martedì 31 maggio 2011

“Ye jebena bunna”: la cerimonia del caffè


Al viaggiatore che visita l’Etiopia capiterà sicuramente di assistere alla cerimonia del caffè. Questa è infatti un’usanza molto radicata nella tradizione etiope per il semplice piacere di bere questo infuso e chiacchierare insieme a parenti e amici. Può avvenire in luoghi pubblici come in abitazioni private e solitamente viene condotto dalla padrona di casa o dal proprietario del locale pubblico.

Questo rituale non può passare inosservato poiché vi si viene spesso invitati ed è puro folklore. La padrona di casa, come prima cosa, cosparge l’area destinata alla cerimonia con lunghe foglie di goosgwaze, una tipica erba etiope che, appena tagliata emana un fresco profumo: in questo modo viene creato uno scenario naturale che rappresenta l’originale legame tra l’uomo e la natura. Dopo aver creato questa atmosfera adatta al rito, la donna, seduta su un piccolo sgabello davanti a un braciere, con precisi e antichi gesti rituali brucerà prima l’incenso e poi laverà e tosterà in una piccola padellina dei grani di caffè che in seguito verranno macinati lentamente nel mukecha, un piccolo mortaio. Prima di essere macinati la tradizione vuole però che tutti i partecipanti inalino a pieni polmoni la fragranza emanata dai chicchi tostati. La polvere ottenuta verrà introdotta nella jebena, l’originale caffetteria di terracotta nera dal collo lungo e stretto contenente acqua calda, che, portata ad ebollizione, originerà la bevanda diffondendone nell’aria l’inconfondibile aroma. L’ultima fase della cerimonia è quella in cui la bevanda viene servita bollente e zuccherata partendo dall’ospite più anziano fino a che tutti i partecipanti ne abbiano bevute tre sini,le tradizionali tazzine senza manico. Solitamente questa cerimonia viene ripetuta per tre volte nell’arco della giornata. A seconda della tradizione della regione in cui ci si trova si potrà gustare il caffè con il burro locale oppure addirittura con un aggiunta di sale.
Legate al caffè ci sono numerosissime e varie leggende, la più famosa è quella di Kaldi.
Kaldi era un pastore che si accorse che le sue capre ogni volta che mangiavano strane bacche rosse che crescevano spontanee da un certo tipo di cespuglio, iniziavano a saltellare e a correre in modo strano; incuriosito provò lui stesso ad assaggiare quei chicchi e, provando un certo senso di euforia, si recò nel vicino convento a mostrare quei frutti misteriosi e farli esaminare. I monaci sentenziarono subito che quei frutti erano “un’opera del diavolo” e li gettarono nel fuoco per eliminarli: questo gesto involontario fece si che le bacche, tostandosi, diffondessero nell’aria l’inconfondibile aroma che tutti conosciamo. A questo punto i monaci, sempre più convinti che quell’arbusto fosse “un’opera diabolica”, pestarono i chicchi per spegnere la brace, ottenendo in questo modo la polvere, che messa in acqua bollente , permise di ottenere un infuso capace di trasmettere euforia. Da questa storia nasce la famosa catena di caffetterie simile a Starbucks, conosciuta a livello mondiale come KALDI’S COFFEE.

Un altro racconto popolare sull’origine del caffè sostiene che gli abitanti del Kaffa, una delle regioni più verdi dell’Etiopia probabilmente terra naturale del caffè che qui cresce allo stato selvatico, ne scoprirono l’aroma grazie a un enorme incendio in seguito al quale, raccolti i chicchi ormai tostati li utilizzarono casualmente per preparare una bevanda che riscosse immediato successo nel circondario poiché, oltre che buona da gustare, aveva poteri eccitanti.
I mussulmani invece sostengono che Allah abbia bevuto caffè il giorno in cui creò il mondo e del vino il giorno in cui nacque il peccato originale: ed è per questo motivo che il caffè viene considerato dagli islamici portatore di saggezza, mentre il vino di follia.
Il caffè sempre secondo i racconti leggendari, venne importato in Arabia dagli schiavi che lo utilizzavano per sopravvivere al duro regime di vita grazie alle sue qualità stimolanti. In Europa, invece, il caffè venne a lungo guardato con diffidenza poiché la Chiesa sostenne che quel frutto era “opera del diavolo”; fu solo verso la metà del XVII secolo che si diffuse in larga scala nel mondo occidentale, grazie ai commercianti arabi, diventando in breve tempo la seconda bevanda più apprezzata, dopo il tè.

Marta Bonalumi (Volontaria CVM - Etiopia)

venerdì 27 maggio 2011

AFRICA DAY (25 maggio): Per me Africa è...


In Africa ho visto uno dei più bei arcobaleni della mia vita...nasceva da una nuvola nera nera, cresceva nel cielo turchino per poi ricadere dentro una nuvola tanto bianca e soffice da sembrare
panna montata!!Uno spettacolo meraviglioso!È durato molto poco però perché d'un tratto è scoppiato uno dei tipici acquazzoni!

