lunedì 22 dicembre 2008

Stefano Battain dalla Tanzania - SHABANI E LA LEZIONE AFRICANA -



Carichiamo gli scatoloni in macchina, salutiamo Ologolie e Lala, i due Masai guardiani dell’ufficio del CVM e lasciamo Bagamoyo per dirigerci a Chalinze villaggio che quest’anno ospiterà la giornata mondiale della sanità per il distretto di Bagamoyo. Appena lasciata la sonnolenta cittadina di Bagamoyo e le sue strade sabbiose attraversiamo la campagna, verde, seguiti da una scia di polvere sollevata dalla jeep che viaggia sobbalzando sulla strada di terra rossiccia, superiamo uomini sudati che pedalano lentamente su biciclette monomarcia cariche di carbone mentre in direzione contraria provengono traballanti camion carichi di ananas. A Msata rientriamo sulla strada asfaltata che collega Dar es Salaam con il Nord del paese, arteria fondamentale per il movimento di merci, persone ma anche, purtroppo, del virus del HIV/AIDS. Poco dopo raggiungiamo lo snodo stradale di Chalinze, con i suoi bar, venditori di anacardi e colorate baracche adibite a negozi. La sera, fra i fari dei camion e le poche luci dei bar, uomini soli in cerca di compagnia e ragazze pronte a vendersi per poche migliaia di scellini si incontrano per incontri fugaci e ad altissimo rischio. Infatti, questa è una delle aree dal più alto tasso di HIV/AIDS di tutto il distretto.
Lo spazio dove si terrà la manifestazione è ancora vuoto, ma vari gruppi di persone dalle maglie di diversi colori iniziano a radunarsi. Sembrano tante squadre di calcio, c’è chi veste in giallo, chi in blu e chi in bianco. I bianchi siamo noi, a parere di tutti, le magliette più belle, quelle vestite anche dalle autorità, segno di una collaborazione costruttiva e di un dialogo costante con le istituzioni locali, un valore irrinunciabile per il CVM che negli anni sta dando i suoi frutti. Lentamente, e piuttosto in ritardo rispetto al programma, vengono disposte le sedie e fissati i teli che proteggeranno i partecipanti dai raggi del potente sole di dicembre, nonostante questo il caldo si farà sentire, con relativo bagno di sudore, ormai un’abitudine quotidiana. Io e Francesca ci sediamo nelle ultime file, scattiamo un po’ di foto, ascoltiamo i discorsi ufficiali che non capiamo ma che con l’aiuto dei nostri amici e compagni di lavoro Elineth, Erena e Emanuel riusciamo per lo meno ad intuire. Segue l’esecuzione di alcune danze tradizionali da parte di un gruppo di donne locali. Prendono la parola anche rappresentanti di associazioni di persone che vivono con l’HIV/AIDS e rappresentanti della varie istituzioni locali. I giovani hanno un ruolo molto importante in questa giornata, anche grazie ad alcune ragazze e ragazzi formati nell’ambito del progetto del CVM, vengono messe in scena alcune rappresentazioni teatrali utilizzate per comunicare con i giovani e i meno giovani su tematiche legate all’HIV/AIDS, come il cambio comportamentale finalizzato alla prevenzione della trasmissione, l’attitudine verso le persone affette da HIV/AIDS e i comportamenti a rischio. Pur non cogliendo appieno le parole, la rappresentazione drammatica coinvolge e attrae l’attenzione del non foltissimo pubblico presente.
Seduto all’ombra di un ombrello saluto un bimbo dagli occhi svegli, la testa rasata e le orecchie un po’ a sventola, veste una maglia rossa, di seconda mano, che recita: ”Qualcuno che mi ama molto è stato al Mall of America e mi ha portato questa maglietta”, non credo che Shabani, questo è il suo nome, conosca qualcuno che abbia visitato il centro commerciale più grande del mondo, in Minnesota, e non credo sappia nemmeno cosa sia un centro commerciale ma trovo questa maglietta, indossata da un bambino di questo villaggio tanzano, tristemente ironica e significatva dello squilibrio degli stili e livelli di consumo, da una parte il Nord, con le magliette comprate per celebrare una visita ad un centro commerciale, dall’altra i Sud, con la stessa maglietta, questa volta di seconda mano e piuttosto strappata. Shabani è uno dei più piccoli fra i molti presenti, le scuole sono chiuse, quindi i bambini gironzolano incuriositi da questa folla colorata e rumorosa. Segue in disparte, poi si siede a guardare la rappresentazione teatrale. Arriva il momento della distribuzione dei volantini e dei calendari stampati dal CVM, la folla si concentra su di noi, lottando per un calendario o per un volantino colorato, anche il nostro bimbo partecipa alla ressa, ottiene una discreta quantità di fogli colorati e riviste informative a distribuzione gratuita sull’AIDS che però regala immediatamente agli altri bambini, rimasti esclusi dalla distribuzione. Finiti i calendari, e il relativo assembramento per ottenerli, segue il pranzo tutti insieme a base di riso pilau, riso bollito condito con spezie, e carne di capra, tutti ne prendono un piatto e i bambini non fanno eccezione, si assembrano attorno ai pentoloni incrostati per finire l’ultimo riso rimasto, non lui, non Shabani, lui se ne sta in disparte e non mangia, gli offriamo un piatto di riso per essere sicuri che non fosse troppo timido per prenderlo da sé ma rifiuta, sorride e corre in giro, felice. Lo definiamo “il bimbo più buono e generoso di Chalinze”. Verso sera si ritorna verso Bagamoyo, Christofer ci riaccompagna a casa in macchina, appena prima di aprire il cancello per entrare in casa veniamo salutati da un gruppo di bambini che grida: “Mzungu, mzungu!” (uomo bianco, in swahili) al solito, rispondiamo con un sorriso e dicendo “Mambo!”. Uno dei più piccoli mi si avvicina e mi regala un pop-corn, gli altri, a turno, fanno a gara a chi me ne regala di più, sorpreso, accetto, in un attimo mi ritrovo a mani piene, accovacciato, ne mangio un po’ con loro, poi, sorridenti, salutano e se ne vanno. Rimango un attimo fermo a pensare, essere bambino significa anche questo, essere africano significa anche questo, la generosità e il dono, le due grandi lezioni di queste mie prime settimane in Tanzania.

