lunedì 19 settembre 2011

Networks of Housemaids and Sex Workers Associations

Following the decision made on the Regional Workshop of Women, Children and Youth Affair Departments and Women Associations on June 20/2011, the Amhara Regional Bureau of Women, Children and Youth Affair (BWCYA) in collaboration with CVM regional Project has started working to establish regional, zonal and Woreda networks both for housemaids and sex workers associations, organizing a team. The team has planned to establish the regional networks in two months, and start establishing zonal and Woreda once respectively. It has also planned to establish new association in the areas where there is no.

The establishment is aimed to build the capacity of the associations through strong partnership, coordination and networking. As a first step, the team has given orientation for the 6 zones housemaids and sex workers associations’ representatives who were attending the 7 day Leadership and Management Training organized by CVM in collaboration with BWCYA, to improve their understanding on the importance and procedures of network establishment.
In the orentation program, Ato Awoke, the leader of the team, said the main mandate of the BWCYA was facilitating such kind of women structures which is an important base for the straggle against women and girls problem. Therefore, he said “we are happy to strength your association establishing networks at different level and providing all necessary supports.”

Of many questions raised on the orentation program, the role of BWCYA and its respective departments in the establishment process was the most pertinent.  Regarding this, Ato Awo-
ke explained that the team togther with Zone and Woreda departments would be involved in
every process of the establishment. Following this, the associations’ representatives
exchanged their address with the team for future collaboration.

In order to prepare all necessary documents and manuals for the networks, the team has started collecting data regarding the associations. In line with this,  CVM Regional Ofice has been requested to bring the administration manuals of the associations found in West Amhara.


Betre Yacob
(CVM Regional IEC Department)

lunedì 5 settembre 2011

E tu, cosa vuoi fare da grande?


Quando ero alla scuola elementare una media tra le 100 e le 250 persone tra famigliari, conoscenti e persone incontrate per poco usavano fare sempre la solita domanda: che cosa vuoi fare da grande? All’epoca si risponde che si vuole diventare archeologi, dottori, astronauti o inventori, anche se in fondo non si sa bene di cosa si stia parlando. Poi, non so per quale motivo, quando cresci questa domanda non te la fa più nessuno e diventi a tua volta quel familiare, quel conoscente o quella persona incontrata per caso che si trova a fare sempre la solita domanda. Qui a Bagamoyo, quando si chiede ad un ragazzo o ad una ragazza cosa vuole fare da grande, non sempre si ha una risposta perché è difficile pensare a quello che succederà in futuro tra i banchi di scuola. Ancora più difficile immaginarlo al di là delle mura scolastiche.


Secondo il Ministero delle Finanze e degli Affari Economici tanzaniano, il 50,3% dei bambini tra i 7 e i 14 anni sono iscritti alla scuola primaria, il 49,7% sono bambine. Solo 52,7% riesce a completare la formazione primaria. In particolare, sono prevalentemente le bambine a lasciare la scuola a causa di gravidanze precoci, matrimoni concordati, mancanza di risorse economiche o per la perdita di uno o entrambe i genitori. Di conseguenza solo il 35% delle ragazze continua la formazione secondaria. Quando studiare è un privilegio, qual è la risposta alla domanda che cosa vuoi fare da grande?
BAGEA - Bagamoyo Girls Education Association – vuole dare la possibilità alle ragazze tanzaniane di poter trovare una risposta a questa domanda. BAGEA è un’associazione che ha lo scopo di promuovere il diritto allo studio delle ragazze e i diritti delle donne attraverso programmi di supporto scolastico e lo sviluppo di reti di collaborazione con le autorità locali e altri soggetti interessati del Distretto di Bagamoyo, al fine di sviluppare strategie d’azione comuni. Legalmente registrata nel 2009, BAGEA è nata dalla volontà delle ragazze che nel 2008 hanno beneficiato del programma di sostegno scolastico promosso da CVM, in collaborazione con alcune donne delle comunità locali che volontariamente hanno deciso di costituire un comitato distrettuale a favore dell'istruzione femminile.


