martedì 25 gennaio 2011

WIDIE, l'orfana di Tilili


Widie Mossie ha dodici anni ma ne dimostra appena la metà, non è molto alta e per la sua età è piuttosto minuta, anche se il vestitino che indossa lascia vedere una pancia troppo gonfia, forse causa della malnutrizione o di una brutta malattia che di recente l’ha costretta a letto, ma di cui non riesce a spiegarci i sintomi. La incontriamo in una delle stanze usate per il progetto di sheltering messo in atto dal CVM a Tilili, nell’Awi, una delle zone della regione Amhara, Etiopia. Il programma coinvolge un gruppetto di ragazzini orfani o che precedentemente vivevano in strada, comunque in condizioni indicibili: per tre mesi i bambini, la cui età massima è 14 anni, vivono insieme in una struttura messa a disposizione dall’ONG, con una persona che si occupa di preparare il cibo e di soddisfare i loro bisogni primari. Nel frattempo, seguono corsi sull’HIV e su altre importanti tematiche, vengono reinseriti a scuola se avevano smesso di studiare, ma sono anche supportati psicologicamente. Mentre i piccoli vivono insieme e ricevono un’educazione, l’ONG lavora al fine di ricongiungerli con le loro famiglie, genitori se ancora in vita o altri parenti che si vogliano occupare di loro, spesso aiutandoli con una piccola IGA (Income generating activity, cioè attività generatrice di reddito), affinché siano in grado di prendersi effettivamente cura di quelle creature.

Widie Mossie non viveva in strada, come molti dei compagni con cui condivide ora le sue giornate, era ospite a casa della zia, una donna anziana e povera per la quale non era semplice occuparsi di lei. Non ha mai conosciuto sua madre, la zia le ha raccontato che dopo aver partorito se n’è andata senza far più avere sue notizie e lei non ha chiesto ad altri informazioni, nemmeno al padre per paura. Quest’ultimo fino a qualche anno fa viveva con la figlia, ma da un po’ sembra non riesca a mettere insieme i soldi sufficienti per la loro sopravvivenza e spesso si sposta in lontane città alla ricerca di lavori redditizi. Durante questi viaggi, a volte molto lunghi, non porta mai con sé la ragazzina, lasciandola da parenti o da chi può tenerla come domestica. Widie aveva anche due fratelli: uno è morto qualche mese prima del nostro incontro e dell’altro non ha saputo più nulla: “Non so bene cosa sia successo – racconta incerta -, so che un cane ha morso mio fratello, il più grande, ma non ho capito se questa è stata la causa della sua morte. L’altro ora non so dove sia”.

