venerdì 10 giugno 2011

" Noi plasmiamo il nostro paesaggio ed esso a sua volta ci plasma i tratti del volto"


La terra d'Etiopia è una terra nuda, non è stata ricoperta di cemento ed asfalto, è libera di manifestarsi ed è calpestata da abitanti altrettanto nudi. Ci sono capanne di fango e paglia, recinzioni di bambù, donne chine sotto enormi pesi, bambini scalzi che percorrono chilometri trasportando fascine di legna. Nei campi ci sono piccole greggi e mandrie sparute sorvegliate da giovani pastorelli distesi sui prati. E i loro sguardi sono sereni nonostante la costante fatica, la necessità di scavare la terra, il tribolare dei corpi non incupisce i loro visi. Si percorrono kilometri per raccogliere l'acqua e, poi, si torna indietro con la giara piena sulla schiena, si raccoglie la legna e si accende il fuoco all'aperto per cucinare, le capanne sono costruite dai loro abitanti, ed ognuno provvede come può ai propri bisogni essenziali. C'è serenità in questo modo di sopravvivere e il ritmo per quanto sfinisca le membra non sembra appesantire gli animi.
Si possono percorrere ore ed ore di tragitto lungo le strade etiopi, ammirando gli innumerevoli e differenti paesaggi: boschi, prati, montagne, laghi; si assiste al cambio di colore e di consistenza del terreno dal bruno al rossastro, dall'argilla alla sabbia, dal terreno arido e roccioso si passa ad un rigoglioso verde; ma, ovunque, le persone sanno beneficiare e apprezzare la propria terra, la lavorano e la abitano con una sorta di venerazione, instaurando un rapporto di gratitudine e confidenza.
Al contempo, la terra, se la si osserva attentamente, racconta le storie silenziose dei suoi abitanti, per solidarietà verso la sua gente, la terra muta non lascia che nessuno dimentichi le esistenza fatte di tanta tribolazione che la percorrono in ogni tempo. Non è una terra impersonale come i quartieri in cui noi ci rifugiamo per abitare, mentre la percorri, lei narra le sue storie ed i suoi ricordi, e lentamente ti mostra i suoi tratti. Non mi ero mai commossa osservando un paesaggio nudo, ma, qui, ho dovuto farlo.
Sembra quasi che uomo ed ambiente siano un continuum inscindibile, come se le energie e le sofferenze dell'uno scorrano anche nell'altro, c'è un reciproco narrarsi, un reciproco essere modellati, così i visi di queste persone sono sereni e perfettamente in sintonia con il mondo che abitano.
Tutto ciò è talmente differente dal nostro modo alienato di rispondere alla necessità, la nostra civiltà ha rotto i legami con la natura. Meccanizzando la produzione abbiamo perso lentamente, ma inesorabilmente, il contatto con la temporalità naturale, così da sentirci onnipotenti e non saper più rapportarci alla sofferenza, alla malattia o alla semplice fatica.
Qui è impossibile dimenticare questo legame: la luce se ne va, l'acqua bisogna raccoglierla e farne un uso parsimonioso e le violente piogge impediscono gli spostamenti.
Ogni essere vivente pianta, insetto o uomo vive un ciclo di nascita, crescita e morte. Ricordare questa ciclicità è un atto di fedeltà verso se stessi, verso la propria temporalità finita. Riconoscere di essere esposti alla natura significa decidere di dialogarci, di non deturparla ma trattarla come una compagna. Mentre la volontà di controllo che caratterizza la nostra relazione con l'ambiente, oltre ad essere una violenza eterodiretta, è una costrizione che esercitiamo contro noi stessi. Infatti, ragionando in termini di sfruttamento del terreno, dimentichiamo il nostro essere fatti di carne e la nostra dipendenza dalla materia, così violiamo noi stessi, ci imponiamo ritmi che non ci sono propri, ricopriamo tutto d'asfalto per rispondere ad esigenze artificiali ed artefatte, modelliamo il nostro pensiero in modo da relazionarsi ad un'esistenza piena di obiettivi raggiunti in poco tempo. Ma cosa n'è della nostra naturale fragilità, del tempo lungo della comprensione e delle scelte? Qualcosa dentro di noi va in tilt, ogni volta, che il nostro corpo o i naturali imprevisti determinano di rallentare il passo. Questo diktat del fare, che è il progenitore di quello dell'accumulo, ci permette di comprendere veramente noi stessi e ciò che abbiamo intorno? O forse, semplicemente, ci getta in un turbine di esigenze e frustrazioni che non ci permette di ascoltare null'altro? In tal modo siamo portati a identificare i problemi o i disagi che incontriamo con oggetti esterni, come qualcosa che ci sbarra la strada, e, mai, con il nostro modo di relazionarci a questi eventi. Abbiamo, innegabilmente, abortito una parte di noi stessi, sepolta sotto quintali di cemento giace la nostra umanità, ciò che ne ha preso il posto è un'identità fordista con il suo frastuono che ci impedisce di ascoltare tutto ciò che abbia una melodia differente. Le nostre orecchie sono assillate da questa ritmica funzionalista ed immaginarci altro ci è totalmente impossibile; forse è per questo che quello che scrivo mi sembra sfiorare l'utopico, sicuramente inconcepibile, se non fossi qui.
Ma sono qui, e ciò che mi spinge a scrivere è la semplice testimonianza dei volti di questa gente, i nostri sguardi sono scontrosi e tesi, mentre qui ci si rallegra di incontrarsi e si sorride percorrendo interminabili tragitti con sacchi di cereali sulle spalle. Ogni volto nei suoi tratti esprime una sorta di gratitudine verso la terra che non è così ostile da non lasciarlo sopravvivere, ed ogni volto esprime anche l'accettazione di sé, l'essere lì, con se stesso, senza alienazione.

Benedetta Sercecchi (Volontaria CVM in Etiopia)

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