Il programma di sostegno
all'istruzione promosso da CVM si basa su un sistema di borse di studio-prestito per permettere alle ragazze l'accesso alla formazione tecnica post-primaria, al college oppure all’università. Dopo che le ragazze hanno trovato un’occupazione, inizia la restituzione della somma della borsa di studio-prestito a piccole rate cosi che un nuovo prestito sia disponibile per sostenere nuove ragazze. Negli ultimi 2 anni, BAGEA ha lavorato al fianco di CVM nell’implementazione di tale programma, oltre che a promuovere una serie di iniziative di sensibilizzazione rivolte ai giovani del Distretto su temi quali: salute riproduttiva, diritti delle donne, HIV/AIDS e altre malattie sessualmente trasmissibili. Oggi, 160 ragazze di età compresa tra i 15 e i 28 anni sono membri di BAGEA, esiste un comitato a livello di distretto e 5 comitati per l’educazione in 5 ward (unità provinciali) del Distretto di Bagamoyo.


Quest’anno BAGEA ha rinnovato leadership e rafforzato il proprio impegno sul territorio implementando un nuovo programma di supporto scolastico che interesserà 15 ragazze e lanciando una serie di iniziative per la raccolta fondi. La nuova leadership è giovane e motivata, pronta a fare esperienza e a far fronte al problema delle risorse non sempre sufficienti. Tutti i membri credono nell’associazione e nella missione di cui si fa promotrice, sono convinte che attraverso l’istruzione le ragazze abbiano la possibilità di costruire la propria dignità ed integrità, conquistare il diritto ad immaginare il proprio futuro e provare a realizzarlo perché, a volte, poter rispondere a domande banali come quella che cosa vuoi fare da grande significa più di quanto possa sembrare.



Daniela Biocca

(Volontaria CVM in Servizio Civile - Tanzania)

Una cartolina da... Debre Marcos


Una mamma e una figlia parlano del futuro, come in ogni paese del mondo; ma in questo paese la mamma parla a Tigisti, la figlia appena dodicenne, della possibilità di sposarsi come unica soluzione alla povertà che la circonda. Tigist si confronta al riguardo con le sue amiche a scuola che le consigliano di fuggire dal villaggio rurale in cui vive per evitare di venir sposata a un uomo adulto precludendosi la possibilità di crearsi una propria autonomia studiando e lavorando. Fuggendo magari in una grande città, le consigliano le amiche, troverebbe un lavoro, magari in un bar, e sarebbe felice. Tigist arriva in città ed effettivamente un lavoro lo trova facilmente, presso una famiglia, come donna di servizio. Le offrono un tetto sotto cui dormire e dei pasti caldi in cambio del lavoro domestico. Le sembra una buona opportunità. Ben presto però Tigist si accorge di non avere per le mani quello che si aspettava, gli orari di lavoro sono prolungati, i riposi inesistenti, il carico di lavoro smisurato. La padrona di casa inizia a mal trattarla e il figlio maggiore abusa più volte di lei. Un giorno, esausta per la situazione che sopporta quotidianamente, decide di abbandonare l’abitazione in cui lavora e di fare ritorno al suo villaggio, a casa sua. La gravidanza indesiderata e frutto di un abuso è un tabù che non può affrontare in casa quindi, sempre sotto consiglio delle amiche, si reca da un wogesha ossia il “medico” del villaggio che le da un infuso di erbe locali da bere per perdere il bambino che porta in grembo. La bambina-madre fa quindi ritorno a casa e dopo aver salutato la famiglia si chiude in una stanza per assumere la medicina preparatale dallo stregone. Dalla stanza proviene un urlo, un gemito e poi più nulla. Tigist è morta, avvelenata.

