Alzi la testa e li vedi, a dieci, venti e forse più metri di altezza, abbarbicati senza nessuna protezione su impalcature fatte di sottili e storti bastoni, che definirle precarie e pericolose è un eufemismo; camminano su quei rami traballanti, siedono a cavalcioni su di essi sospesi nel vuoto, senza niente che garantisca un minimo di sicurezza: sono i lavoratori giornalieri impiegati nella costruzione di edifici e mura di sostentamento. Uomini e donne, anche giovanissimi, che ogni giorno si improvvisano ‘equilibristi’ e faticano in condizioni disumane al fine di guadagnarsi il necessario per sopravvivere.
La prima volta che ad Addis Abeba, appena arrivata, ho visto quelle impalcature non credevo ai miei occhi, mi sembrava impossibile che quelli fossero veramente i ponteggi e le armature usate per tirare su edifici anche di parecchi piani. Come potevano gli operai camminare lì sopra, trasportarvi materiali, costruire muri e quant’altro? Purtroppo, però, non era uno scherzo della mia vista, ma la semplice e scioccante realtà e, se nella capitale qualche struttura in ferro si vede, nei centri più piccoli c’è solo legna: sottili bastoni incastrati tra loro e tenuti insieme solo da normalissime corde fanno da supporto ai manovali nella costruzione degli edifici. Non c’è nulla che fissi veramente quel groviglio di pali storti, non ci sono teli, né reti. Quelle impalcature stanno lì per mesi, a volte anni, perché specie nelle città maggiori della regione Amhara i cantieri sorgono come funghi ma spesso restano aperti per lunghi periodi, anche in eterno, così la pioggia e la grandine hanno tutto il tempo di infradiciare il legno rendendolo ancora più pericoloso e cedevole. Su quelle trappole che svettano nel cielo salgono uomini e donne di qualsiasi età, di norma persone che non hanno trovato un’occupazione fissa e, per guadagnarsi il necessario per sopravvivere, si danno da fare come lavoratori a giornata nei cantieri. Spesso si tratta di gente molto povera, che non ha altre fonti di guadagno per sostenersi e sfamare i figli; sono operai, a volte senza esperienza, sovente provengono da aree rurali e nella maggior parte dei casi non hanno un’istruzione, spesso sono del tutto analfabeti. Tra loro compaiono però anche tantissime ragazzine, di appena 14 o 15 anni, che grazie a questo lavoro sperano di riuscire a mettere da parte i soldi necessari per completare gli studi e arrivare fino all’università. Quelle attività giornaliere permettono loro di non perdere le lezioni in quanto possono lavorare quando le scuole sono chiuse. Se agli occhi di un occidentale vedere signore e ragazze coinvolte in questo tipo di mansioni appare molto strano, qui è del tutto normale. Sono questi disperati le risorse umane del settore edile, che si tratti di opere pubbliche come private, della costruzione di palazzi o della realizzazione di mura e piazzali, la situazione non cambia e i problemi di sicurezza e la fatica restano pressoché immutati. La risistemazione e la piastrellizzazione della piazza centrale di Debre Markos nella zona Eat Gojjam della regione Amhara, avvenuta durante la mia permanenza in questa città, è stata ad esempio quasi completamente opera di donne che per otto ore al giorno trasportavano a mano i sampietrini su rozze portantine e passavano ore piegate a sistemarli in terra. Ma strade e piazze non sono i loro unici campi di impiego, come gli uomini fanno anche i ‘muratori’ per erigere case e palazzi. Così anche loro si mettono in fila, la mattina presto, nei pressi dei cantieri insieme a tutti gli altri aspiranti manovali: folti gruppi di bisognosi che sperano di essere scelti per quel giorno di lavoro e per quelli successivi. Di norma non ci sono veri contratti e non c’è modo di garantirsi un impiego per lunghi periodi. E questo è solo uno dei problemi che gli operai del settore devono affrontare.