Stefano Battain
Volontario in Servizio Civile, Tanzania

venerdì 12 dicembre 2008

GIORNATA MONDIALE CONTRO L’AIDS A DEBRE MARCOS

Come nella tradizione del CVM, il World AIDS Day 2008 in Etiopia non è stato l’evento di un giorno, né l’approccio è stato unidimensionale. Ad esempio, nella città di Debre Marcos, capoluogo dell’East Gojjam, già domenica 30 novembre, volontari e membri del locale staff CVM hanno battuto il territorio in lungo e in largo, distribuendo materiale informativo sotto forma di volantini, pamphlet e poster illustrati, recanti informazioni sui rischi di contagio da HIV, consigli utili e servizi disponibili nello specifico campo: attività che rientra nel vasto ambito dell’IEC (Informazione Educazione Comunicazione), uno dei punti fondamentali del progetto che CVM porta avanti nell’East Gojjam Zone dal 2002, con gli obiettivi di ridurre la vulnerabilità della gente del luogo e contestualmente fermare la pandemica diffusone dell’AIDS.
Per raggiungere questi scopi, diversi sono i canali e gli strumenti adottati: si va, rimanendo nell’ambito formativo, dagli workshop sui diritti di donne, orfani e persone affette dal virus fino al campo più economico (vedi creazione di Fondi rotativi all’interno delle comunità) e a quello sanitario, attraverso la diffusione dei servizi di PMTCT (Prevenzione della trasmissione da madre a figlio), di ART (Terapie anti-retrovirali) per il trattamento della malattia, di VCT (Consulta e test volontari). A proposito di quest’ultima particolare attività, presso l’Università cittadina, nel week-end che ha portato al WAD 2008, sono stati organizzati incontri ed iniziative, con ragazzi e ragazze invitati ad effettuare test dell’HIV o anche solo ad informarsi e consultarsi al riguardo. Tuttavia, in quella che è stata di fatto la tre giorni dedicata al tema dell’AIDS, la promozione del VCT, in collaborazione con l’Health Department, è andata ben oltre i confini della cittadella universitaria, raggiungendo tutte le kebele della woreda di Debre Marcos, dove son state istituite 7 postazioni VCT fisse e 12 mobili. Coprirà, invece, un arco di tempo di 21 giorni l’attività di formazione di personale medico-sanitario riguardo il VCT, in vista di attività di counselling collettivo e nell’intento di diminuire sempre più il rapporto numerico tra counseller e partecipanti, aumentando così l’efficacia dell’iniziativa.
Pure in tale campo, l’arte e lo spettacolo giocano un ruolo fondamentale. Lo sa bene il CVM, che, nell’ambito di questo e di altri progetti zonali, si occupa della formazione di animatori nelle comunità locali e promuove la creazione di drammi e spettacoli in genere con riferimenti al tema dell’AIDS. Lo show di domenica sera, realizzato e inscenato dall’Amadu Youth Association nel centro di Debre Marcos, ne costituisce un apprezzabile esempio. Le note e le parole di una canzone, come l’immedesimazione portata da una pur dilettantistica drammaturgia, divengono, in una notte etiope non come le altre, veicolo di conoscenza e consapevolezza riguardo un tema, alla cui importanza una singola data ufficiale non può comunque render merito.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