Marta Bonalumi (Volontaria CVM – Etiopia)

AFRICA DAY (25 maggio): Per me Africa è...


La terra africana ha preso su di sé il compito di raccontare tante esistenze che la hanno percorsa, esistenze di duro lavoro e silenziosa sofferenza, storie che non abbiamo ascoltato e che non hanno lasciato traccia..quelle dei vinti assoluti della Storia. La terra africana le raccoglie tutte in sé e all'improvviso, silenziosamente, mentre la osservi, te le getta davanti, e tu ammiri tutto estasiata e commossa.

Benedetta Sercecchi (Volontaria CVM – Etiopia)

AFRICA DAY (25 maggio): Per me Africa è...


Il sorriso dei bimbi, i loro abbracci, la loro allegria, la loro volontà di condividere tutto quello che hanno con i loro amici, un frutto, un foglio di carta su cui disegnare, un semplice bicchiere d’acqua…

Valentina Romagnoletti e Daniela Biocca (Volontarie CVM – Tanzania)

AFRICA DAY (25 maggio): Per me Africa è...


Though we African have cut colonialism off, there are still a lot remained to be done to accomplish its purpose - liberty, democracy, peace and development. Therefore, all of us should make up one’s mind and pull together for its success.

Betre Yacob (IEC Coordinator CVM Amhara Reg. Project, Ethiopia)

AFRICA DAY (25 maggio): Per me Africa è...


Siringit, significa luogo senza fine… ammirare l’orizzonte, gli spazi interminabili della savana africana, i preziosi colori dei tramonti di questa terra meravigliosa infondono un incredibile atmosfera di pace… senza fine.

Valentina Romagnoletti e Daniela Biocca (Volontarie CVM, Tanzania)

Giovani in Movimento


Esistono molti modi di educare e di fare scuola differenti dalla lezione frontale e dalla relazione docente-discente, esistono modi in cui si coinvolge l'intera comunità e si instaura un rapporto tra pari, ed è proprio questo il cammino che hanno intrapreso alcune ragazzine che ho incontrato in una scuola elementare ad Injibara.
La Bahunk primary school è una delle scuole dell'Amhara region, in cui si è sviluppato un importante sistema di peer education. Alcune ragazze della 7° e 8° classe, grazie ai training organizzati dal CVM, sono state formate sulle problematiche di genere, sui diritti delle donne e sulla prevenzione e controllo HIV/AIDS, e poi si sono organizzate per diffondere e condividere con gli altri studenti e con la comunità queste conoscenze così da combattere l'ignoranza e i soprusi.
Le ragazze hanno un'età compresa tra i 13 ed i 17 anni e provengono da zone rurali intorno ad Injibara, questi dati non sono di secondaria importanza poichè è nelle zone rurali che il tasso di matrimoni precoci raggiunge picchi molto elevati e le donne subiscono frequenti abusi.
Sono entusiaste di potermi parlare della loro esperienza come peer educators, perchè vedono in questa prassi un buon metodo per migliorare la società e, al contempo, loro stesse.
La prima domanda che pongo loro riguarda la motivazione che le ha spinte a diventare peer educators. Birhane Tazase (14 anni) mi risponde che vuole acquisire una buona conoscenza sui diritti delle donne e sulla parità con gli uomini, inoltre essere peer educator le permette di esprimere liberamente le proprie idee all'interno della scuola e della famiglia, così da condividere le proprie conoscenze con gli altri e operare attivamente per sensibilizzare la società. Anche le altre sono d'accordo, Bosena Boqale aggiunge, inoltre, che tramite i training hanno acquisito molte nozioni relative al problema dell'HIV/AIDS, liberandosi così da frequenti stereotipi generati dall'ignoranza.
Per capire meglio il loro grado di organizzazione, domando loro quali siano le attività che svolgono in qualità di peer educators. In primis supervisionano il rispetto dell'uguaglianza di genere all'interno dell'istituto scolastico, promuovendo discussioni e denunciando soprusi, contribuendo così allo sviluppo di buone attitudini tra un numero sempre maggiore di studenti.
Una ragazza mi racconta che è riuscita ad abolire la distinzione di ruoli dentro la sua famiglia e tra i suoi amici. Ha, infatti, insegnato a due suoi amici a fare tutti i lavori femminili, dalla cura dei bambini alla preparazione dei pasti .
Mi mostrano il loro PoA (plan of action) in cui pianificano le attività mensilmente, sono riuscite a condividere le loro conoscenze con moltissimi studenti, infatti hanno organizzato dei training all'interno della scuola per informare gli altri ragazzi sui rischi dell'HIV, sulle modalità di trasmissione e sulla prevenzione, anche questa attività è utilissima per la comunità, infatti sono proprio le ragazzine in età scolare ad essere più esposte al rischio di contrarre il virus dell'HIV. Nella zona di Awi come in quella di West Gojjam, il tasso di incidenza del virus tra le donne è più che doppio rispetto a quello degli uomini .
Hanno anche organizzato dei training sulla peer education, così da coinvolgere altri alunni nella loro attività e raggiungere un numero sempre maggiore di studenti e famiglie. Grazie alla presa di coscienza dell'equità di diritti tra uomini e donne, l'abbandono scolastico femminile in Awi Zone è quasi scomparso. Infine, agiscono in collaborazione con il Social Affair Office e con il Women Affair Office per prevenire i matrimoni precoci, informando le autorità qualora vengano a sapere che si sta progettando un matrimonio precoce (questo trimestre ne hanno bloccati due).
In conclusione, chiedo loro cosa credono che leghi l'educazione, la conoscenza e la libertà; mi rispondo senza titubare che non esiste libertà senza educazione, che l'uguaglianza tra uomini e donne dipende dal loro accesso alla scuola e che la conoscenza è un diritto inviolabile senza il quale non ci può essere giustizia. Queste ragazzine sono soggetti attivi di questo processo di conoscenza e condivisione, sono dei motori di cambiamento perché agiscono là dove né la scuola, né il governo, né altre istituzioni riescono ad arrivare. Con il loro impegno costante dimostrano come la vera chiave per la liberazione passa sempre attraverso l'attività degli oppressi ed il capovolgimento dei rapporti di forza. Sono le ragazzine che normalmente subiscono abusi, che sono tenute nell'ignoranza e sono considerate inferiori agli uomini che si sono attivate e che lavorano nella comunità informando e tutelando, occupando il posto degli insegnanti, e dei tutori della giustizia, sono loro a prendere coscienza dell'oppressione e dell'ingiustizia che subiscono per denunciarla e creare una situazione migliore, una situazione che le rispetti. La peer education sembra essere un meraviglioso metodo per realizzare questo lungo processo di crescita comunitaria, per dare la parola agli oppressi e lasciar loro costruire la realtà che desiderano.
Le saluto e le ringrazio poiché, con una serena intransigenza, testimoniano ai miei occhi che esiste una possibilità di liberare educando.