Tigist in questo caso è il personaggio interpretato da Tena, una bambina della Brue Tesfa,
l’associazione di bambini orfani a Debre Marcos. I bambini dell’associazione hanno
preparato questa recita per dare il benvenuto al gruppo Teatro Verde che per due settimane
lavorerà con loro per scoprire come il teatro e l’attività creativa in generale possa aiutare nell’elaborazione dei traumi in situazioni problematiche come la vita di un bambino orfano in un paese povero come l’Etiopia. La storia di Tigist è purtroppo la storia vera di migliaia di bambine e ragazzine etiopi che per sfuggire a situazioni disagiate finiscono per vivere vere e proprie tragedie a causa di diverse ma altrettanto difficili condizioni di vita e di lavoro. Tigist non è quindi un personaggio frutto della fantasia di un “regista” ma è la pura realtà che questi bambini si trovano davanti agli occhi ogni giorno. La tranquillità, la naturalezza e la serenità con cui i bambini recitano questa trama mi lascia intuire quanto questa storia si ripeta quotidianamente nelle loro piccole vite; le loro risate davanti allo stupro e alla morte della ragazza si potrebbero giustificare con scuse come superficialità o incomprensione dovuta alla tenera età degli spettatori, o forse dovrei dire che sarebbe bello poterle spiegare così. La realtà purtroppo è diversa. La realtà è che ridono di fronte a queste scene per sdrammatizzare la sofferenza che portano dentro di loro. Ridono per poter affrontare l’oggi e arrivare al domani. Ridono e mettono le loro vite in una rappresentazione teatrale per esternarle, per affrontare e poi provare a rielaborare tabù e realtà che sono insite nelle loro vite.

Il lavoro del gruppo di teatro comincia. I bambini pian piano entrano in sintonia e in relazione con i nuovi arrivati che parlano una lingua strana (“se magna”?), hanno la pelle bianca (con numerosi puntini rossi … a causa delle pulci) e fanno cose strane come urlare, camminare sulle mani o tenere un legnetto sul naso alla cui sommità gira un piattino colorato. L’amarico e l’italiano si mescolano con un pizzico di inglese (q.b.) fino a ottenere un variopinto vocabolario di
neologismi che solo chi frequenta questo gruppo variegato può veramente capire. Fin da subito si fanno protagonisti i bambini dei quali risaltano i particolari caratteri che verranno poi associati con i personaggi da interpretare. Alla fine delle due settimane Negus sarà un perfetto Hansel e Desta sarà Gretel. Nasanet e Abaynesh interpreteranno la doppia natura della strega. Negus sulla scena sarà un bambino abbandonato come lo è nella vita. Ma nella vita vera lui una sorella non ce l’ha. Ha solo una povera e anziana nonna che lo ha accolto quando la madre è morta di AIDS e il padre, militare, è andato via senza più dare sue notizie. La nonna vive vendendo semi bolliti vicino al mercato. Negus si occupa di tutto in casa, pulisce, lava, raccoglie la legna e aiuta la nonna cucinando quel poco cibo che quotidianamente possono consumare. Negus ha 12 anni ma a vederlo sembra averne massimo 7. Quando con Ennio andiamo a visitare la sua casa per fare alcune riprese la nonna ci racconta di come, nonostante i vicini le consigliassero di abbandonare sulla strada quel bambino che crescendo malato e irregolare nel suo sviluppo le toglieva solo le ben poche risorse, con enormi sacrifici e con l’aiuto di
altrettante buone persone sia riuscita a farlo sopravvivere e guarire. Negus sarà il protagonista sulla scena del teatro ma la nonna non potrà assistere allo spettacolo altrimenti quella sera cosa mangeranno lei e Negus?

