In molti Paesi dell'Africa e del Medio Oriente prima di entrare dentro un'abitazione è bene togliersi le scarpe per non introdurre sporcizia, è un gesto di rispetto e umiltà. Anche in Etiopia, per entrare nei luoghi di culto bisogna essere scalzi; per me, togliersi le scarpe simboleggia anche un'attitudine mentale, disporsi ad un nuovo terreno e liberarsi da categorie improprie in realtà nuove ed uniche.
L'Etiopia è un Paese che destabilizza ogni preconcetto sull'Africa, per questo aiuta ogni viaggiatore a compiere con più naturalezza questo gesto.
A livello climatico, è una nazione nel cuore dell'Africa, vicina all'equatore, ma posta su altipiani; per questo l'estate, cioè la stagione delle piogge, è particolarmente rigida. Sì, si soffre il freddo anche in Africa e si soffre più che altrove poiché non vi sono né riscaldamenti, né isolanti termici nelle abitazioni.
Poi ci sono i paesaggi pieni di verde, la regione Amhara è ricca di pascoli e boschi; non c'è la foresta pluviale né la savana, la vegetazione è così ricca e variegata che è impossibile rappresentarla con una sola immagine.
Anche l'aspetto religioso insinua forti dubbi sulla concezione standardizzata che si ha dell'Africa: invece di riti tribali - presenti solo in minima parte - o della massiccia presenza di missioni cattoliche, lo sviluppo della civiltà etiope è legato strettamente alle sorti della chiesa copta. Il cristianesimo trova le sue origine nel regno axumita, verso il 480 d.C., quando l'imperatore Ella Amida, accolse favorevolmente degli evangelizzatori provenienti dall'Impero Romano d'Oriente. L'alleanza tra potere e chiesa permise un forte proliferare del nuovo culto.
Tuttora sono facilmente identificabili, nel panorama che si può ammirare viaggiando da Addis verso nord, chiese rupestri e monasteri di antichissima tradizione.
A manifestazione di tanto fervore e di una consolidata presenza sul territorio, si può ammirare ovunque la miriade di croci differenti -meskel- dalle più semplici alle più articolate segno di uno sviluppo artistico nell'intaglio e nell'incisione non indifferente. Ed è sorprendente come qui si sia sviluppata una tranquilla convivenza tra il culto ortodosso e quello musulmano, anche nei piccoli centri è riscontrabile la presenza di entrambi i credi e di una buona cooperazione tra le due gerarchie religiose.
Mi sembra palese che l'occidente ha utilizzato il termine “Africa” come categoria per racchiudervi dentro realtà tanto differenti e profonde, etichettarne il contenuto come povero così da smettere di interessarsene realmente, di conoscerlo e porsi in ascolto.
Ponendoci in una situazione di dialogo e sospendendo i nostri parametri di giudizio, forse, non riusciremmo più ad affermare la nostra superiorità in quanto mondo sviluppato; il parametro dello sviluppo economico e la nostra razionalità utilitaristica rischierebbero di crollare. Eppure, fino ad ora, la ricchezza e la vastità dell'Africa le abbiamo ben sigillate dentro un barattolo, vi abbiamo posto sopra l'etichetta “terzo mondo” e ci guardiamo bene dall'aprirlo.
Non voglio svolgere un'analisi socioculturale sulla realtà africana dopo meno di un mese di permanenza in Etiopia, dunque mi limiterò a narrare dei fatti: per una sorta di patto di fedeltà verso la realtà che sto cercando di narrare, per consegnare un'immagine meno stereotipata del mondo a cui mi sto accostando. Sono conscia che l'obiettività è impossibile: sono io a selezionare cosa narrare, cosa ritengo significativo; però vorrei aprire uno spiraglio di discussione e non dettare sentenze.
Dunque racconterò una storia che forse potrebbe essere considerata “poco africana”, ma che si è svolta in questo continente..siamo un venerdì sera ad Addis Abeba. Questa come tutte le grandi metropoli africane è una realtà stridente, in cui noi espatriati possiamo concederci lussi che in patria ci sembrerebbero impensabili e, al contempo, siamo sempre affiancati da esistenze condotte in povertà estrema.