Benedetta Sercecchi (Volontaria CVM, Etiopia)

martedì 17 maggio 2011

C'è una ragazzina che si chiama Libertà


Questa settimana sono nella woreda di Buré Zuria, a Kucci, per seguire un training di peer educators con la mia inseparabile compagna nonché interprete Tsehay.
Kucci è un paese che negli ultimi anni ha vissuto una veloce crescita poiché è centro di un importante mercato di prodotti agricoli -con crescita intendo dire che sono aumentate le strade di terra battuta e le baracche di fango, non certo le infrastrutture.

Di mercoledì e di sabato si radunano molti mercanti provenienti dalle diverse zone della regione, ciò ha fatto accrescere l'esposizione della zona all'HIV; poiché i mercanti, muovendosi in varie località, sono un ottimo veicolo per la trasmissione del virus.
Io e Tsehay pernottiamo in un hotel, quello che qui, in Etiopia, chiamano hotel forse da noi sarebbe semplicemente chiamato bordello, è un posto in cui si serve cibo, si affittano camere e volendo si affittano anche le cameriere.

La situazione delle prostitute è una tra le più miserabili che il vasto e disastroso scenario etiope possa offrire. Sono ragazze soggiogate dalla povertà che "scelgono" di lavorare in questi hotel, lavorano dall'alba servendo colazioni, lavando lenzuola, pulendo le camere fino a notte inoltrata (in media dalle 15 alle 17 ore al giorno), e spesso non percepiscono alcuna retribuzione tranne vitto e alloggio. Non hanno alcuna forma di supporto o legame fuori dall'hotel, ciò crea una dipendenza totale da questa vita, non permettendo loro di costruirsi alcuna alternativa. Inoltre non godono di alcun genere di diritto poiché, benché la prostituzione sia estremamente comune, lo Stato la considera un reato. Sono quindi esposte ad ogni genere di abuso, il più frequente è la costrizione a non usare il preservativo. Infine, quei miseri introiti che le ragazze potrebbero procurarsi per mezzo dei loro favori sessuali sono trattenuti -in parte o totalmente- dai padroni degli hotel come rimborso per il vitto.
Mentre sto preparando un cartellone con Tsehay, nel cortile interno dell'hotel, Netsanet (libertà) si avvicina gentile e riservata e ci chiede di osservare. Così iniziamo a fare conoscenza, ha diciassette anni, viene da Shindi un paese a circa 40 km, l'anno scorso ha terminato l'ottavo grado di istruzione ed i suoi genitori volevano farla sposare. Anche se il governo ha sancito l'illegalità dei matrimoni di minorenni, questo fenomeno rimane molto frequente in particolar modo per le ragazze delle aree rurali, nella sola regione Amhara la percentuale di matrimoni di ragazzine al di sotto dei 15 anni è del 48%.

Netsanet ha cercato di opporsi, ma la famiglia non ha ceduto ed il futuro sposo l'ha intimidita con la forza. Mentre ci parla il suo bel sorriso si guasta e lo sguardo non riesce a celare tutto il dolore accumulato. Le chiediamo se la causa di tanta insistenza dei genitori a farla sposare sia la povertà, ma lei ci spiega che l'unica ragione è il prestigio sociale che la sua famiglia avrebbe guadagnato dal matrimonio. Ci racconta che anche sua sorella maggiore è stata costretta ad abbandonare la scuola per sposarsi.