E la vita riparte da un negozietto di generi alimentari

Ci sono pacchi di berbere, sorta di peperoncino locale, di shero, per preparare la tipica salsa nota come shero wat, e poi ci sono le materie prime da lavorare: meser, ater e altri cereali, legumi, frutti della terra etiope. Tutto ciò fa bella mostra di sé tra gli scaffali dell’angusto, eppur ben fornito, negozio alimentare messo su e gestito dai 26 membri, tutte donne, della Bezawit PLWA’s Association, nata lo scorso anno e presto unitasi in un network con altre associazioni simili, tra le quali anche una sorta di controparte maschile, una federazione chiamata Beza RINA (dove RINA sta per Ransom Integrated National Association).
Si tratta, insomma, di una rete ormai ben strutturata, ufficialmente riconosciuta dal Governo mediante apposita licenza; associazioni che hanno mosso i primi passi con l’aiuto del CVM, da cui la Bezawit ha ricevuto un capitale iniziale di 21.600 birr, somma che comprende pure i 400 birr destinati a ciascun membro per le proprie attività individuali. È stato sempre il CVM a fornire a queste donne sieropositive i metodi per implementare e proseguire la propria impresa commerciale, attraverso appositi Management Training: sarebbe a dire i Revolving Funds, attraverso cui diversi membri di una stessa comunità si rendono responsabili nei confronti di altri per la restituzione dei prestiti ricevuti, parte dei profitti che questi ultimi hanno generato e che i secondi potranno in questo modo creare mediante altre attività artigianali e commerciali, cioé le IGA (Income Generating Activities), in una sorta di circolo virtuoso, dando per assodato il reciproco rispetto dei vari gruppi della stessa comunità. Senza dimenticare il fondamentale supporto dei locali HAPCCO (HIVAIDS Prevention and Control Council Office), organi governativi che intrattengono strette relazioni con il CVM per vari progetti, le donne della Bezawit possono vendere non solo i prodotti alimentari che esse stesse preparano, ma anche tessuti ed abiti tradizionali, usati in particolare in occasione delle cerimonie religiose.
Tuttavia, si è sempre in un contesto a dir poco problematico e le difficoltà non mancano, come ci rivela una delle associate alla Bezawit, mentre ci introduce al piccolo magazzino dietro al negozio: “Ci sono problemi d natura economica, perchè i prezzi delle materie prime da un po’ di tempo sono aumentati, riducendo i nostri profitti e la possibilità di avere più prodotti da vendere. Eppure vorremmo più spazio per il cibo da vendere; ma, come potete vedere, il negozio è molto piccolo e questo è un altro problema per noi.”
“Queste attività – conclude la stessa donna, non dimenticando la precedente condizione – ci hanno dato una nuova speranza. Perciò, siamo felici e, quando le limitazioni che ho detto prima saranno superate, potremmo generare maggiori profitti per noi stesse e per la nostra comunità e pure realizzare un altro nostro obiettivo: lavorare in collaborazione con persone inabili ed altri gruppi vulnerabili.” La speranza e l’umana spinta ad aiutare il prossimo, pur nelle proprie difficoltà, non sottostanno alle leggi dell’economia né si curano delle tendenze inflazionistiche su scala mondiale. Grazie a queste spinte interiori, le persone che qui abbiamo incontrato hanno avuto ed hanno la forza di non arrendersi, di agire, dando vita ad un vero e propro contagio. Questo sì, davvero positivo.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

