legate all’HIV, nella maggior parte dei casi non godono di una vera libertà decisionale e di movimento per questioni di cultura come di carenza di risorse; sono indaffarate a casa e non hanno tempo per altro che non sia il lavoro nei campi, le faccende domestiche e la cura dei bambini: è la difficile condizione in cui ancora oggi vivono le donne della regione Amhara, soprattutto nelle aree rurali. Donne che non sanno quasi nulla su ciò che è bene per la loro salute, sull’importanza di recarsi da un dottore, di prendere medicine, di sottoporsi alla prevenzione, dei rischi di una gravidanza e della necessità di controlli durante i nove mesi, ma anche dei pericoli di un parto in casa e tanto meno dell’HIV, dei modi di trasmissione del virus e dei sistemi di difesa.

È innegabile che gli ultimi programmi statali come pure l’impegno di organizzazioni non governative abbiano favorito un progresso e una maggiore diffusione d’informazioni. In particolar modo nelle zone urbane si registra una presa di coscienza di tali problemi e l’adozione di comportamenti che prestano più attenzione alla salute per evitare rischi dovuti a antiquate pratiche, la diffusione di malattie come l’HIV e altre patologie sessualmente trasmissibili; ma se anche in città restano grandi sacche di popolazione ancora non adeguatamente informate o che stentano a mettere in pratica gli insegnamenti ricevuti, nelle zone rurali la situazione è grave in generale e quella delle donne lo è ancora di più. Basta fare un giro per le aree di campagna e parlare con chi vi abita, per avere la conferma che il gap di conoscenze al livello base della comunità è enorme. E il problema è che circa l’85% della popolazione etiope vive nelle zone rurali, di cui una buona fetta in aree remote difficilmente raggiungibili.

Come ribadiscono gli esperti, medici, responsabili degli uffici sanitari, health extentional worker (donne formate per fornire informazioni porta a porta), in generale la conoscenza delle donne nelle zone rurali in merito a questioni sanitarie e soprattutto su HIV/AIDS è molto bassa e sicuramente minore rispetto a quella degli uomini, in quanto la componente femminile della comunità è più difficile da coinvolgere nei training e comunque meno raggiungibile con campagne informative: le donne sono spesso oberate di lavoro nei campi e in casa e si spostano meno frequentemente degli uomini; per cui, ad esempio, hanno meno possibilità di entrare in contatto con i VCT Center (Centri per la consulta e il test volontari sull’HIV) itineranti o con altri mezzi di informazione; inoltre, hanno meno tempo per frequentare i corsi e spesso devono chiedere il permesso al marito, non sempre favorevole. Bisogna sempre considerare la condizione di inferiorità in cui la cultura fin dal passato ha posto le donne e che è tutt’ora prevalente nelle zone periferiche. La moglie in molti casi non è libera di scegliere se partecipare a un incontro o meno, deve chiedere l’autorizzazione al marito che sovente si oppone, a volte per paura che lei incontri un altro uomo, mentre altri per la convinzione che il suo posto sia in casa. Spesso, poi, le comunicazioni dei corsi e degli incontri vengono gestite a livello di kebele dove, non di rado, gli impiegati continuano ad indirizzarle ai maschi della famiglia perché legati alla visione tradizionale dei ruoli. D’altronde, è anche vero che sovente è la componente femminile della popolazione in primis a non essere disposta a lasciarsi coinvolgere in queste attività, adducendo come motivazione l’eccessivo lavoro in casa. C’è poi l’aspetto ‘sentimento di inferiorità’ che, interiorizzato dalle donne, impedisce loro di farsi avanti in molti casi anche quando hanno bisogno di aiuto. Infine, va considerato che molte zone sono concretamente difficili da raggiungere perché non vi sono vie di comunicazione perciò, restando le donne in casa, sono meno esposte alle informazioni. L’uomo, invece, ha più libertà di movimento, è di solito quello che partecipa ai training e, frequentando più spesso le città, ha più opportunità di ricevere un’educazione, seppur minima, anche perché ha più occasioni di ascoltare la radio e guardare la televisione, non diffuse in campagna.

Il problema è che, anche se qualche informazione arriva ai soggetti, dalla semplice ricezione all’interiorizzazione e all’adozione del relativo comportamento ce ne passa. Per eliminare pratiche antiche e pericolose occorre molto tempo, non basta qualche incontro o qualche visita a casa dell’extentional worker, soprattutto tenendo in considerazione quanto detto sopra e il basso livello di istruzione delle donne. Oltre che sistematicità nel diffondere informazioni serve anche accuratezza e qualità, aspetti che a volte sembrano mancare. Spesso, infatti, parlando con le persone nelle zone rurali ci si rende conto che, seppur sporadicamente, sono entrate in contatto con esperti, infermiere o soggetti formati per impartire nozioni di educazione sanitaria, ma che non hanno recepito il messaggio che veniva loro trasmesso, forse perché non chiaro: Birtukan Geremew, residente nella woreda rurale di Gozzamen, ad esempio, è madre di tre figli, non si è mai sottoposta alle cure antinatali durante le gravidanze, neanche per l’ultimo nato che ha dieci mesi, e solo uno dei suoi bambini ha visto la luce in un health post (un piccolo ambulatorio che di solito si trova nelle zone rurali, il livello più basso dei servizi sanitari) perché durante il parto, che come gli altri doveva aver luogo in casa, ci sono state complicazioni. Non sa assolutamente nulla di HIV e tanto meno dei modi di trasmissione madre-figlio però, a quanto riferisce, in casa sua si sono recate le health extentional worker: “Sono venute e hanno parlato di sanità, hanno detto qualcosa anche sull’HIV ma non ho capito niente”, spiega molto sinceramente. Dice che durante ogni gravidanza si è recata all’health post per le vaccinazioni che si debbono fare durante i nove mesi, ma non ha mai fatto altri tipi di controlli o il test dell’HIV. Nessuno le ha consigliato il servizio ANC (Anti Natal Care), l’esame del sangue o le altre visite necessarie quando una donna è in stato interessante, per il suo benessere e quello del feto. “Non ho mai avuto problemi durante le gravidanze, perché andare a fare altri controlli medici?”, commenta tranquilla, aggiungendo che in generale, solo in casi di disturbi prolungati e molto forti o di grossi incidenti, si reca da un dottore, mentre di solito si cura da sola o dai guaritori tradizionali. Stupisce sentire che, nonostante sia stata più volte all’health post per i vaccini, non è stata mai spronata a fare altri controlli; viene da chiedersi come sia possibile. Purtroppo non è l’unica donna nelle zone rurali che racconta di essere andata in ambulatorio durante la gravidanza ma di non aver ricevuto informazioni in merito alle cure antinatali o al test dell’HIV. Avanzare giudizi non è corretto, ma il sospetto che nei piccoli centri sanitari dei kebele di campagna la qualità del servizio e la preparazione del personale non siano adeguati sorge piuttosto spontaneo. Ad avallare questa ipotesi sono anche le considerazioni di Mulugeta Asmare, a capo dell’ufficio della zona East Gojjam del Dipartimento di salute, che sottolinea come ci sia una forte carenza di training per le health extentional worker e come, di conseguenza, non vengano adeguatamente usate le risorse umane del territorio (...).

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