Così, a sedici anni,Netsanet ha scelto di andarsene di casa; si è trasferita in questo hotel, i cui proprietari sono suoi parenti, lavora 17 ore al giorno e non riceve alcuno stipendio. Ci dice che vorrebbe tornare a casa; durante le vacanze è tornata ed ha cercato di convincere la sua famiglia a rinunciare all'idea del matrimonio, ma è stato impossibile.
Forse quando ha scelto di venire non sapeva di dover fare la prostituta, magari credeva di diventare semplicemente una cameriera e sperava anche di poter continuare a studiare; eppure ora, mentre sto scrivendo, sento la sua voce fuori dalla porta, qualcuno le chiede una camera e le specifica che non è per dormire.

Benedetta Sercecchi (Volontaria in Servizio Civile, Etiopia)

lunedì 16 maggio 2011

Un dramma chiamato AIDS


Sono ormai passati più di due mesi da quando sono arrivato in Etiopia come volontario del servizio civile internazionale, un' opportunità che ho voluto cogliere, anche perchè penso che sia una delle poche importanti possibilità di lavoro offerte dallo stato italiano.
L’approccio alla realtà etiope non è stato, a dir la verità, così scioccante, avendo già visitato e vissuto altri paesi cosiddetti in via di sviluppo. Non mi ha stupito la polvere nelle strade, né l'alta concentrazione di povera gente sulla strada, né il contrasto tra la maggior parte del Paese a livello rurale e contadino e la realtà di una grande città come Addis Abeba, che da un lato è fatta di grandi edifici delle varie organizzazioni internazionali, alberghi rinomati, ambasciate splendide, quartieri ricchi e come dicono da queste parti per dire “ecc ecc” menamen menamen, ma dall'altro offre il triste spettacolo delle tante baracche e quello dei greggi in giro per le strade, il lamento delle iene la sera e il volo dei falchi e degli avvoltoi nel cielo.

In questi due mesi ho cominciato ad apprezzare il popolo etiope che affronta silente ogni giorno una miriade di problemi dai più contingenti, come la mancanza frequente di elettricità o di acqua per chi se lo può permettere, alla mancanza di zucchero, di olio e di altri generi alimentari di base, derivata dalla decisione del governo di calmierare i prezzi per frenare la loro impennata, dovuta al mercato globale: una decisione che però non ha sortito l'effetto desiderato, ma ha solo disturbato il mercato. Il Governo, giornalmente, propina attraverso il canale televisivo di Stato l’immagine di un paese privo di grandi problemi, di un paese sulla via dello sviluppo. E proprio parlando di sviluppo, uno degli argomenti più trattati e di cui si parla in ogni telegiornale e dentro qualsivoglia trasmissione televisiva è quello della grande diga in costruzione sul Blue Nile. Per finanziarne i lavori, che in realtà non sono ancora partiti, servono qualcosa come 80 miliardi di birr il governo ha chiesto ad ogni dipendente statale di asciare un mese di stipendio, come per altro devono fare le organizzazioni non governative, mentre gli studenti universitari devolvono un giorno di mensa al mese ed altre richieste di finanziamenti a uomini d' affari, istituzioni varie...finanziamenti che dalle nostre parti verrebbero chiamati tangenti. D' altronde - come dice anche il papa ortodosso etiope - se non si collabora non si è etiopi e se non si contribuisce cosa possa succedere non si sa bene. Popolo silente e lavoratore il popolo etiope – pur essendo tanto diverso tra una regione e l'altra. Forse non a caso le prime due parole che si imparano da queste parti sono ischi va bene e cigirillo non c’è problema, anche se dai problemi questo popolo è veramente oppresso. Uno di questi è la catastrofe dell’AIDS che dagli anni 90 ha piegato il Paese, riducendo l'aspettativa di vita, frenando le nascite, uccidendo migliaia di persone. Il Ministro federale della Salute (MOH) stimava che nel 2010 ci fossero circa 1,216,908 di persone positive all'HIV in Etiopia, delle quali 456,432 residenti in aree rurali.
Si tratta di un problema talmente grave che anche l'associazione con cui collaboro il CVM (Comunita' Volontari per il Mondo) - pur mantenendo quello che per decenni è stato il cuore del proprio lavoro, cioè i progetti sull'approvvigionamento idrico - ha cambiato priorità, concentrandosi sulla prevenzione e sul controllo dell’HIV/AIDS in particolare nella regione dell'Amhara.
Lo stesso ministero riporta infatti che proprio in questa regione ci sono approssimativamente 79,096 persone HIV positive, che è il numero più grande rispetto a quello delle altre regioni. La percentuale di adulti positivi al virus è 2.9 %, anche questa la piu' alta etiope.
Ed è proprio nella regione dell'Amhara ed in particolare a Debre Marcos, che mi trovo ora. Qui dal 2001 i progetti del CVM hanno come obbiettivo quello di ridurre la vulnerabilità all' HIV/AIDS dei gruppi a rischio, facendo leva sulla capacità degli stessi gruppi a rischio di diventare gli attori chiave per la loro difesa dalla malattia e promuovendo un sistema di protezione sociale di questi gruppi, attraverso associazioni e reti.
In tal modo i gruppi a rischio dovrebbero essere in grado di attivare strumenti di self help, di promuovere i propri diritti e di migliorare la propria condizione.
I gruppi a rischio, quelli che secondo i Woreda Committees sono i più vulnerabili nei confronti della malattia, sono le donne, i giovani, gli orfani e le persone che vivono con HIV/AIDS. Le donne occupano ancora un ruolo ai margini della società soprattutto se vivono in zone rurali; è necessario dunque far in modo che si creino e si rafforzino le associazioni femminili. I giovani, che sono un gruppo ad alto rischio, costituiscono nella Regione di Amhara una percentuale rilevante di tutta la popolazione. In particolare costituiscono un grave problema gli studenti che spesso vivono fuori casa per motivi di studio e che sono sempre più numerosi grazie agli aiuti crescenti per l'istruzione. I bambini orfani rappresentano il problema più devastante nel dramma dell'AIDS. Nella regione dell'Amhara ci sono 293,169 bambini orfani e il numero dei bambini orfani che vivono in strada sta crescendo rapidamente anche nelle zone rurali.
La consapevolezza dei giovani nei confronti del tema HIV/AIDS e RH è fortunatamente in crescita e le istituzioni e le comunità locali si stanno mobilitando per assicurare ai bambini orfani un futuro in un ambiente familiare che offra loro buone condizioni di vita.
CVM sta realizzando la sua attività in questo settore insieme a tutti i partners locali per costruire AIDS Competently Communities. Il ruolo del CVM è proprio quello di facilitare la realizzazione del programma in sintonia con quello delle strutture governative già esistenti.
Uno degli strumenti più usati dal CVM qui a Debre Marcos per raggiungere gli obiettivi di cui abbiamo parlato è quello di organizzare e finanziare diversi meeting.