Sieropositività senza vergogna

Oggi Marta parla apertamente, senza remore, della propria sieropositività. È grazie a persone come lei, unitesi in questo caso nella Besawit PLWA’s Association, che le informazioni riguardanti i rischi legati all’HIVAIDS, comprese le nozioni più pratiche e quindi più utili per prevenire il contagio o trattare la malattia, cessano di essere un tabù e passano così liberamente da persona a persona, magari salvando vite, come liberamente Marta e le sue compagne condividono le proprie esperienze di vita, affinché altre donne, altre ragazze possano non commettere gli stessi errori.
“Il CVM – spiega Marta, entrando nel tema delle attività dell’associazione di cui fa parte, operante nella woreda di Debre Marcos – organizza per noi diversi training course, da quelli sull’HBC (Home Based Care, ndr) a quelli su come vivere in maniera positiva la propria sieropositività (Positive Living Training, ndr), fino ai corsi incentrati sul business e sui modi in cui generare profitto. A questo scopo, il CVM ha fornito ad ogni persona 580 birr per l’inizio delle proprie attività. Esse possono essere individuali o di gruppo, come quella che ci vede impegnate nella preparazione e confezionamento di cibi tradizionali, che poi vendiamo.”
“Un’altra cosa importante – aggiunge Marta – è l’istituzione, presso l’ospedale di Debre Marcos, di servizi di PMTCT (Prevention of Mother to Child Transmission, vale a dire prevenzione della trasmissone del virus HIV dalla madre al figlio durante il periodo di gravidanza e sopratutto dell’allattamento; ndr), uniti alla possibilità per le donne incinte di effettuare il test dell’HIV.” Strumenti, questi ultimi, essenziali per affrontare in tempo e nel giusto modo l’eventuale sieropositività, evitando di trasmetterla ad una nuova vita, spezzando così una triste catena che spesso presenta fin troppi anelli.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