Una altra ragazzina della Brue Tesfa non avrà parenti alcuni a vederla muovere le braccia come foglie mosse dal vento nel bosco di Hansel & Gretel. Si chiama Zahara, ha 19 anni ma è ancora minuta. Ha la pelle rovinata, gli occhi doloranti ma cerca di sempre di nascondere la sofferenza dietro un flebile sorriso. Vive da sola in una stanzetta in affitto sul retro di una casa nel sobborgo di Debre Marcos. Nella sua stanza, appese alla parete, si scontrano versi di preghiere, foto di coppie innamorate e frasi malinconiche con una marcata ridondanza sulla relazione madre e figlia. Non c’è speranza in quella stanza, nemmeno una briciola. Zahara ha visto morire la mamma e sa anche di avere la sua stessa malattia. Conosce bene quello che l’aspetta ed è convinta anche che non c’è posto per la speranza. Va a scuola, cerca con tutte le sue forze di costruirsi il suo domani, prende le medicine e ringrazia tutti quelli che credono e vogliono credere nel suo futuro, ma la stanza dice anche quello che lei non ci dice. Lei vuole guardare avanti e vuole imparare a sperare ma quando troppo spesso il passato, come una spina
di un rovo quando si passeggia nel bosco, le prende un lembo del vestito e tira in direzione contraria, e tira tanto forte che ogni volta le strappa un pezzettino di quel bel vestito a fiore e toppe.

Ogni tanto, durante le prove, compare un ragazzetto basso e magro con degli occhialetti calati sul naso e una bicicletta sempre con se. È Tesfaye, ha 21 anni e studia infermieristica all’ospedale di Debre Marcos. Anche lui è un membro della Brue Tesfa. Si preoccupa che tutto vada bene, essendo uno dei più grandi tra gli orfani della associazione si sente un fratello maggiore e si comporta di conseguenza supervisionando i piccoli. Tesfaye ha perso la mamma quando era poco bambino, non si ricorda molto; di lei sa quello che gli hanno raccontato vicini e parenti. Pare
sia morta per liberare la sua famiglia da una profezia predetta da un wogesha secondo la quale con la sua morte avrebbe salvato 7 generazioni da lei discendenti. Per amore della famiglia la donna si sarebbe quindi suicidata lasciando i figli orfani di madre. Lasciando aperta una porta su altre possibili interpretazioni (come malattie talmente tabù da preferire un suicidio alla verità) rimango comunque esterrefatta dalla crudeltà subita dalla donna.
Arriva il giorno dello spettacolo finale, i bambini, chi più e chi meno, hanno lavorato arduamente per due settimane ininterrotte alla preparazione di un Hansel & Gretel rivisitato e riadattato. Nella versione etiopica i due fratellini vengono presi in trappola dalla
strega non attratti da una casetta di marzapane e cioccolato bensì da olio, carne e zucchero, beni di primissima necessità altamente desiderabili e desiderati dalla popolazione a causa di indisponibilità sul mercato. Lo spettacolo è poi stato arricchito con intermezzi di
giocoleria e di teatro comico per dare spazio a tutti le diverse abilità personali dei piccoli attori.

All’esibizione accorre un vastissimo e caloroso pubblico attirato al teatro dalla musica e dalle esibizioni di giocoleria per la strada. Nonostante lo spettacolo sia di bambini per bambini, oltre a un elevato numero di orfanelli di strada tra il pubblico si trovano altrettanti adulti, uomini e donne. Tra questi riconosco due ragazze. Le abbiamo intervistate qualche giorno prima e lavorano in un bar. Una di loro è la presidentessa dell’associazione di ragazze che lavorano nei bar creata con l’aiuto del progetto CVM. Queste ragazze hanno una storia simile a quella di Tigist, spesso infatti fuggono dai loro villaggi per cercare una alternativa alla povertà che le circonda sperando di trovar fortuna nelle grandi città. Una volta arrivate nei centri urbani finiscono nella rete dei broker e vengono sfruttate con condizioni disumane o come domestiche o come prostitute. La quasi totalità delle volte che una ragazzina (la maggior parte sono tra i 12 anni e i 25) viene ingaggiata come cameriera in un bar lavora senza una retribuzione e con la sola promessa di un letto in cui dormire e il vitto da pagare a parte. L’unica retribuzione che ottengono, una volta dedotta la percentuale dovuta al proprietario del bar, è quella derivante dalla vendita del loro corpo. Quando accettano questo lavoro, per il quale non hanno molta alternativa, mettono in serio pericolo la loro stessa vita; la maggior parte di loro di fronte al cliente non ha alcun diritto, molte volte rischiano di non essere nemmeno pagate o di non aver la possibilità di proteggersi dalle malattie attraverso l’uso del preservativo. Parlando con alcune di loro sono rimasta colpita e anche sinceramente piuttosto amareggiata dalle loro visioni, dalle loro speranze per il futuro; Meseret infatti mi racconta che essendo la povertà molto diffusa anche la prostituzione risente di un calo di mercato e che, per questo motivo, spera di riuscire ad andare a lavorare in un bar più grande dove i guadagni per le sue prestazioni sono maggiormente retribuiti. Quando siamo andati a trovarle nel bar dove lavorano per renderci meglio conto della realtà in cui lavorano e vivono siamo rimasti colpiti dai tratti
somatici della bambina che una di queste ragazze-cameriere-prostitute portava legata dietro la
schiena: la piccola ha i lineamenti marcatamente cinesi.


