giovedì 7 aprile 2011

L’ETIOPIA… DAL FINESTRINO


Il viaggio ha avuto nel corso della storia dell’umanità innumerevoli significati. Anche oggi, esso viene vissuto ed interpretato dalle persone in modi completamente diversi .
Da tempo il viaggiare è un modo di mutare, un metodo per cambiare la propria posizione sociale, sfuggire alla giustizia del proprio paese per reati commessi o più semplicemente trovare un lavoro per sfamare se stessi e la propria famiglia. Si può viaggiare anche oggi per fuga, alla ricerca di una propria libertà interiore, spinti dalla reazione a convenzioni sociali o da filosofie consolatorie.

Si può viaggiare per fede, come avviene nei pellegrinaggi o nelle visite ai santuari o anche per studio e ricerca. Si può viaggiare anche per raccontare, scrivere o filmare o, come avvenne all’epoca dei grandi esploratori per affascinare i lettori con storie mirabolanti delle nuove terre scoperte. Oppure lo si fa per mettersi alla prova, per sfidare la sorte, per provare l’ebbrezza del rischio.
Per me viaggiare è una passione, è quella passione che mi ha portato fino a qui, a voler conoscere nuovi Paesi, incontrare persone e culture diverse per confrontarmi con esse. Il viaggio è quindi motivo per imparare e arricchirmi scambiando le mie esperienze con quelle delle persone che incontro cercando di assorbire il più possibile della cultura locale, degli usi e dei costumi.

Anche i modi di viaggiare possono essere numerosissimi: in Etiopia per esempio puoi viaggiare in aereo, in pulman, in autobus, in auto o in minibus per le lunghe distanze, i brevi tragitti sono invece coperti con il gari (il carretto trainato da un asino) oppure a dorso di un mulo o raramente di un cavallo o ancora con i bajaj, simpatiche apecar modificate e adattate al trasporto di due o tre persone.
In Africa e in particolare in Etiopia non ha senso, però, parlare di kilometri per misurare le distanze ma piuttosto si indica appunto il mezzo di trasporto e le ore o giornate che si impiegano per raggiungere una determinata destinazione.

Il nostro viaggio etiope (come volontari in servizio civile) è iniziato ad Addis Abeba. Un percorso di un anno che ci porterà molto lontano anche nel viaggio della nostra vita.
Tra Addis Abeba e Injibara ci sono circa otto ore di macchina. Partiamo una domenica mattina all’alba, carichi di valigie, letti, materassi ma soprattutto di emozione e trepidazione. Siamo diretti verso la città o il villaggio in cui vivremo per i prossimi 10 mesi. Non stiamo nella pelle.
Alle nostre spalle lasciamo la metropoli ancora semi-addormentata ma già avvolta dai fumi e dalla nebbiolina. La macchina faticosamente arranca su Entoto e ci ritroviamo immersi tra la vegetazione. Fitta boscaglia di alberi alti e sottili ci accompagna da entrambi i lati della strada; qualche coraggioso etiope pedala affannosamente sul bordo dell’asfalto, qualcun altro più mattiniero è già sulla via del ritorno e si gode spensierato la discesa respirando a pieni polmoni gli ultimi metri di aria fresca.
Il paesaggio poi si apre e davanti a noi compare una distesa verde e dolce con qualche capanna e molto bestiame disseminato sui vasti prati che ci circondano. A mala pena riconosco la palude dove mesi fa ho trascorso un pomeriggio, all’epoca c’erano le piogge, ora la stagione secca ha modificato molto l’ambiente che ha assunto tutto un altro aspetto.
Qualche centinaio di chilometri più avanti attraversiamo Debre Libanos, famosa per il monastero e per il ponte che i portoghesi hanno costruito nel XVI secolo. Sullo sfondo si intravedono strapiombi di diversi kilometri che mozzano il fiato.
Il vero spettacolo però ci si presenta alla Gola del Nilo. Da qui pare di essere sul tetto del mondo. Questa vista mi lascia meravigliata allo stesso tempo però mi coglie un certo senso di ansia. La natura qui ti fa rendere conto di quanto piccolo e insignificante sia ciascuno di noi nell’immensità di questo nostro pianeta.

Man mano che l’auto scende giù dalla fiancata della montagna il clima si fa sempre più caldo, la strada è stretta e pericolosa, i camion la rendono ancora più difficilmente percorribile. Arrivati in fondo alla discesa ecco i ponti sul Nilo, uno, il più vecchio, è stato costruito dagli italiani, il secondo invece è stato inaugurato nel 2000 e ci accompagna dall’altro lato del Nilo Blu.
Dall’altro lato del fiume, si ricomincia faticosamente a salire. Dopo la gola il paesaggio di nuovo cambia. Ampie distese di prati verdi intervallati da macchie di boscaglia e a volte da villaggi. La strada ora si restringe ancora e a tratti diventa sterrata. Molti contadini arano i loro appezzamenti, le donne sul ciglio della strada trasportano acqua,legna o pietre, i bambini vendono frutta. Gli animali cercano ristoro sotto l’ombra di sparuti alberi che di tanto in tanto rompono la linea dell’orizzonte.