Anche oggi per esempio, era indetto un meeting dedicato a persone che lavorano nei vari uffici governativi e che hanno quindi una certa conoscenza del problema. Il meeting aveva l'obiettivo di riunire i vari rappresentanti degli uffici governativi (Information office, womens Affair office, Cultural and tourism, rappresentanti della polizia della giustizia..) in modo che si possano scambiare le reciproche esperienze e capire soprattutto come potenziare una consapevolezza diffusa su HIV/AIDS e RH. L’incontro, per una cinquantina di partecipanti in totale, organizzato e finanziato dal CVM, che si assume l'onere di pagare i rinfreschi, qui quasi un must, la diaria per i partecipanti di cui nessuno fa mai a meno e che ammonta a 100 birr per chi viene da fuori, a cui si aggiungono spese di trasporto e pernottamento, e a 50 birr per chi è di Debre Marcos e il materiale per scrivere, penne e blocco notes, per una spesa totale di circa 19.000 birr. Anche io ho partecipato al meeting e potevo seguirlo grazie all’aiuto dell'autista del CVM che in queste occasioni mi fa da interprete. Ad un certo punto l'autista si è dovuto assentare per andare a comprare i soft drinks necessari per la pausa del meeting ed io sono uscito con lui, dal momento che non avendo più l’ interprete, era praticamente inutile la mia presenza al meeting.
Ma qui devo fare un passo indietro per far capire meglio quello che ho provato.
Debre Marcos è una piccola grande città con tratti ancora molto contadini e con una forte storia alle spalle. E' comunque la più grande dei dintorni ed è la capitale di quella che in Italia si direbbe provincia. A Debre Marcos è comune vedere per strada mendicanti, soprattutto anziani e malati, la gente di qui anche non avendo denaro è abituata a dare una mano al prossimo e non è raro, anche se per noi è strano, vedere qualcuno dare l’elemosina chiedendo il resto che poi magari darà al mendicante accanto.
Il compound degli uffici governativi, dove si trova anche l’ufficio del Cvm, sorge su una collina che domina l’ altopiano di Debre Marcos e dintorni, anche nei tempi passati sede del potere. Salendo sulla collina prima di entrare nel compound vero e proprio ci sono la stazione di polizia più grande della provincia e una chiesa.

Davanti alla polizia da tre giorni sostava un ragazzo che non sembrava molto interessato a chiedere l’elemosina, anche se la brava gente di Debre Marcos gli aveva portato frutta e pane che rimanevano lì senza che il ragazzo ci facesse caso.
Ebbene, stamattina proprio quando siamo usciti dal meeting, abbiamo visto portare via il corpo senza vita di quel ragazzo. Nessuno sa con certezza chi fosse, ma dicono che sicuramente era venuto da qualche paese qui vicino per chiedere aiuto. Era malato di AIDS, ma quel aiuto nessuno gliel'ha dato. Il ragazzo ha aspettato, anche lui come tanti qui, silente per tre giorni davanti alla polizia, davanti al compound degli uffici governativi, senza però che nessuno gli abbia saputo dare una mano. Ora è morto, il meeting continua nel pomeriggio – dopo i drinks - nessuno ne ha parlato.