Se la semplice vista dell’impalcatura lascia già attoniti, osservarli all’opera è scioccante e conoscere le condizioni di quell’occupazione suscita indignazione. Non si tratta di lavoro ma di sfruttamento e totale mancanza di rispetto dei diritti umani innanzitutto, e di quelli dei lavoratori in secondo luogo. Non basta, in effetti, la precarietà di ponteggi e armature, c’è molto altro che mette continuamente a rischio la loro vita. Gli operai non indossano tute, ma gli abiti che usano quotidianamente, e nel caso delle donne lunghe gonne. Secondo le prescrizioni della cultura locale la componente femminile della popolazione non dovrebbe infatti portare pantaloni, se nelle città non è più ovviamente così, per chi proviene dalla campagna, come la maggior parte di questi lavoranti, tale norma culturale è ancora ampiamente rispettata e le donne mantengono i loro abiti, totalmente inadatti, anche quando sono occupate nei cantieri. Muoversi su quelle impalcature e nel caos del cantiere, un vero ammasso di materiali di ogni tipo buttati alla rinfusa che limitano ancora di più lo spazio di azione, è già complicato e azzardato, figurarsi farlo con gonne larghe che potrebbero impigliarsi ovunque. C’è poi l’elemento imbarazzo: i colleghi che lavorano nei piani bassi possono sbirciare sotto le gonne e questo crea tensioni e timori per le manovali che mettono ancora più a rischio la loro vita tentando di tenere strette le gonne, rendendo più incerti i loro movimenti e distraendosi più facilmente. Non è inusuale che questo comporti incidenti.
Le tute quindi non ci sono, ma neanche scarponi, corde di sicurezza e tantomeno caschi o guanti. Ai piedi indossano le scarpe di tutti i giorni, chi le ha, e spesso sono calzature in plastica deformate e scadenti o modelli sportivi di pessima qualità che si sfaldano come niente. Qualsiasi tipo di mansione è svolta a mani nude, indipendentemente dal tipo di attività e dalle condizioni atmosferiche e in alcune aree il freddo, specie nella stagione estiva, è pungente. Niente protegge la testa dai materiali che possono cadere. I pericoli sono continui, gli incidenti all’ordine del giorno e i crolli frequentissimi. Pochi mesi dopo il mio arrivo in Etiopia, a Bahir Dar, capoluogo della regione Amhara nonché importante centro commerciale e turistico, un’impalcatura in legno ha ceduto e tutti gli operai che vi lavoravano, quasi un’ottantina, sono precipitati da diversi metri di altezza, venti sono morti. Una tragedia, ma non è certo l’unica. Per qualche giorno il problema delle condizioni di lavoro di questi manovali a giornata è diventato improvvisamente d’attualità, come se venisse scoperto in quel momento. Ma di fatto nulla è cambiato, qualche emittente radiofonica ne ha parlato ma senza individuare le responsabilità del governo, e in concreto tutto è rimasto come prima e le condizioni di lavoro sono sempre le stesse, precarie e disumane. Attualmente per la costruzione dello stesso edificio è stata innalzata un’altra impalcatura, simile alla precedente, anche questa senza nessun sistema di protezione e gli operi continuano ad arrampicarcisi come fossero scimmie sugli alberi, senza corde e a mani nude.
Quando gli incidenti accadono per i manovali si mette veramente male, perché spesso non godono di nessuna assicurazione e di nessun supporto economico. Come detto sopra, nella maggior parte dei casi non vengono assunti con contratti regolari e questo li esclude da qualsiasi tutela e li priva dei diritti riconosciuti per legge ad ogni lavoratore. “È un po’ che faccio il muratore nei cantieri ma non ho mai avuto un contratto, nessuno ce l’ha in questo tipo di occupazione – dichiara quasi stupito della mia domanda sui contratti Tigabu Salhe, appena sceso dal palazzo con le mani e i vesti coperti di polvere e cemento -. Non ho neanche un’assicurazione, ma queste sono le condizioni: se vuoi guadagnarti i soldi per mangiare devi accettare, altrimenti resti senza cibo”. Ho girato diversi cantieri e diverse località della regione Amhara ma le risposte son sempre le stesse: niente contratto. “Non c’è nessuno accordo scritto – dice Yeyenesh Anitenhe che dopo esser stata bocciata a scuola ha cominciato a lavorare nei cantieri – non ce l’ho mai avuto, avviene tutto oralmente, il capo mi dice per quanti giorni posso venire e io mi presento la mattina presto e lavoro”. La stessa cosa la ripete anche la sua collega, Wibalem Geremew, da poco giunta dalla campagna in città per frequentare una scuola serale e solo da tre mesi muratore nei cantieri: “Questo lavoro mi permette di seguire le lezioni quindi mi va bene, non saprei cos’altro fare. Non ho un contratto e non so cosa succederebbe in caso di infortunio. In questi pochi mesi di lavoro non mi è mai successo nulla di serio, solo graffi e ferite a mani e a braccia. Ma non so se la ditta copre i costi di un incidente, non ho chiesto, non so che si deve chiedere, su queste cose non sono informata”, precisa senza vergogna.
