L’HIV le ha portato via il suo primo bambino quando aveva appena tre anni, ma il desiderio di avere un altro figlio dopo quella grande perdita era così grande che Netsanet Eiigu ha voluto sfidare quel terribile virus, che ha colpito lei e il marito, e metterne al mondo un altro, nonostante questa volta fosse consapevole della malattia e di ciò che essa comporta. Ha deciso, però, anche di non tenere per sé quella dolorosa esperienza, ma di farla diventare un’occasione di crescita, di formazione, di presa di coscienza per tante donne, soprattutto per quelle incinte. Per questo ha accettato il lavoro di consulente offertogli dal centro sanitario di Debre Markos, nell’East Gojjam: tre volte alla settimana incontra future mamme per dare loro utili informazioni sul virus, su come prevenire la trasmissione, ma anche per diffondere buone pratiche igieniche ed evitare la trasmissione di tante malattie.
Ci racconta la sua storia, ospitandoci proprio nella stanza del centro dove di solito si confronta con le donne incinte, è seduta sulla piccola seggiolina in paglia, che usa per la cerimonia del caffè che accompagna ogni incontro. Il volto è serio, cupo, all’inizio sembra quasi disinteressata alla nostra presenza, poi però comincia a parlare senza esitazioni e si lascia andare a riflessioni e racconti narrati con dovizia di particolari, ma sempre tenendo bene a freno le emozioni. I suoi occhi profondi guardano me con un’intensità che mette quasi in imbarazzo, ma che non lascia trapelare, se non in rari casi, ciò che c’è dietro: difficile cogliere espressioni tristi o smorfie dettate dai brutti ricordi, e ancor più rari sono gli attimi in cui concede sorrisi. I lineamenti sono dolci e quasi stonano con quell’atteggiamento cupo, ma forse il suo passato, pieno di dolore e complicazioni, l’ha indurita e spinta a crearsi una sorta di scudo dietro al quale, quasi inconsciamente, cerca di difendersi. Se la perdita del primo figlio è stato il momento peggiore della sua vita, non è sicuramente l’unico episodio triste e fonte di sofferenza.
Netsanet viene della città di Digotsion nella woreda di Bibugn, piuttosto lontano da Debre Markos; la madre morì quando lei aveva 15 anni dopo aver sofferto per tanto tempo di emorroidi, mai curate a dovere. Per la donna era stato un lungo susseguirsi di alti e bassi, con disturbi che si accentuavano e si attenuavano ma senza mai lasciarla, sempre trascurati fino a quando la situazione non precipitò costringendola a letto e, nel giro di un mese, portandola alla morte. Un dolore grandissimo per la giovane Netsanet, che viveva sola con la madre poiché frutto di una relazione extraconiugale con un uomo che aveva già un’altra famiglia. Fu proprio con quest’ultima che lei si trasferì a vivere una volta rimasta orfana, ma fin dall’inizio fu chiaro che quella convivenza non poteva durare: la matrigna non voleva quella ragazzina tra i piedi, simbolo dei tradimenti del marito, che per altro oltre a Netsanet aveva altri figli al di fuori del matrimonio. La donna maltrattava la ragazza, non solo a parole, e le impediva di andare a scuola.
Quei divieti e quegli atteggiamenti ostili erano insopportabili per la giovane e al tempo stesso erano causa di continue discussioni tra i coniugi. Il comportamento del padre, infatti, era ben diverso da quello della matrigna: era affettuoso con la figlia, tentava di difenderla, ma per questo doveva continuamente scontrarsi con la donna. Per mettere fine a quella situazione dilaniante per tutti, Netsanet lasciò quella casa e si trasferì a vivere con un’amica, vendendo tella (la birra locale fatta in casa) per mantenersi. Fu durante quell’attività che conobbe Alemu Awoke, all’epoca giovane militare. Tra loro sbocciò subito una relazione che in poco tempo portò al matrimonio, ma anche quella nuova vita le stava per riservare brutte sorprese: “Lui beveva molto ed era violento, litigavamo spesso e mi picchiava, anche quando sono rimasta incinta”, racconta la donna con il volto serio e compito, come se non volesse ricordare quei momenti. “È successo anche quando ero al nono mese di gravidanza, ma io mi difesi con un bastone”, aggiunge con lo sguardo fisso verso un punto lontano. Quelle accese liti non ebbero conseguenze fisiche per i due, ma furono la causa della loro prima separazione, o meglio ciò che spinse l’uomo ad abbandonarla e andare a vivere a Debre Markos. La povera Netsanet si ritrovò di punto in bianco di nuovo sola e con un bambino che sarebbe arrivato a brevissimo. Fortunatamente il legame con il padre era ancora forte e lui non le voltò le spalle: avvertito dai vicini, la raggiunse e la prese a vivere con lui, questa volta con il consenso inaspettato della moglie. Il parto si svolse in ospedale, grazie all’aiuto della famiglia, e la giovane poté trascorrere i primi due mesi in una sorta di serenità domestica con il nuovo arrivato, Kaldikan, anche se privata dell’affetto del compagno e del piacere di condividere con lui quei momenti.