La battaglia del “guerriero” Tsegaye per la sua gente

Ha lo sguardo fermo e fiero Tsegaye Mekonnen, quando entra negli uffici CVM di Debre Marcos. La pelle particolarmente scura, all’estremo quasi della variegata gamma cromatica dell’ “homo etiope”, unita ai tratti somatici duri, decisi lo rende simile ad un guerriero dell’Africa nera, quale all’Occidente spesso appare attraverso immagini e stereotipi, se non fosse per il cappellino e la tuta che indossa.
E come un guerriero Tsegaye ha dovuto combattere in questi anni per il riscatto della sua gente, della sua terra, Basoliben, una delle 18 woreda dell’East Gojjam, dimenticata, troppo spesso lasciata a se stessa dalle autorità e dalle istituzioni. Almeno fino a quando, nel 2005, il PLWA’s facilitator del CVM venne nella comunità e spiegò che, formando un’associazione e promovendo attività produttive, anche gruppi vulnerabili e persone in difficoltà all’interno di quella piccola società avrebbero potuto avere un peso nei confronti delle istituzioni e migliorare le proprie condizioni di vita, materiali e non solo. Così nacque Addis Raye, PLWA’s Association di cui Tsegaye Mekonnen è fondatore e chair person, attualmente la prima per numero di attività nella Zona dell’East Gojjam.
“Il direttivo del CVM – racconta Tsegaye – ci ha sempre supportato e, anche grazie a questo, ora siamo formalmente riconosciuti dal Governo. Gli obiettivi di questa associazione sono quelli di combattere lo 'stigma' che riguarda le persone affette da HIV/AIDS, far capire loro che hanno dei diritti e come farli rispettare, il tutto attraverso un’intensa attività di informazione e di educazione a queste tematiche, cui va aggiunto anche il supporto materiale dell’HBC (Home Based Care, ndr), che continuamente promuoviamo. Inoltre, sono stati organizzati Management and Development Trainings, per facilitare la creazione di IGA (Income Generating Activities, ndr), e BBST (Basic Business Skills Training, ndr). Abbiamo adottato il sistema dei Revolving Funds (cioé Fondi Rotativi, ndr) con grande successo: le 33 persone coinvolte nel meccanismo hanno tutte generato profitto e le restituzioni dei prestiti sono andate tutte a buon fine, tanto che questa gente sta già accedendo ai crediti per il secondo round del RF, che, al primo giro, ha portato ad un profitto medio di 4.000 birr, che ciascuno ha potuto poi utilizzare per le proprie compere. Il CVM ha inizialmente contribuito con 27.000 birr per queste 33 persone, soldi che sono andati a coprire non solo le attività individuali, ma anche le spese per i mobili del nostro ufficio, per una fotocopiatrice e per tutti i documenti e i francobolli utili al riconoscimento legale dell’associazione.”
Continua il leader di Addis Raye con ben celato orgoglio, dietro i suoi tratti da guerriero d’ebano: “Tra le Income Generating Activities, la nostra associazione è riuscita a mettere in piedi un negozio-dispensa di soft drink, un hotel e pure ad organizzare tornei e partite di carambula. Sono molte le donne che fanno parte di questa associazione, che porta avanti ovviamente un’opera di sensibilizzazione e prevenzione dall’HIVAIDS. Ci occupiamo pure dei bambini orfani, per i quali sono stati forniti 14 alloggi, dati in affitto dalle persone coinvolte nei programmi IGA.”
“Sono felice – conclude Mekonnen – perchè il CVM ha dato attenzione alla mia zona, dove sono nato e cresciuto. Ci riempie d’orgoglio il vedere oggi ciò che siamo riusciti a creare: un hotel con 10 letti e tutto il resto. Prima di questo, la nostra area era un luogo dimenticato, abbondonato a se stesso. Perciò, oggi posso dire di aver raggiunto il mio obiettivo.” Così, il guerriero ha vinto la sua battaglia.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

PLWA'S ASSOCIATIONS – IGA

Sconfiggere lo “stigma” che li segna, li umilia, viene loro impresso nell'animo più ancora che nei segni del corpo, quale marchio di aberrante distinzione; cancellare l'etichetta della sieropositività e ricordarsi di essere uomini e donne capaci, tornare alla vita attraverso ciò che la nobilita e cioé un lavoro i cui frutti siano sotto gli occhi di tutti e dei quali tutti possano giovarsi nella comunità, meglio ancora se si tratta di altre persone bisognose o in difficoltà.
È questo, per sommi capi, il circolo virtuoso che CVM da anni instaura tra le persone, uomini e donne d’Etiopia, affette dal virus dell’HIV, incoraggiandole a lottare per i propri diritti, a non chiudersi nella propria condizione e, anzi, a rimboccarsi le maniche dando vita ad attività artigianali o comunque commerciali che possano generare profitto, ricchezze utili al loro sostentamento e servizi per l’intera comunità.
Nei progetti stilati dagli uffici del CVM, quanto descritto prende i nomi di PLWA’s Associations (dove PLWA sta per People Living With AIDS) e IGA (Income Generating Activities), ovvero le attività intraprese da queste stesse associazioni. Ma, al di là delle sigle e dei budget, l’essenza di tutto ciò la si trova negli occhi e nelle parole della gente che di tali attività si è resa protagonista, nelle storie di vita, alcune delle quali, provenienti dalla realtà dell’East Gojjam Zone e dalla città di Debre Marcos, in particolare, si va di seguito a raccontare.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

venerdì 28 novembre 2008

Simone Accattoli dal Sud Africa "Matrimonio etiope"