Marta Bonalumi
(Volontaria CVM in Servizio Civile - Etiopia)

Il lavoro in fattoria



Camminando per Ayeho, una kebele in Awi Zone, sembra di rivivere una novella verghiana. E' roba di Al-Amoudi, è tutta roba sua..dello sceicco Al-Amoudi, l'uomo più ricco d'Etiopia e il 63° uomo più ricco al mondo come dichiarato dalla rivista americana Forbes. Ad Ayeho ha comprato tutto il territorio disponibile ed, ora, ospita nella sua tenuta una scuola, degli uffici di amministrazione municipale, una stazione di polizia e un'immensa fattoria, coltivata con mais, girasole, banane, mango, arance.

Ayeho è una kebele di 65,68 kmq, dieci anni fa è stata acquistata e trasformata in una fattoria "Ayeho Agricultural Development Organization", proprietà del suddetto Al-Amoudi. La fattoria è molto vasta, percorrendo la strada sterrata che vi si inoltra, dopo un quarto d'ora di tragitto in macchina, ci si trova davanti un cancello che blocca la strada, ma il passaggio è lasciato aperto poiché la sbarra è alzata abbastanza da permettere il transito. Subito dopo inizia il villaggio di Ayeho, appaiono case e minuscoli negozi, tra i campi, sui bordi della strada e vi si trovano anche gli uffici dell'amministrazione municipale, la polizia, la scuola, quelle piccole istituzione che dovrebbero servire la comunità...eppure è strano trovarle all'interno di quel marchio di proprietà posto dalla sbarra.

Gli abitanti sono 7880 (di cui 4175 donne), vivono in case di terra e legno poiché è proibito edificare costruzioni in cemento in quella proprietà, agli abitanti, che sono quasi esclusivamente lavoratori della fattoria, è anche proibito allevare animali poiché non è concesso loro di sfruttare in alcun modo il territorio in cui risiedono. Inoltre molti di questi lavoratori provengono da altre zone, non hanno quindi un tessuto sociale che possa sostenerli in caso di bisogno, tutto ciò rende le condizioni di vita estremamente precarie, una donna si esprime così: "noi stiamo lavorando qui soltanto perché non abbiamo altro di che sopravvivere, non c'è altro".

Eppure qui manca la voce narrante siciliana che dipinge con sincera pietà le ingiustizie e le tribolazioni di chi quella roba non l’ha, ma la lavora...In Etiopia lo sceicco è noto come filantropo e benefattore del suo Paese benché, nella sua fattoria ad Ayeho, i lavoratori sono assunti per contratti trimestrali con paghe giornaliere che vanno dai 12 ai 15 birr lordi (circa 50 centesimi di euro) a secondo delle differenti mansioni per cui si è assunti: segretarie, manovali, coltivatori, personale per le pulizie, etc..


I lavoratori possono essere assunti con due tipi di contratto: assunzione a tempo parziale o permanente. La prima forma di contratto è rinnovata trimestralmente ed espone i lavoratori ad una continua precarietà. Spesso i contratti sono rinnovati consecutivamente, anche per diversi anni di fila, così lo sceicco si assicura di potersi liberare di dipendenti inutili in modo celere (in Etiopia le leggi per il licenziamento sono al quanto rigide) e di conservare a costi minimi solo il personale più efficiente. La condizione di questi lavoratori è terribile, la maggior parte di loro è donna, per cui oltre al lavoro nei campi assolve tutti quegli oberi domestici che le comportano ulteriori fatiche.