Aveva appena ricominciato ad organizzare la propria vita, per l’ennesima volta da capo, quando Alemu tornò da lei per fare pace e riprendersela a vivere con lui, portandola a Debre Markos. Netsanet non ci pensò due volte: ciò che la lega a quell’uomo era ed è troppo forte per dirgli di no, lei lo amava e lo ama, lo ammette sinceramente e un po’ vergognosa, continuando a distogliere lo sguardo, chiudendosi su stessa e facendosi sempre più piccola. Purtroppo, però, nonostante quel sentimento il loro rapporto non sembrava trovare la strada giusta per funzionare come si conviene a una coppia sposata: l’uomo continuava ad essere rude, le liti proseguivano frequenti e, spesso, lui se ne andava per giorni, trasferendosi in una città vicina. A peggiorare quella delicata situazione, sempre in bilico e sul rischio di esplodere, si aggiunse qualcosa di ancora più grave: la malattia del piccolo Kalkidan. Un momento terribile per Netsanet, in cui ogni giorno portava con sé una nuova sofferenza: il peggioramento del bambino, il ricovero in ospedale, poi la diagnosi che identificava nell’AIDS la causa di quei malesseri. Non c’era tempo da perdere, la donna prese subito appuntamento con il medico per le necessarie analisi e le cure ma Kaldikin, purtroppo, a quell’appuntamento non arrivò mai. Il suo corpicino, troppo debole e provato, cedette prima, la morte lo strappò dalle braccia della madre senza darle la possibilità di lottare con lui. Quante lacrime versate, che gran dolore per quanto accaduto, quanti interrogativi ai quali non era semplice trovare risposte. Un’esperienza tragica, che all’inizio Netsanet dovette affrontare da sola perché il marito se ne era di nuovo andato qualche giorno prima del ricovero del bimbo e lei non sapeva dove fosse. Nonostante tutto ciò, quando Alemu tornò, lo riprese anche questa volta con sé e, dopo avergli raccontato quanto successo, con lui pianse di nuovo accoratamente quell’enorme perdita. Una morte troppo repentina per essere accettata, che portava con sé un altro problema impossibile da ignorare: con grande probabilità uno di loro o entrambi aveva contratto l’HIV. Fecero il test, in un primo momento risultò positiva solo lei, mentre l’esito di lui, negativo, doveva esser riconfermato dopo tre mesi. Ma al termine di quei lunghi novanta giorni le analisi rivelarono un’altra verità: anche lui era malato. A quel punto al tanto dolore si aggiungeva anche la consapevolezza che erano stati loro a trasmettere al piccolo quella malattia spaventosa.
Forse Netsanet non vuole che si scavi troppo nel suo passato e in quello del suo uomo, ma spiega di non sapere come hanno contratto il virus: “Io non ho avuto relazioni sessuali con altri uomini e non penso che sia stato lui a contagiarmi, – dice seria, ma senza dilungarsi troppo – forse l’ho preso quando ho curato una sorella malata, poi morta probabilmente per l’AIDS, o forse usando qualche strumento tagliante preso in prestito dai vicini e non pulito. Prima per queste pratiche non c’era nessuna attenzione”.