Un’immagine mi ha colpito ieri, passeggiando con Dawit (un ragazzo conosciuto qui ad Addis) non lontano da Mesqal Square. Presso quelli che vengono chiamati Giardini d’Africa o qualcosa del genere, un amplissimo parco verde e lussureggiante, un folto gruppo di convitati ad un matrimonio si produceva in allegre e vivaci danze, tra colorati gazebo e tavole imbandite. Chiunque sia in grado di prendere in affitto, anche per un solo giorno (e che giorno...) un luogo del genere non se la deve passare affatto male! Pochi metri, qualche albero a separare e poi tre ragazzi, nei pressi di un gruppo di massi, in riva al fiumiciattolo d’acqua sporca. Non si agitano al ritmo frenetico delle danze, i loro movimenti sono lenti, svogliati, pressochè inerziali, quasi ci fosse un muro spesso, insonorizzato, a separarli da ciò che avviene a pochi metri di distanza. Uno di loro sembra masticare qualcosa, dell’erba, forse chat, la droga qui più in voga, l’eroina etiope, con le dovute proporzioni. I loro abiti non sono quelli della festa; sono semplici, per non dire miseri, sporchi, finanche scuciti, strappati. Non so se sia un’impressione prodotta dalla mia mente, ma sembra persino che il sole risplenda più forte e vitale sugli etiopi in festa, lasciando un po’ in ombra il luogo dei tre fuori dalla festa.
Osservo dal marciapiede del ponte dove mi trovo, muovo lo sguardo velocemente dagli uni, quelli al sole, agli altri, quelli all’ombra, sia essa metafora o reale condizione climatica. Un angolo di visuale assai scarso per me, che guardo dall’alto. Uno, due; uno, due. Un mondo ed il suo opposto, lontani anni luce e così vicini, contigui, se non fosse per qualche arbusto. Contrasto stridente. Di più: contraddizione, se si considera la sostanziale unitá di tempo e spazio.
Gli occhi osservano. La mente tenta di capire. Il cuore non si capacita.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

Simone Accattoli dall'Etiopia "Lezione di religione"