L'Etiopia ha ratificato la convenzione di ILO (International Labour Organization) per cui, per legge, l'orario lavorativo giornaliero non può superare le 8h con almeno un giorno di riposo settimanale ed ai lavoratori deve essere garantita l'assicurazione sanitaria e la maternità. Tutto ciò è riconosciuto dalle condizioni contrattuali, ma nella realtà i manovali ed i coltivatori assunti qui lavorano 11h al giorno, senza pausa per il pranzo, le donne hanno riferito che non è concesso loro neppure di fermarsi per bere, questo è un privilegio maschile. Inoltre, benché le condizioni salariali siano definite a giornata, il personale che lavora meno di 20 giorni al mese non riceve alcun retribuzione mensile.

Per ovviare alla possibilità di dover pagare la maternità alle sue dipendenti lo sceicco fa eseguire un test di gravidanza pre-assunzione, ed infine, benché tutti contribuiscano alla copertura assicurativa sanitaria, pare che ne riescano a beneficiare solo i lavoratori permanenti o quelli con buoni contatti con la direzione.

Inoltre, una parte dello stipendio è in natura, mensilmente vengono elargiti 50kg di mais di seconda qualità ad ogni lavoratore come equivalente di 68 birr di salario. Ogni anno, durante il raccolto del mais, quello di scarto viene immagazzinato e lentamente sarà smistato al personale. In questo modo, il filantropo si assicura un congruo profitto da mais di cattiva qualità che avrebbe fatto fatica a vendere, ricavandone 68birr mensilmente da ogni lavoratore, senza sostenere alcun costo di trasporto.


Il CVM sta svolgendo un training sui diritti del lavoro e della donna e la prevenzione dell'HIV/AIDS per venti lavoratrici a giornata di questa zona. Il training si indirizza specificatamente alle donne perché normalmente vengono sottopagate rispetto agli uomini in questo genere di mansioni.

In questo caso, l'esistenza di un contratto previene queste lavoratrici da tale rischio, ma le donne ci raccontano che ciò avviene lo stesso, per vie trasversali, gli uomini ricevono mensilmente dei bonus (ad esempio: una borsa di vestiti nuovi) che non viene loro distribuita. Esse aggiungono che tutti i lavoratori a giornata sono sottoposti al controllo di "cabò" (devo dire che il termine mi impaurisce), ogni cabò è responsabile di supervisionare 150 braccianti circa, li sprona al lavoro, li rimprovera e segnala il loro andamento. Solo gli uomini possono essere cabò, a volte, abusano delle donne, e loro non hanno parola, accade senza che nessuno lo denunci.

Questa zona è piena di boschetti, di campi di alti girasoli e mais, qui, di sera è facile nascondersi, molti sono gli stupri commessi all'imbrunire. Le donne non possono aggirarsi sole dopo il tramonto, ma le distanze da compiere per raggiungere la propria casa dopo il lavoro sono ampie e capita di attardarsi troppo, gli uomini approfittano di ciò anche perché la polizia non è attiva nel bloccare questo genere di reati. Le donne non possono vivere sole, per questo i matrimoni precoci sono frequenti.

Ma nessuno sembra interessarsi a questa moltitudine di ingiustizie e violenze, dopotutto è la fattoria di un filantropo, gli uffici amministrativi non hanno quasi nessun dato sulla reale situazione della kebele e sembrano dirigersi qui solo per la distribuzione di pesticidi anti-malarici.

Una di queste donne ci dice "noi siamo senza voce, nessuno ci pone attenzione", ora lo staff del CVM sta preparando degli incontri con gli uffici di woreda e di zona per tentare un coordinamento.