L’aver scoperto di essere entrambi malati li convinse, però, che potevano continuare a vivere insieme, che non c’erano motivi per separarsi, che avrebbero potuto sostenersi a vicenda. La perdita del piccolo Kalkidan aveva però lasciato un vuoto troppo grande per la giovane, il desiderio materno stroncato così presto ardeva ancora forte dentro di lei. Paure e timori erano lì, ma Netsanet non riusciva a rassegnarsi all’idea di non avere bambini. Per questo cercò aiuto al centro sanitario di Debre Markos e lì scoprì che aveva una possibilità, che esistono sistemi di prevenzione, che poteva assumere delle medicine per diminuire le possibilità di trasmissione del virus ad un eventuale nascituro. Finalmente una bella notizia per lei, ma come convincere il marito? Con la solita espressione seria che non volendo rivela tanta sofferenza, racconta che lui era contrario: “Aveva paura che nascesse malato e poi avevamo anche tanti problemi economici. Lui aveva smesso con il servizio militare a causa di problemi a una gamba e faceva lavori giornalieri, in genere nella costruzione di palazzi”. Lei però non era disposta a cedere, quel bambino lo voleva, confessa con tono perentorio, lo desiderava così tanto da essere pronta ad insistere con il marito fino allo sfinimento pur di metterlo al mondo e alla fine riuscì nel suo intento. Certo a quel punto le cose non sarebbero state semplici: c’era tutta la trafila all’ospedale da seguire rigidamente, affinché il bambino nascesse sano e al contempo il costante timore che potesse succedere qualcosa, che si potesse ripetere la storia del primogenito.
Le cose però non possono andare sempre nel verso sbagliato, in mezzo a tanta sofferenza ci deve pure essere lo spazio per un sospiro di sollievo e, dopo il parto, per Netsanet è arrivato quel momento: il secondogenito è nato sano, niente virus per lui. L’ha chiamato Yohanis e ora ha tre anni. Purtroppo però questo raggio di luce nella sua vita è stato offuscato da un altro dispiacere: Alemu l’ha di nuovo lasciata; a dispetto di quanto era sembrato in un primo momento, con il passare dei mesi le sue capacità di gestire il virus hanno cominciato a vacillare. Ai disturbi fisici si sono aggiunti problemi psicologici. Ora lei vive da sola con il bimbo. È molto dura per lei senza quell’uomo che, nonostante i tanti problemi e i maltrattamenti, continua a volere accanto: il suo sguardo quando lo dice si perde nel vuoto, il volto è contratto. Non si lascia andare a smancerie, è immobile sulla sua seggiolina, le braccia conserte e serrate, ma le parole e quelle poche espressioni che si lascia sfuggire rivelano tanta solitudine. Dopo quello che lui le ha fatto, sembra quasi una follia che lei ancora desideri il suo ritorno, ma è così, lo dice senza nessuna vergogna, come se fosse la cosa più normale del mondo nonostante il loro passato.
Ora, comunque, non è del tutto sola: durante le visite al centro sanitario per le cure nei mesi della gravidanza ha conosciuto i membri di Beza, la grande associazione di persone malate di HIV di Debre Markos nata anche con il sostegno del CVM. Un gruppo che fornisce supporto psicologico ma anche materiale. Per un periodo lei ed altre donne affette dal virus hanno gestito un piccolo bar dove vendevano tè e pane, purtroppo ora è chiuso perché alcune di loro sono morte e altre sono malate e non riescono a lavorare. L’associazione ultimamente però l’aiuta anche fornendogli discrete quantità di olio e grano. Da tempo, inoltre, lavora al centro sanitario: tre volte a settimana incontra le donne incinte, organizza la cerimonia del caffè e con altre colleghe, anch’esse malate di HIV, cerca di trasmettere alle future mamme preziosi consigli sul virus e non solo. La sua esperienza è un grande esempio per quelle donne: alcune come lei hanno l’AIDS e lottano per non trasmetterlo al nascituro. “Sono molto contenta di lavorare qui, penso al mio passato, alla mia storia e so che raccontandola e condividendo la mia esperienza con altre donne faccio una cosa utile. Può essere loro di esempio. Possono capire che con l’HIV si può convivere e che si possono far nascere bimbi sani, se si seguono i consigli del medico, se si adottano le necessarie precauzioni e si prendono le medicine”.
Camilla Corradini
Volontaria CVM, Etiopia