Dalla mattina, quando apro lo sguardo al mondo, fino al buio, prima di coricarmi, la cantilenante voce dei religiosi intenti nelle loro “lezioni” mi accompagna, costante e mistico sottofondo alla mie azioni, ai miei pensieri. “Egziabiher” (cioè “Dio”) è una delle poche parole, se non l’unica, che riesco a distinguere, ripetuta, invocata. Qui la respiri ovunque la religione, in ogni momento della giornata. È parte integrante, anzi fondamentale, della vita della gente; non giá mera facciata, bensì motore primo dell’agire, del comportarsi, in base al quale scandire la propria quotidianitá.
C’è la Chiesa Cristiana Ortodossa d’Etiopia, con la sua millenaria tradizione, ma ci sono anche Protestanti e Cattolici, come è presente la componente Ebraica, i cui usi e pratiche sono strettamente connessi alle pratiche religiose di questi luoghi e alla loro storia, tanto che secoli fa e per un dato periodo i regnanti d’Etiopia amavano identificarsi con Re Salomone e, in particolare, la dinastia fondata da Yikunno Amlak nel 1270 venne chiamata “Casa d’Israele”; c’è poi, ovviamente, l’Islam, seppure non prevalente come in altre Nazioni limitrofe e alla cui vera e propria invasione, all’inizio del XVI secolo, la Chiesa d’Etiopia seppe resistere e sopravvivere. Ho sentito e letto anche del persistere di certe forme di Paganesimo o, meglio, Animismo in alcune delle zone meno civilizzate del Paese. Trattasi, insomma, di un complesso mosaico, il cui comun denominatore sta nell’importanza che tutt’oggi l’aspetto spirituale, nella veste di varie e variegate confessioni religiose, riveste nella vita delle persone.
Magari, da queste parti non hanno altro cui aggrapparsi, si potrá pensare. Ma, a mio avviso, c’è molto altro e molto di più. C’è un’immensa cultura che la Chiesa d’Etiopia è stata in grado di preservare e tramandare nei secoli, svolgendo anche un importante funzione educativa e formativa in tempi in cui non erano presenti altre agenzie di socializzazione, come le definirebbero i sociologi, fuori dall’ambito familiare. C’è l’orgoglio di una storia antica e speciale, che distingue l’Etiopia dagli altri Paesi africani, che va di pari passo con l’evoluzione del Credo della Nazione, il quale dal Giudaismo, praticato assieme al Paganesimo prima ancora dei contatti con l’Impero Romano, vide l’introduzione del Cristianesimo ad opera proprio dei mercanti romani, attivi nelle principali cittá della regione di Axum, primo passo verso un affermazione che, a differenza di altrove, avvenne dall’alto, per precisa scelta della dinastia regnante, la quale fece proprio del Cristianesimo la religione di ufficiale, dando il lá alla sua profonda penetrazione presso la popolazione etiope. C’è, insomma, una reale identificazione tra ciò che si è, in quanto Nazione etiope, e le proprie istituzioni religiose, visto che proprio grazie a queste la Nazione, che si sostanzia nella cultura e nella tradizione di un popolo, ha potuto vivere, sopravvivere e così svilupparsi.
In questo sta il motivo per il quale i Portoghesi, che pure diedero un forte contributo militare ai fini della definitiva disfatta dell’esercito islamico nel XVI secolo, vennero poi coinvolti in sanguinosi contrasti, che portarono all’espulsione delle missioni gesuite dal Paese, ad opera dell’Imperatore Fassiladas (1632): essi non compresero il valore della storia e dell’ereditá culturale della Chiesa d’Etiopia, comportandosi come agenti della Santa Sede, educatori spirituali nei confronti di un Paese che, da questo punto di vista, poteva ben definirsi orgogliosamente autosufficiente.
Ecco, allora, che molte altre cose che si vedono, si osservano, diventano più chiare e facili da comprendere, al di lá della propria condivisione o meno. Basti pensare a tanta e sentita partecipazione popolare in occasione delle varie festivitá e cerimonie religiose, anche per quelle che inizialmente tali non erano, ma valenza religiosa hanno acquistato (inevitabilmente) in seguito. É il caso, ad esempio, dell’usanza, la mattina del giorno di San Michele (il 12 novembre, stando al calendario etiope), di bruciare la propria spazzatura davanti all’uscio, in memoria di quanto fatto dai propri avi allorquando (siamo a fine ‘800), per bloccare la dilagante epidemia di colera, il regnante Menelik II ordinò alla popolazione di dar fuoco appunto a quanti più possibili rifiuti. Peccato che oggigiorno, oltre al fatto che è venuta meno la motivazione contingente, i rifiuti abbiano cambiato e parecchio la propria natura: un conto è bruciare sterpaglie e fogliame, un altro è fare lo stesso con plastica e materiali sintetici vari. Ma tant’è, le attuali leggi e tutti i moniti governativi del caso non possono nulla: la mattina di S. Michele, Addis Abeba viene puntualmente avvolta da una folta nebbia, quasi fosse la triste e misteriosa Londra ottocentesca narrata da Blake, le origini della suddetta nebbia a far da elemento discrepante. Perchè questo? Semplicemente per la valenza cerimonial-religiosa che tale usanza attualmente riveste. Insomma, San Michele val bene un po’ di catrame nei polmoni...
Non mi si fraintenda per quest’ultimo esempio: tutto ciò è estremamente affascinante. Talvolta è bene sospendere il giudizio raziocinante; anche quando, alla fermata dei mini-bus (pardon: taxi, come li chiamano qui), tra le bancarelle illuminate, il vociare dei passanti e le grida degli addetti alla comunicazione della destinazione dei vari mezzi pubblici, da uno di questi caratteristici pulmini bianchi e blu si leva perentoria, mediante altoparlante, l’ennesima cantilena sacra, simile, al mio orecchio, alle innumerevoli altre che mi accompagnano nelle attivitá quotidiane e tra le mura della sede CVM. Eccessivo? Fuori luogo? Forse, ma in base a quali parametri? Magari, quello fuori luogo sono io...