Penso a quei 50 kg di mais di scarto che i lavoratori si devono portare a casa ogni mese e ci vedo qualcosa di molto perverso, ci vedo la negazione di ciò che dovrebbe essere. Un'alternativa sincera sarebbe la produzione per se stessi, l'autogestione, la formazione di cooperative di agricoltori e l'espropriazione almeno di parte del territorio. Si dovrebbe tentare la gestione diretta della terra che si abita per rispondere alla precarietà a cui la povertà espone.. il governo avrebbe anche il potere di farlo, ma, la "Ayeho Agricultural Development Organization" appartiene ad un Tal dei Tali.



Benedetta Sercecchi

(Volontaria CVM in Servizio Civile - Etiopia)

venerdì 2 settembre 2011

“No Better Witnesses than Your Own Eyes”

It was Monday early in the morning; I was walking to my ofice facing the challenging cold and rainy weather, to be there early. Suddenly, I saw an old man walking very fast pulling a child. He was almost covered with old traditional shawl the so called Gabie in Amhara Region where as the child was dressed a very old pant and a torned out t-shirt which can’t save from the cold.

The child was in a big challenge to walk the same to the old man due to the sharp stones which covered the street and suffered him scratching his unshoed foot. After walking a while, the old man started pulling the child more seriously and being negligees. At this time, I couldn’t look being silent, so, I called the old man to stop and talk to me in dealing about the child.
When I got close to them, “I am bringing him to the hospital…for HIV/AIDS…treatment as well as to collect ... ART medicine as usual”, the old man said. When I saw the child’s eyes, I shook. The child was blind: his right eye was not in place where as the left one was extremely injured due to chronicle infection.

While trying to control my feeling, I said to the old man: “what happened to his eyes?” Pointing at the right blind eye of the child, the old man said: “It was very injured, so that a doctor found in Bahir Dar Felege Hiwote Hospital has removed it to stop the progression of the infection to his brain. I don’t know why, the other one is also become like this - very sick, this is why we are going to the hospital early in the morning”. He continued explaining what happened to the child with some introduction, “his name is Tesema; he is the son of my brother. He got HIV from his parents…they died of HIV/AIDS”.
When I realized that they were fully wet due to the rain, “where are you coming from?”, I said. “We are coming on foot from a rural area which is about 25KM far from the city - Bahir Dar, the old man said.” “What !” I said emotionally, because it is risky to travel this much distance for the child like Tesema suffering from serious chronicle infection.

“We often come to the hospital on foot travelling for more than 3 hours”, the old man said again to make me sure of what he has said. Tesema was very late to come to the hospital; he had to get opportunistic infection treatment before. I disappointed with the way the old man handle Tesema, but I couldn’t complain him, because I know very well both the economical and awareness problem of Ethiopians.
I breathed in depth and started looking at Tesema, who was almost naked. After a while, “have you tried to get support from GOs or NGOs?” I said. “I only received 3,000 birr from…” the old man said and started straggling to remember the name of the organization which has provided the money. Instead of waiting until he recover the name in his old mind, I continued asking: “What
have you used the money for, why didn’t you buy shoes and clothes for Tesema?”

The old man laughed, but ironically, may be in the sense to say you don’t know my problem. Then being silent for a while looking at the ground, he said: “I used for daily subsidise. It helped me to buy different commodities”. He continued explaining why he didn’t buy shoes for Tesema: “shoe is not common in rural areas; even all of my children don’t have shoes. And also I am very poor farmer, there are a lot of things which should be prioritized in my family instead of shoes and
clothe.”
“What kind of food are you providing him” I said to the old man although I understood what he would say. “Nothing special I give him, I provide him with the food that is accessible at home, commonly Shiro with Enger, he said”.

I started imagining the life of Tesema, and I found it more than painful. HIV/AIDS made him lost a lot: beyond losing both his parents, he received HIV from them and loses both his eyes due to chronicle infection. He was also suffering due lack of good care and support. What happened to Tesema forced me to look behind the positive results of the HIV/AIDS prevention and controlee program. I started pointing out the gaps of the programme in the case of Tesema. First, I said to myself, it couldn’t address his parents with effective HIV/AIDS prevention education, as a result he lose his parents with HIV/AIDS. Second, it couldn’t provide his parents with PMTCT service, as a result he contacted HIV. Third, even it couldn’t provide him with proper care and support with opportunistic infection treatment, as a result he lose his both eyes, and was in torturing life.