Siamo tre servizio civiliste (Carola, Marta e Benedetta) che, dopo aver sorseggiato dell'ottimo tej (liquore al miele) in un locale caratteristico in cui si svolgono danze tipiche con musica dal vivo -un'esibizione strabiliante-, decidiamo di assaporare la vita notturna della capitale. Così, ci dirigiamo verso un locale dove ci sta aspettando una ragazza etiope che conosciamo: Ornella. Lei ci accoglie evidentemente ubriaca ma con un perfetto italiano. É una ragazza minuta con una bella carnagione olivastra, lavora in un'agenzia italiana di adozioni e balla scomposta al centro della pista. Noi ci sentiamo perfettamente a nostro agio, il locale è simile a molti altri che potremmo aver visitato in Italia, balliamo tutte insieme, divertite. Purtroppo il tasso alcolico di Ornella ha qualche effetto nefasto: lei si getta su ogni farenji (temine amarico per designare i bianchi) che avvista nel locale. I farenji che cerca di adescare ci chiedono di intervenire, di portarla a casa, il barista si rifiuta di venderle alcolici e lei si infuria.
Dopo un po' riusciamo a convincerla a tornare a casa, lei chiede un passaggio ad alcuni ragazzi francesi ma, evidentemente, le viene rifiutato. Allora cerca di chiamare tutti i tassisti di cui ha il numero minacciandoli di morte nel caso non rispondano. È in evidente difficoltà, barcolla, dimentica la borsa, fa cadere il cellulare, il buttafuori tenta di aiutarla ma lei lo insulta in Italiano. Tratta tutti gli etiopi con disprezzo e sufficienza.
Finalmente riusciamo a convincerla a salire su di un taxi che si è fermato per noi. Contrattiamo il prezzo della corsa e la accompagniamo a casa, ma durante il percorso lei cambia idea: deve raggiungere la casa di un suo amico. Prende il portafoglio pieno di dollari, euro e birr, lo mostra al taxista parlandogli in italiano e apostrofandolo “ciccio”; così contratta in amarico una nuova destinazione promettendo 80 birr. Noi assistiamo inerti alla scena, sia perché il nostro amarico non ci permettere di dissuadere il tassista, sia perché sventolare banconote ha un effetto persuasivo maggiore di qualsiasi discorso.
Arrivati alla nuova meta evidentemente qualcosa la disturba, inizia ad insultare il tassista, si rifiuta di pagarlo, gli sputa. Lei scende dal taxi ma il ragazzo la segue per avere il suo compenso, benché cerchiamo di tranquillizzarla aggredisce chiunque. La scena che ci si ritrae davanti è ripugnante, Ornella cerca di picchiare il taxista, le persone che vivono per strada si avvicinano per capire la ragione di tanto trambusto, lei, infine se ne va con un'altra macchina...tutto ci appare così assurdo. Noi ce ne torniamo a casa accompagnate dallo sventurato conducente, non riusciamo a capire le cause di tanta aggressività.
La mattina seguente guardandomi allo specchio ho l'impressione di capire da dove derivi tanto odio. Ornella ha avi italiani, ha studiato in scuole italiane, lavora a contatto con italiani, subisce costantemente la terribile fascinazione dell'occidente e forse non sogna altro che vivere altrove e non sopporta il destino che le ha assegnato una vita in Etiopia. È amaro constatare come qui il colonialismo economico e quello culturale siano tanto pressanti da lacerare così a fondo le esistenze.
Per me, che ho scelto di passare un anno qui, è un infinito sollievo sapere di collaborare con il CVM, che ha scelto una via lunga e faticosa ma equa; un'associazione che -come ci ricorda sempre Marian- lavora “con” e non “per” i poveri e gli ultimi, nella convinzione che l'autosviluppo sia un diritto universale Se uno sviluppo giusto è possibile, non può che darsi nella condivisione e nel rispetto delle nostre identità e delle nostre differenze, soltanto con questo sereno dialogo possiamo crescere tutti e molto.
Benedetta Sercecchi
(Volontaria CVM in Servizio Civile, Etiopia)
(Volontaria CVM in Servizio Civile, Etiopia)
1 commento:
e sti cazzi
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