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia

Testimonianza di Simone Accattoli, Volontario in Etiopia

L’aria è acre, quasi irrespirabile. Entra dai finestrini della nostra auto che attraversa Addis Abeba, il “Nuovo Fiore” (questo è il significato del suo nome in Amarico), anche se in questo primo tragitto dall’aeroporto di fiori non se ne vedono. Piuttosto vetture, tante, troppe per quello che riescono ad emettere lungo le strade, affollate di gente che si muove tra la polvere, le baracche e qualche negozietto, come pure sullo sfondo di grandi palazzi, sprazzi di Occidente qua e lá, “Pepsi” e “Coca Cola”; il tutto in un generale senso di rutilante disordine, caos, ma senza frenesia, “prodotto” che il mondo sedicente evoluto non sembra essere riuscito ancora a far entrare in questo continente.
Da queste parti capitò pure il padre di mio padre. Altri tempi: niente veicoli dagli scarichi nauseanti, né tanto meno l’asfalto, che ora bolle sotto il sole sub sahariano. C’era una guerra da combattere, anzi da vincere, in nome della patria, per la gloria del rinascente Impero e altre amenitá del genere, in quegli anni bui così in voga. Egli ci capitò – ho scritto – perché chi viene chiamato alle armi deve partire, anche se non sa o non ne capisce le ragioni, da sempre, anche se ha una famiglia da sostenere o mille altre cose migliori e più degne da fare che non andarsene in luoghi sconosciuti a sparare contro uomini altrettanto sconosciuti, che nulla avrebbero a che spartire con lui, poiché lontani, lontanissimi, non solo geograficamente. Questione di prioritá; quelle di altri.
Io, invece, in Etiopia ho scelto di venire, lasciando l’ennesimo pseudo-lavoro da giornalista straprecario e sottopagato. “L’ultima volta che c’è stato qualcuno di Destra alle Politiche Giovanili, – ebbe a dire poco tempo fa l’irriverente Maurizio Crozza, ironizzando sull’attuale establishment politico italiano – i nostri ragazzi li mandavano in Etiopia.” Ebbene, eccomi qua, proprio nella Nazione di Hailé Selassié e Menelik, degli altopiani e dei grandi fondisti d’atletica, delle 80 lingue parlate e degli ancor più numerosi dialetti, la Nazione della ‘ngera e del tegh, delle tante etnie e contraddizioni, della millenaria tradizione ebraico-cristiana e dell’immensa cultura che attaverso questa si è preservata e tramandata fino ai giorni nostri. Sono qui, ma di mia sponte, ripeto. Questione di prioritá, anche in questo caso, ma di tutt’altra specie, sentite e non imposte.
“Farengi” (cioé “stranieri”) dicono i ragazzini che si accostano al finestrino, parziale schermo verso un mondo a me nuovo, in questo primo impatto con la terra da cui tutto ha avuto inizio, dove la creatura che esercita il suo dominio su tutte le altre mosse i suoi primi passi, per poi andare alla conquista del globo intero, espandendosi quale tremendo virus che infetta, modifica, deturpa l’organismo che lo ospita, in questo caso il nostro pianeta. Un virus, nel senso proprio del termine, da anni ormai colpisce in modo inesorabile la popolazione di questi luoghi e di questa Nazione in particolare: é quello dell’immunodeficenza umana, meglio noto come HIV, stadio antecedente all’AIDS o Sindrome d’Immunodeficienza Acquisita. A quest’ultima non servono presentazioni, é il motivo centrale, benché non unico, della presenza da queste parti del CVM, l’Ong italiana alla quale presterò il mio servizio nei prossimi undici mesi, documentandone i progetti e cercando di scoprire e narrare, all’interno di questi, le vicende, le storie e le vite di chi vi si trova coinvolto, nei diversi ruoli che la sorte riserva.
Pensieri, impressioni. La mente é alle prese con il Nuovo, si appresta ad affrontarlo, a svelarlo, a comprenderlo. Gli occhi ce lo hanno giá davanti; ma “l’essenziale é invisibile agli occhi”. Essenziale sarebbe, ora come ora, una superficie piana su cui far viaggiare il nostro mezzo targato CVM, che traballa e ballonzola tra i ciottoli, le buche e le irregolaritá varie di un tragitto improvvisamente mutato sotto i nostri piedi. A un tratto, niente asfalto; ma la polvere... quella non manca, anzi é ancora di più. I contorni del Nuovo sfumano. Ci sará tempo e modo per comprenderlo. Almeno un po’.

Simone Accattoli
Volontario in Servizio Civile, Etiopia