I couldn’t stop myself from its internal dialogue, rather a question came to my mind for endless discourse - how is the life of other children living with HIV? Because, what happened to Tesema had a basic message regarding others.
While I was in this situation, the slow sound of the old man brought me out of my question. “We have to go” he said. I don’t know why but I scared, may be due to my inability to do something better for Tesema than just giving advice for his ‘care giver’ on how to handle him. After shaking my hand with his both hands, and offering me thanks, the old man started moving forward, the child also continued walking over the sharp stones.

Story by - Haileyesuse Tsehay
Written by - Betre Yacob
CVM Amhara Regional Project IEC Department

AIDS: mare non più in tempesta per i pescatori tanzaniani

“Questo corso di formazione è stato molto importante per noi e le nostre comunità perché ora saremo in grado di diffondere informazioni esatte sul tema dell’HIV e dei diritti di genere”. Machano Khatibu, 49 anni, pescatore

“Il corso di formazione ci darà la possibilità di proteggere la nostra generazione e le prossime dall’ulteriore diffusione del virus dell’HIV e l’opportunità in futuro di affrontare e superare da soli la vulnerabilità delle nostre comunità alla diffusione dell’epidemia”. Idd Hassan, 25 anni, venditore di patatine fritte e Marian Mohamed, 22 anni, disoccupata.

Le parole di Machano, Idd e Marian sono colme di entusiasmo e fiducia nella possibilità di un cambiamento futuro, entusiasmo che essi hanno manifestato alla conclusione del corso di formazione svoltosi dal 2 al 5 Agosto a favore di donne e uomini che vivono nelle comunità di pescatori del Distretto di Bagamoyo. L’attività rientra nell’ambito dell’intervento che il CVM, in collaborazione con i partner locali, sta realizzando nelle zone costiere grazie al contributo della Regione Marche e del Comune di Torre San Patrizio (FM), con l’obiettivo di rafforzare la capacità di donne e ragazze di rispondere alla diffusione dell’epidemia dell’HIV.

È proprio l’universo femminile che in queste aree subisce maggiormente le conseguenze di estrema povertà e della mancanza di un sistema giuridico che sia in grado di proteggere i loro diritti. La vulnerabilità alla diffusione del virus HIV è una delle conseguenze più gravi.

Come afferma Marian, “le donne del mio villaggio non conoscono i loro diritti, non hanno alcun potere decisionale sia nell’ambito pubblico, sia nel contesto familiare; la violenza di genere è ancora un fenomeno molto diffuso”.

Il corso ha dato la possibilità ad 80 persone, tra cui uomini e donne di diversa età, di conoscere i rischi e le conseguenze connesse all’HIV e alle altre malattie sessualmente trasmissibili, quali sono i diritti umani e, nello specifico, quelli delle donne e dei bambini, di apprendere l’importanza dei servizi sanitari, in particolare del servizio domiciliare per le persone sieropositive, e del sostegno psicologico, morale e materiale necessario alle persone già affette dal virus per vivere la malattia in maniera positiva.

Il corso è stato inoltre l’occasione per invitare uomini e donne a discutere ed analizzare insieme i ruoli di genere all’interno della coppia e al di fuori, e l’opportunità di affrontare il tema della prevenzione all’HIV in maniera congiunta così da poter formulare strategie di azione che prevedano il diretto coinvolgimento di entrambi i generi.

La collaborazione tra uomo e donna, la condivisione dei problemi e la formulazione congiunta delle possibili soluzioni che tengano conto di entrambe le prospettive, rappresentano l’unica via di uscita verso una seria presa di coscienza del problema dell’HIV e l’affermazione graduale della parità di genere. Sicuramente costituiscono anche la via più sostenibile.


Valentina Romagnoletti

(Volontaria CVM in Servizio Civile - Tanzania)