Perché il problema è anche questo: le quasi inesistenti conoscenze in materia di diritti dei lavoratori. Se è vero che la maggior parte sono talmente poveri da dover accettar ogni condizione pur di avere un posto e racimolare qualche soldo, è anche vero che la molti comunque non sono neanche consapevoli dell’importanza di un contratto, di un’assicurazione e di cosa gli spetta in quanto esseri umani e lavoratori. “Non ci voglio neanche pensare a cosa succederebbe in caso di incidente, perché non saprei proprio cosa fare. Cerco di prendermi cura di me stessa quando sono al cantiere e di non farmi male”, conclude Wibalem. La necessità di un lavoro e i timori di rimanerne senza spesso spinge a non chiedere neanche quando qualche nozione in più la si ha, come è accaduto a Sintayemu Getmachen: “Un paio di settimane fa sono caduta e mi son ferita ad un ginocchio. Son dovuta ad andare in clinica per farmi curare e per un po’ non ho lavorato, ma non ho chiesto il risarcimento o l’assicurazione. Il capocantiere però sa che son caduta ma non mi è venuto a dire nulla, ha fatto finta di niente”. Purtroppo la totale noncuranza dei responsabili sembra essere la norma, quando non diventa un chiaro e netto rifiuto alle richieste di aiuto. E non fa differenza che si tratti di piccoli infortuni o incidenti più gravi: “Durante il lavoro un grosso pezzo di ferro mi è piombato sul braccio e mi ha causato una grossa ferita – spiega Yonas Liates, mostrando una vistosa cicatrice sul braccio destro – ma nessuno ha pagato per me, mi sono dovuto accollare le spese delle cure: 150 birr (al cambio attuale, circa € 7,50), praticamente una settimana di lavoro. Tutto sommato mi è andata bene. Un mio conoscente tempo fa è precipitato dall’impalcatura finendo infilzato su un palo, ed è morto. La sua famiglia non ha ricevuto nessun risarcimento”. Così nel caso di infortuni il muratore si trova, in genere, a doversi caricare di tutte le spese per le cure necessarie, anche quando si tratta di costi elevati che molto spesso non è neanche in grado di coprire; non riceve nessun indennizzo e per di più, essendo ferito e magari impossibilitato a lavorare, non ha neanche uno stipendio e in velocità viene rimpiazzato nel cantiere perdendo il posto. I diritti e la persona, in generale, vengono totalmente calpestati. I datori di lavoro possono permettersi questo sconsiderato comportamento in quanto sanno benissimo che, data l’estrema povertà della maggior parte della popolazione etiope, ci sarà sempre molta gente disposta ad accettare queste condizioni disumane pur di guadagnare, ciò infonde ampia sicurezza ai proprietari e responsabili dei cantieri che sanno di poter contare su una folla di bisognosi e disperati. Anche se qualcuno dovesse ribellarsi o lasciare il posto, loro avranno sempre altri su cui contare. Ovviamente ci sono delle eccezioni, ma sono rare: “Nei cantieri governativi – aggiunge Yonas Liates – c’è un po’ più di attenzione, in alcuni casi la copertura delle spese mediche e una sorta di rimborso in caso di infortuni te lo danno, anche se non so quanto sia appropriato. Ma ci sono pochi cantieri così, nella maggior parte dei casi i lavori sono gestiti da compagnie private dove raramente tirano fuori i soldi in caso di incidente”. A quanto pare, metter mano al portafogli diventa complicato pure per pagare gli stipendi. Intanto, va detto che i salari sono molto bassi, soprattutto se si pensa alla fatica e ai rischi che i manovali si devono sobbarcare: di norma percepiscono intorno a 15 