lunedì 9 marzo 2009

Globalization makes Ethiopia... United



Ottanta lingue differenti ed innumerevoli dialetti, volti e paesaggi così dissimili da affascinare ogni volta di più, etnie diverse e religioni diverse, che convivono quasi ovunque pacificamente: insomma, un caleidoscopio culturale, naturale ed antropologico sorprendente. Questa è l'Etiopia: tanti Paesi in uno e non solo per la vastità del suo territorio. Eppure, se è vero che essa sussiste, almeno formalmente, in quanto unità, ci dovrà pur essere una caratteristica che la connoti nella sua totalità.
C'è, d'accordo, quell'istituzione che si chiama Stato, ma ad esso si affianca l'aggettivo Federale, tanto più che una delle cifre dell'attuale Governo, a quanto si dice, è proprio l'attenzione alle diverse realtà etniche (l'altra faccia della cui medaglia è la vecchia e sempre valida regola “Divide et Imperat”). C'è alle spalle, è vero, la plurimillenaria storia di imperi e regni, che però hanno visto il proprio centro di potere spostarsi, da Axum, il cui impero aveva provati contatti commerciali con quello Romano, a Gonder, splendida capitale del “Medioevo Abissino”, tralasciando la presenza di altri regni e reami ancora, che hanno visto nel tempo e in differenti zone i fasti di ricche città, sorte e poi decadute, seppure ancora esistenti; e comunque, tali gloriose ma tramontate realtà, una volta disegnate su una cartina, non corrispondono effettivamente all'attuale estensione della Nazione Etiope, che già da un po' di tempo include, fra l'altro, ampie regioni del Sud (le attuali SNNPR e Somali Region). C'è senz'altro una forte e storica presenza della Chiesa Ortodossa d'Etiopia, nei secoli custode della cultura nazionale, se così la si può definire; tuttavia, non si può chiudere gli occhi di fronte alla rilevante presenza islamica nel Paese, dove, se è vero che nel Nord (Amhara e Tigray) gli Ortodossi rappresentano circa il 65% della popolazione, man mano che si scende a sud, la moschee si fanno sempre più visibili e frequenti, il tutto senza considerare la discreta presenza di Protestanti e, in misura minore, Cattolici, comunque protagonisti di una lunga tradizione missionaria, e ancora quello che fu, in mezzo a tanto animismo pagano, il primo “insediamento” monoteistico nel Paese: l'Ebraismo, della cui tradizione molto rimane ancora oggi.
Allora, dov'è, qual'è il comune denominatore di questa Nazione? Fatico davvero a trovarlo. Probabilmente non ne so abbastanza o, magari, ho un po' esagerato nell'accentuare diversità all'interno di ambiti, nei quali si possono comunque riscontrare elementi d'unione nazionale. Mentre mi perdo dietro questi ragionamenti, i miei occhi osservano i bambini lungo le strade, nei mini-bus, accanto le abitazioni: alcuni mi fissano quasi sbigottiti, altri salutano sorridendo, altri ancora (pochi) continuano imperterriti nei loro giochi. Poi, d'un colpo, realizzo. Quasi illuminato, trovo finalmente il minimo comun denominatore che stavo cercando. Ma sì, come ho fatto a non pensarci, a non notarlo prima? Manchester United, Arsenal e Chelsea; Cristiano Ronaldo e Rooney, Fabregas e Drogba, nomi e numeri, accompagnati da stemmi e colori. Da queste parti, tutti i ragazzini, nella grande città come nel villaggio di campagna, da Nord a Sud, siano essi di etnia Oromo o Amhara, maschi e pure femmine, ricchi o poveri, belli o brutti, insomma tantissimi di loro, a prescindere dal contesto, hanno indosso le maglie delle squadre di calcio inglesi.
Qui, vanno davvero matti per la Premier League, le cui partite vengono trasmesse dalla TV di Stato e possono essere viste nei locali, nei bar e in molte case, pure nei cinema, come in quello di Bahir Dar, dove non potrai veder alcun film, ma un bel Liverpool-Chelsea, quello sì. Mi fece specie, quando, dalla finestra della mia camera ad Addis Abeba, vedevo abitazioni piuttosto misere, un insieme che alcuni non esiterebbero a definire baraccopoli; ma, per quanto misere fossero, sopra queste case raramente mancava una bella parabola, per captare le onde su cui viaggiano le prodezze degli artisti della pedata anglosassone. Ed ha un bel parlare, al riguardo, Abba Gera, giovane prete etiope, quando dal cenacolo del centro missionario lancia strali e con forza lamenta: “Per colpa del calcio, i ragazzi non ragionano più e quel che è peggio è che non studiano neanche, per stare dietro alle partite. Manchester, Arsenal, Drogba... E intanto non fanno nulla, perdono la possibilità di costruirsi un futuro, di essere utili a loro stessi e al proprio Paese. Gli dici 'Italia' e ti rispondono 'Totti'. Sanno il numero di scarpe dei loro calciatori preferiti, ma se gli chiedi di fare due conti vanno in pallone. È una droga. Così è impossibile!”. Già, talmente impossibile da essere reale.
Ma l'identità di una grande Nazione non può certo ridursi ad un frutto della “globalizzazione pallonara”. Deve per forza esserci dell'altro. Ecco cosa c'è da fare: andare in profondità, alle “radici” della cultura nazionale, essere nella “vera” Etiopia, quella delle zone rurali, dove le persone vivono ancora nelle tradizionali abitazioni di terra e legno, non comprano il cibo nei negozietti, ma se lo fanno, campando di agricoltura e pastorizia, e si muovono in groppa ad animali, al limite con dei carretti, invece che con i mezzi motorizzati, seppur vecchi e scassati. È proprio in un piccolo villaggio dell'East Gojjam, dal nome impronunciabile, che ci fermiamo, sulla strada da Bahir Dar ad Addis Abeba. Eccoci, pastorelli in giro con il bastone in mano, di cemento e asfalto neanche l'ombra, così come di uffici, bus e frutti del progresso. Mi accingo ad entrare in una di quelle casupole sopra descritte, terra, legno e poco altro; una scarna recinzione appena fuori e piccole bestie d'allevamento a piede libero. Il proprietario è un conoscente delle persone che mi accompagnano, gente abesha con cui lavoro. Finalmente passo l'uscio, sono dentro la “vera” Etiopia. Anziani signori in bianche vesti tradizionali mi salutano e tornano a sacramentare, grandi croci ortodosse al collo. Enjera nei piatti, tella nei bicchieri e sui muri immagini sacre e... E non solo. Già, perché a fare compagnia (o da contraltare, fate voi) al Salvatore e a sua madre Maria, ci sono, impeccabili divise rosse indosso, i Campioni d'Europa del Manchester United, tutti lì, ineffabili e sorridenti, mentre il Cristo soffre sulla croce. E, a guardare bene, sono molto più presenti i poster degli idoli calcistici che le icone sacre. Ci sono più immagini di Cristiano Ronaldo che del buon Gesù ed il povero Cristo quasi impallidisce, di fianco alla grande foto del campione che allarga le braccia ed apre la bocca nell'urlo liberatorio, che solitamente fa seguito ad una delle sue prodezze, “miracoli” della tecnica calcistica. Il diavolo e l'acqua santa... Pardon, i Red Devils e l'acqua santa. La sfida, in questo caso, è impari. Non c'è nulla da fare. Non c'è icona religiosa, bandiera o Selassié che tenga: il modello, il punto di riferimento per le attuali generazioni dell'Etiopia tutta è un ragazzotto portoghese, che al lavoro indossa i calzoncini corti.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

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