Lei comunque già da parecchio non viveva con loro, fino a tre anni fa è stata da sola con suo padre: “Avevamo un piccolo tukul (l’abitazione tradizionale che si trova soprattutto nelle aree rurali), io mi occupavo dei lavori in casa come cucinare e pulire, mentre mio padre spaccava e vendeva la legna. Avevamo anche un piccolo terreno che affittavamo”. A quel tempo, Widie aveva già l’età per andare a scuola ma non era stata iscritta: “Mio padre non mi ci aveva mandata – precisa senza polemica né amarezza – ma comunque neanche io ero disposta a seguire le lezioni, anche se lui me lo avesse permesso, avevo troppe cose da fare in casa, non avevo tempo per lo studio”. Secondo quanto racconta la ragazzina, a complicare le loro vite, già di per sé in precario equilibrio, c’erano anche le condizioni pessime in cui era ridotta la loro abitazione, molto vecchia e tutta rotta. “Per questo mio padre decise che ce ne dovevamo andare – prosegue sempre con il volto serio -. Mi disse che sarebbe stato via per qualche mese per lavorare e guadagnare i soldi per costruire una nuova casa”. Così l’uomo lasciò Widie da una famiglia che lei non conosceva, con la promessa che sarebbe tornato dopo non molto a riprenderla. Quelle parole avevano rassicurato la bambina, che in un primo momento non soffrì particolarmente per quella sorta di abbandono e cercò di adattarsi al meglio alla nuova situazione. Il suo compito, nella nuova casa, era quello di occuparsi del figlio appena nato dei padroni: nonostante la sua corporatura mingherlina, trascorreva le giornate con quel fagottino legato sulla schiena, come le donne etiopi portano di solito i figli. “Oltre a guardare il bambino dovevo anche procurare l’acqua alla famiglia andandola a prendere al fiume”. Ovviamente non era previsto che andasse a scuola. In cambio dei lavori che svolgeva, c’erano cibo e un posto per dormire, ma nessun salario: “Il cibo per me bastava – dice con un filo di voce e lo sguardo intimorito – e mi diedero anche un vestito. I datori di lavoro non erano cattivi e all’inizio non avevo problemi, ero tranquilla perché sapevo che mio padre sarebbe tornato a breve e avremmo costruito una nuova casa”. Quella promessa però si rivelò una bugia, facendo soffrire enormemente la piccola, come lei stessa ammette con uno sguardo di profonda tristezza. Col tempo anche le mansioni affidatele, che in un primo momento svolgeva senza grosse difficoltà, diventarono pesanti, quasi insopportabili: “Ero stanca di dover sempre tenere il bambino sulla schiena, spesso provavo un forte dolore”, anche perché il piccolo stava crescendo e alla fine raggiunse l’età di un anno. Dovettero infatti passare circa dodici mesi prima che il padre si rifacesse vivo con lei e quando lo fece non era per portarla nella loro nuovo casa, ma da alcuni parenti dove insieme rimasero per circa una settimana. Non era quella, infatti, la loro sistemazione definitiva, in verità un posto tutto loro dove vivere non c’era ancora. Il padre era di nuovo in partenza e lei si sarebbe trasferita da altri parenti, dalla zia con la quale ha vissuto fino a qualche mese prima di entrare nell’alloggio del CVM: “Mia cugina mi venne a prendere e mi portò a casa di mia zia. Io volevo vivere con mio padre, con lui sto bene anche se mi picchia quando faccio qualcosa di sbagliato. Ma è un buon padre, purtroppo però è molto povero – spiega con tanta rassegnazione, che stona su un volto così giovane -. Andai a vivere da mia zia perché lui doveva spostarsi in un’altra città lontana dove poteva trovare qualche lavoro giornaliero”. Così Widie si trasferì di nuovo in una casa che non era la sua, ancora senza il padre col quale desidera tanto vivere e che ora incontra “solo qualche volta”. Anche quella sistemazione, però, era precaria, viste le condizioni economiche della donna che la ospitava. La zia di Widie è divorziata, ha cinque figlie di cui solo due, ormai grandi, vivono con lei; si mantiene preparando alcool in casa e vendendolo nei mercati, ma i guadagni sono miseri. Alla nipotina non ha mai chiesto di lavorare per racimolare soldi, ma semplicemente di dare una mano in casa e di raccogliere la legna per i bisogni della famiglia. Con lei non è brusca e Widie si trova bene; anche con i due cugini, specie con la femmina ha un buon rapporto e si sente accettata: “Sono come fratelli per me – precisa sorridendo, spalancando i grandi occhi -, mia cugina quando riesce a comprare qualcosa lo divide sempre con me”. Nonostante non si senta un’estranea, anche lì ha dovuto fare i conti con la miseria: “Il cibo bastava solo per la colazione e la cena, ma non ne avevamo per il pranzo”, precisa abbassando lo sguardo. Vista la situazione era scontato che la sua istruzione dovesse di nuovo aspettare, era inimmaginabile che potesse andare a scuola visto che neanche mangiare era una cosa semplice e sempre possibile: “Non c’erano i soldi per farmi studiare. Non bastavano neanche per l’istruzione dei figli di mia zia, solo uno di loro infatti è andato a scuola; l’altro si era dovuto mettere a lavorare presto, stira gli abiti per guadagnare soldi”, ammette vergognosa.
È rimasta circa un anno e sei mesi ospite da loro, poi è venuta a sapere dei progetti avviati dall’ufficio del CVM di Injibara, non molto distante da Tilili, dove viveva con la zia: è stato un amico del cugino che lavora all’ospedale a parlargliene e così si è fatta avanti; è stata selezionata ed ora vive con altri ragazzini sfortunati come lei. Di questo progetto la cosa che apprezza di più è sicuramente la possibilità di avere tutti i pasti di cui abbisogna: “Mangiamo regolarmente – ammette con una certa contentezza, mascherata comunque da una grande timidezza – prima il cibo non bastava mai. Ora ho anche degli abiti, prima ne avevo solo uno. Mi posso anche lavare, mentre prima di venire qui potevo farmi la doccia solo una volta al mese. Inoltre, posso andare a scuola”. Quest’anno, infatti, Widie ha finalmente cominciato a studiare ed è una cosa di cui è sinceramente grata al CVM. Anche vivere insieme agli altri ragazzini le piace: con loro dice che c’è un buon rapporto, anche se poi ammette che preferisce stare con l’altra femmina del gruppo e un po’ meno con i maschietti.

Purtroppo però anche lì, dove sembrava aver trovato un po’ di pace, ha dovuto affrontare un nuovo problema: la malattia che l’ha costretta a letto per oltre due settimane. Purtroppo, spiega, serviva un ricovero in ospedale ma, a quanto pare, la woreda (unità amministrativa territoriale) che collabora con il CVM e che dovrebbe coprire le spese mediche per i bambini del progetto, non poteva pagare costi troppo alti e lei si è potuta rivolgere solo al centro ambulatoriale. Ora, precisa seria, “sta meglio”, ma di cosa abbia sofferto resta un mistero.


Camilla Corradini (Volontaria CVM in Etiopia)

1 commento:

Anonimo ha detto...

e sti cazzi