ETB al giorno (meno di 1 euro), che nei centri più grandi possono arrivare anche a 20 ma solo per gli uomini, che si accollano le mansioni più pesanti; per le donne il massimo è di 18 ETB e comunque non spesso. Non ci sono stati aumenti neanche in seguito al crollo della valuta locale, che ha visto un considerevole innalzamento del costo della vita. Queste cifre non permettono certo di condurre una vita agiata, ma giusto di sopravvivere e poter sfamare la propria famiglia. La consegna dello stipendio, poi, non sempre è puntuale e a volte neanche certa, a quanto pare: “Di solito pagano ogni due settimane o alla fine del mese, indipendentemente da quanto a lungo hai lavorato. Anche se ti hanno preso solo per due o tre giornate devi aspettare il momento degli stipendi, ma sono diverse le compagnie che rimandano sempre e alla fine non pagano”, precisa Yonas Liates. La conferma arriva anche da Yeshareg Yinager, che da diversi anni si mantiene facendo la lavoratrice a giornata: “A volte nelle compagnie private prendi accordi con un tipo che poi non si fa più vedere e quando è il momento di riscuotere i soldi che ti spettano, e torni al cantiere magari dopo che hai smesso di lavorarci, lui è scomparso e tu non sai a chi chiedere e rischi di non prendere niente”. Nonostante lo sappia lei, però, continua a fare questo mestiere: “Ci sono dei pericoli, l’incognita dello stipendio a volte ed è pure un lavoro pesante ma si trova abbastanza facilmente, i cantieri sono diversi e la richiesta di manovali alta. Io non saprei che altro lavoro fare”. “La mia famiglia è molto povera, bisogno di lavorare, ma non ho finito a studiare, che altra occupazione potrei trovare? Non voglio fare la domestica o lavorare come cameriera in un bar (che spesso implica anche vendersi come prostituta), con questa attività posso mantenermi”, aggiunge Sintayemus Getmachew. Questo discorso vale per lei come per tanti altri, maschi o femmine che siano, senza professionalità da offrire ma con un grande bisogno di soldi, magari bambini a casa da sfamare e nessun’altra entrata. Perciò si va poco per il sottile e si rischia.
Purtroppo nonostante i tanti problemi del settore e i continui incidenti che dimostrano la necessità di un intervento, la situazione è questa da anni e non sembra, per il momento, destinata a migliorare. La gente ha bisogno di lavorare e continuerà ad arrampicarsi su impalcature fatiscenti pur di mettere qualcosa in tavola la sera o di realizzare il sogno di poter studiare. I responsabili e i proprietari dei cantieri continueranno ad approfittare di questa situazione sicuri che nessuno verrà a creare loro problemi. Servirebbero maggiori controlli, ma purtroppo sulla loro validità verrebbe probabilmente ad incidere l’alto livello di corruzione che si registra in Etiopia. D’altronde è difficile pure che vengano emesse nuove norme che prestino più attenzione ai lavoratori a giornata, dato che negli ultimi anni gran parte del corpo legislativo è stato rivisto e niente è stato fatto per questo settore. Se l’impegno che investono nel mettere in programma la costruzione di palazzi e la solerzia con cui avviano cantieri, che diventano nella mentalità collettiva l’emblema dello sviluppo del paese, venissero dedicati al rispetto dei diritti dell’essere umano e del lavoratore, la crescita dello Stato forse sarebbe meno ricca di edifici semi-costruiti ma più reale.
Camilla Corradini (Volontaria CVM in Etiopia)
1 commento:
e sti cazzi
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