Raffaele Fischetto
(Volontario in Servizio Civile, Etiopia)

mercoledì 11 maggio 2011

L'Oceano e i Sogni


L’Oceano è a macchie questa mattina, calmo, piatto, a tratti così piatto che l’acqua sembra olio che galleggia sulla superficie, il resto leggermente increspato dalla brezza debole di questa mattina di maggio. Il cielo è grigio, carico di pioggia, nuvole gonfie e minacciose si riflettono sul mare, passa una barca con la vela bianca, un dhow, i pescatori ritornano carichi di pesci e calamari, gridano, scherzano, non capisco ma intuisco.
A riva, le donne, secchio, ciabatte di plastica Bata uguali quasi per tutte, cambia solo il colore: blu, rosse o verdi, due khanga: uno indossato come gonna e l’altro usato come cuscino da mettersi in testa il secchio. Le donne aspettano nel tratto di spiaggia fra il mare e il mercato del pesce, sta per iniziare l’asta mattutina, pescatori per terra che contano, raggruppano, legano, puliscono e preparano il pesce, frutto delle loro fatiche notturne. Il puzzo di pesce, di alghe, di interiora dei giorni precedenti mi penetra prepotentemente nel naso, che sveglia! Altro che il caffè preparato dalla mamma.
Corro, ho il fiato lungo, i piedi affondano sulla spiaggia di sale, mi abbasso, salto in mezzo alle corde che ancorano le barche alla riva, verdi, le corde, odorano di mare, il mio percorso ad ostacoli quotidiano. Ben altri ostacoli affrontano queste persone legate a doppio filo al mare. La popolazione aumenta, mangia di più. Non c’è lavoro, senza istruzione che fai? La cosa più semplice e prendere la via del mare, fatica, vita dura ma almeno ci si vive. Certo, ci si vive, per ora, pesca oggi e pesca domani, i pesci calano, bisogna pescare più a lungo, più tempo in mare, più fatica, andare più lontani su barche fatiscenti, aumenta il rischio. Qui dicono che il mare non si asciuga mai per dire che per i pescatori ci sarà sempre un bottino quotidiano, ma questo non è esattamente vero. Aumenta la rischiesta di pesce ed aumenta il prezzo ma chi ci guadagna? Spesso i padroni delle barche e delle reti. Per non parlare poi dei periodi di bassa stagione, il brutto tempo e le condizioni di vita. Volti e corpi segnati quelli dei pescatori, muscoli tirati, fibre forti a fior di pelle, vestiti intrisi di mare, cappelli scoloriti, sigaretta in bocca e sorriso in faccia, sguardo vivo me fermo, rughe profonde e vita vissuta, davvero.
Le donne, giovani e vecchie, magre e grasse, chiacchierone o silenziose, placide, sedute, chiaccheranno, ma c’è incertezza, leggera tensione, ce la faranno ad aggiudicarsi il pesce ad un prezzo decente? E se non ce la fanno, oggi che si vende, che si mangia, cosa mangeranno i bambini? Oggi Salim ha la malaria, come farò a pagare la medicina e la visita dal dottore? Credo ci siano anche questi pensieri nella mente delle centinaia di donne e uomini che popolano la spiaggia di prima mattina, quotidiani compagni involontari della mia corsa. Questa mattina mi chiedevo cosa e come sognino i tanzaniani. Non lo so, non credo di aver mai chiesto esplicitamente cosa sognino ad occhi chiusi, sicuramente sognano diversamente da noi, se noi sogniamo un abete loro forse una palma, se noi sogniamo di cadere da un grattacielo o da una montagna, loro che cosa sogneranno?
Nei nostri sogni ad occhi chiusi forse siamo più diversi che nei nostri sogni ad oggi aperti, a sogni aperti credo i nostri sogni e quelli dei tanzaniani si assomiglino molto: una casa, un lavoro, salari decenti, sicurezza per se stessi e per la famiglia, istruzione di qualità per i figli, salute e assistenza di qualità in caso di malattia, amicizie, affetti, buon rapporto con famigliari, parenti, amici e colleghi di lavoro, insomma, le cose che vogliamo tutti, qua forse il sogno è un po’ più lontano ma questo non significa necessariamente che la gente sia meno felice, che manchi il sorriso sul loro volto o la voglia di vivere, anzi.
Sorriso, voglia di vivere e sogni che non mancano ad Omari, tribù dei Wahehe, Iringa, nel sud-ovest, una delle regioni più prospere e attive del paese ma anche quella con il più alto tasso di AIDS, circa il 14% contro la media nazionale del 5,7%, più del doppio. Si è trasferito qui 4 mesi fa, non conosce quasi nulla di Bagamoyo, solamente la spiaggia dove va a passeggiare di domenica, il suo giorno libero, e la chiesa cattolica, dove va a messa.
Omari ha 17 anni e ha appena finito la scuola primaria, ha studiato solo 7 anni, ora lavora in un minuscolo bar, una stanza, uno scaffale con ogni tipo di soda e bevande alcoliche, 2 tavolini e 4 sedie di plastica. Arriva alle 10 di mattina con i pantaloni arrotolati a tre quarti e le sue ciabatte di plastica Bata, blu, apre la serranda e ci rimane fino alle 9-10 di sera.
I clienti non sono molti, Omari passa la maggior parte del tempo ad ascoltare musica, parlare con amici e passanti oppure con i clienti, come me.
Le auto passano, un autobus carico di gente suona il clacson, il vento accarezza la pelle, togliendo parte della fatica accumulata durante la giornata. Omari mi racconta un po’ della sua vita, voleva andare alle scuole superiori ma la scuola dista mezzora di autobus dal villaggio, il biglietto costa 50 centesimi di euro al giorno, andata e ritorno, che sommato al costo del pranzo (un altro mezzo euro) e al costo della divisa, delle scarpe, dei libri, quaderni e penne ha reso impossibile per la sua famiglia permettergli di studiare. Me lo dice mentre guarda, in lontananza lungo la strada, un gruppo di studentesse che ritornano da scuola nella luce del tramonto arancione di Bagamoyo. Sorride, un sorriso, vero, aperto, luminoso, gioioso, bellissimo, ma intuisco un fondo di tristezza per l’occasione sfumata. Si è trasferito sulla costa, qui a Bagamoyo. Un ragazzo del suo villaggio l’ha preceduto e gli ha detto che a c’erano possibilità di trovare qualcosa da fare. Ora lavora al bar di proprietà di un dentista locale e di una funzionaria di una grossa ong, uno dei tanti business che possiedono. Il dentista e la funzionaria hanno due figlie, una ha quasi l’età di Omari, parla un ottimo inglese e sogna di andare all’università, magari all’estero, per ora va alla scuola privata, dove la retta mensile è il doppio dello stipendio di Omari, mondi diversi ma così vicini.
Anche Omari sogna, chissà che cosa...