Qualche giorno più tardi mi ritrovo di nuovo in viaggio, questa volta però mi muovo con i trasporti pubblici e devo raggiungere alcuni villaggi in cui sono attivi i progetti del CVM.
Un detto africano dice che “gli africani hanno il tempo ma non hanno l’orologio”. E questo è più che mai visibile in una stazione degli autobus. La prima volta che mi è capitato di viaggiare con questi mezzi pubblici pretendevo di sapere l’orario di partenza ma sembrava che nessuno capisse, per quanto a me sembrasse semplice, la mia domanda. Solo più tardi scoprii che in Etiopia gli autobus partono quando sono pieni abbastanza. Questo va a sfatare un altro mito africano quello del “In Africa sai quando parti ma non sai quando torni”, infatti il più delle volte anche il sapere quando si partirà diventa una scommessa. Ma questo non deve spaventare. La stazione offre diversi intrattenimenti grazie alla abbondante presenza di venditori ambulanti, mendicanti e predicatori. Un pretesto qualunque poi porterà facilmente a socializzare con gli altri viaggiatori. L’accensione del motore non deve illudere però i passeggeri di una pronta partenza.
A mano a mano che il mezzo si riempie si può poi assistere a simpatici stralci della vita della popolazione locale, si viene rapiti dalle diverse tradizioni e culture di cui abiti e atteggiamenti sono impregnati.

I minibus difficilmente percorrono tragitti sulle strade sterrate, quei percorsi vengono coperti solo dagli autobus più grossi che spesso sono anche i più vecchi e malconci. Questo rende ancora più incerta la durata del viaggio.
Gli “OBAMA”, così vengono soprannominati, arrancano con fatica sulle strade raggiungendo come massima velocità i 45 km/h. Fino a qualche mese fa venivano caricati fino all’inverosimile sia a livello di numero di passeggeri sia come merci, ora il governo però ha messo un severo limite e un controllo anche a questo.
Quando finalmente si parte facendosi largo tra le tendine e i fronzoli che ricoprono i finestrini è possibile osservare dei panorami inimmaginabili. Il lento procedere dell’obama permette di osservare anche le attività della gente, dà il tempo di sbirciare dentro una porta aperta o ad una finestra senza tenda; superando un gruppo di bambini che si dirigono verso la scuola si ha la possibilità di captare qualche discorso o semplicemente di sentirli ridere. O ancora si può incrociare una mandria intera che costringe l’autista a fermarsi o il piccolo pastorello che fa attraversare le sue due magre pecorelle.
Nelle lunghe distanze si rimane affascinati dalle diverse tipologie di costruzione delle abitazioni locali, si possono vedere tukul, le tradizionali capanne circolari fatte di paglia e fango, oppure le più strutturate casette in legno e fango o ancora più rare sono le case in cemento.
Quello che personalmente mi affascina di più è la differente tipologia di recinzione che cambia visibilmente al passare da un gruppo di villaggi ad un altro a seconda della abbondanza o della scarsità di un determinato materiale in quella zona.
In alcune zone possono essere pali di legno, in altre siepi, in altre foglie di bambù intrecciato o ancora cactus.

Nel nord dell’Etiopia sono ancora visibili, abbandonati nei campi, i carri armati usati nella guerra civile del 1990 durante la battaglia dei Derge contro il governo , EPDRF . Nelle vicinanze di Bahir Dar sulla strada per Adet invece numerose sono le cave e impressionante la quantità di donne che vi lavorano trasportando le pietre prima e la ghiaia dopo il processo di triturazione.
Si può decidere di viaggiare con le tende chiuse per ripararsi dal sole cocente e dalla polvere facilmente viene alzata dagli altri mezzi. In questo modo si è al sicuro, protetti dal pericolo, incolumi dalla contaminazione e integri. Ma in questo modo sarà difficile capire cosa è l’Africa, chi sono i popoli che si incontrano, si rimane soli con se stessi, chiusi in se stessi. Io ho deciso di aprire quella tendina.
Lungo la strada o nei villaggi altri passeggeri attendono l’arrivo dell’autobus. Persone di differente estrazione sociale, culturale e religiosa, con diversi tipi di bagagli, di esigenze e di motivazioni. I punti di partenza sono diversi, le destinazioni anche. In comune c’è il bisogno di viaggiare.

Marta Bonalumi
(Volontaria CVM in Servizio Civile, Etiopia)

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