Stefano Battain (CR CVM in Tanzania)

martedì 10 maggio 2011

Io, tra due mondi


Sono in Africa, in Etiopia, il posto che ho sempre desiderato vivere, una realtà con la quale ho sempre voluto confrontarmi e in cui potermi rendere utile. Mi trovo qui, in un’altra Terra e quello che riesco a percepire sono solo due colori.

Stare qui è come vivere in un altro tempo. Intorno a me case di fango e paglia, vecchiette sedute sull’uscio a lavorare all’uncinetto, bambini che giocano con le ruote delle biciclette.
Ho portato con me il mio Naso Rosso ma lo tengo nascosto, non riesco a tirarlo fuori. Avrei voluto portare anche dei palloncini, un po’ di colore ma qualcosa mi blocca. Forse la vista di bambini che giocano con i preservativi, altri che seguono le mandrie, altri ancora che badano a bambini ancora più piccoli di loro. Imparano in fretta cos’è la vita. Li vedi così piccoli che già camminano, rincorrono il bestiame, e giocano. Sì, giocano a diventare grandi.

Si avvicina la Pasqua e sono già giorni di festa. Niente più fasting e presto si torneranno a vedere sulle tavole pietanze a base di carne. Le strade sono piene di mendicanti: donne, uomini, bambini a vendere pochi chili di frutta e a chiedere l’elemosina. Seduti a terra, sporchi, scalzi e coperti da abiti stracciati e sudici.
Un bambino piange. Il vecchio seduto accanto a lui lo minaccia con un bastone chiedendogli, forse, di smetterla. Per strada donne, uomini, bambini vestiti di bianco, coperti da gabi bianchi si dirigono verso la messa.
Ogni giorno, ogni volta che si trovano di fronte ad una chiesa si fanno il segno della croce in segno di devozione. E a me viene spontaneo fare lo stesso. C’è tanta povertà in giro e io inizio a domandarmi quanta voglia ci sia di un cambiamento. Quanto veramente i locali vogliano migliorare le loro condizioni di vita. Tutti per strada mi salutano, vogliono sapere se va tutto bene. Io sorrido e rispondo si, tutto bene grazie. I bambini mi guardano incuriositi e sono contenti se faccio loro anche solo un cenno con la mano. Si, tutto bene. Eppure quando mi guardo intorno, quando mi fermo a pensare, a fare mente locale e a mettere a fuoco le immagini scattate dai miei occhi e impresse nella mia mente mi dico che forse no, non va poi così bene!
Mi trovo in Etiopia, uno dei Paesi più poveri al mondo, forse il più povero. Un Paese ricco di storia, magia, mistero, bellezze naturali e architettoniche, acqua e verde. Eppure molto povero. Nella capitale, ma non solo, si cerca di fare del turismo una fonte di guadagno. Ti vedono bianco e come per magia i prezzi lievitano!

Mi fa male camminare per strada, essere inseguita da bambini che cercano di venderti qualsiasi cosa: dai fazzoletti di carta, alle sigarette, ai chewingum alla banana; e non ti mollano. Ti seguono, diventano insistenti e tu che hai solo voglia di scoppiare perché non ci puoi fare niente. O almeno ci stai provando.
Mi viene il magone ad andare in giro, a vedere bambini piccoli che vivono per terra, storpi che si trascinano nello schifo. E io? Che ci faccio qui?! Sono solo una straniera, un’aliena agli occhi dei locali. Una fonte di ricchezza! Vorrei poter scendere in strada, gridare che io sono qui per loro! Che potrebbero migliorare la loro condizione di vita. Vorrei poter dare loro la possibilità di vivere in una casa che possa essere definita tale, vorrei che quei bambini la smettessero di dormire su cartoni, in mezzo alla strada. Vorrei, vorrei, vorrei ...

Ma io sono solo una ragazzina che sogna un mondo migliore, una volontaria che soffre nel vedere questa realtà, che ha bisogno di una pausa e che deve tornare a casa perché qualcosa le è letteralmente scoppiato dentro. Forse un giorno potrò tornare e portare a termine questa mia missione, forse un giorno riuscirò ad essere forte come questi piccoli soldatini che ogni giorno lottano contro una realtà più grande di loro. Intanto faccio tesoro di tutto quello che ho visto e vissuto, porto a casa la mia testimonianza, provo a convincermi di non aver fallito.

Carola Conz (Volontaria CVM in Etiopia)

Umoja


Zawadi, Neema e Frola chiacchierano rumorose all’ombra di un albero vicino alla scuola primaria di Lugoba. Parlano fitto fitto, ridono nei loro abiti colorati, in mano un fazzoletto di stoffa e cellulare. All’appello mancano ancora Rose, Hawa e Siwazuri. Ma ecco un cellulare che squilla e la notizia che le altre stanno per arrivare. Le incontriamo mentre ci incamminiamo verso la zona del mercato del villaggio, ci salutano sorridenti e si scusano per il ritardo. Ora ci sono tutte e possiamo proseguire fino al negozio di vestiti di Rose che ci ospita per il primo incontro dopo l’assegnazione del prestito per microcredito.

Zawadi, Neema, Frola, Rose, Hawa e Siwazuri sono le 6 ragazze che formano il 1 sottogruppo dell’associazione di fondi rotativi del villaggio di Lugoba. Sono ragazze dai 23 ai 30 anni che hanno chiamato il proprio gruppo di lavoro wasichana na maendeleo lunga – ragazze e la strada verso lo sviluppo. Nel mese di gennaio hanno preso parte al corso di formazione in cui hanno imparato come gestire al meglio la propria attività e i propri risparmi, appreso le regole del programma di fondi rotativi. Giorni in cui hanno avuto la possibilità di affrontare temi delicati come HIV/AIDS e diritti delle donne. Dopo la formazione hanno ricevuto la somma di denaro richiesta da investire nelle rispettive attività, migliorando così la propria vita e quella dei propri familiari.
Le ragazze sono amiche e tra loro c’è una bella intesa e voglia di fare. Con i soldi che hanno ricevuto hanno acquistato vestiti, scarpe, borse ed accessori da rivendere nei loro piccoli negozi sparsi ai vari angoli del villaggio. Si incontrano 2 volte al mese. Una volta per verificare l’andamento delle attività di ciascuna, però come spiega Neema, “…si inizia a parlare di affari, ma poi ci troviamo a confrontarci un po’ su tutto, sulle cose della quotidianità… e se qualcuna tra noi ha un problema, proviamo a trovare insieme una soluzione…”. Tra degli obiettivi che le ragazze si sono imposte per quest’anno c’è l’organizzazione di incontri e piccoli eventi con le altre donne del villaggio, momenti di riflessione e confronto su tutto ciò che vuol dire essere donna in questo paese, sulle sfide e i pericoli che questo porta con se. Hanno la voglia di condividere quanto imparato sulla prevenzione e cura dell’ HIV/AIDS e le possibilità di far valere i diritti di genere. Hanno pianificato di avere un incontro al mese, magari la domenica, dopo le funzioni religiose. L’altro appuntamento si tiene generalmente l’ultimo giorno del mese e costituisce il momento in cui Zawadi, la segretaria del gruppo, raccoglie le quote mensili di ciascuna per la restituzione del prestito.
Le ragazze sono entusiaste e vedono crescere la rispettive attività, accrescono i guadagni così come accresce la fiducia in loro stesse e nelle loro capacità. Zawadi studia nuovamente con Peace, responsabile del programma dei fondi rotativi, tutta la procedura per la raccolta delle quote e il versamento dei soldi in banca. Le altre seguono attente per non commettere errori. L’incontro finisce. Le ragazze si congedano una ad una e si danno appuntamento per il prossimo incontro. Rimane solo Rose che inizia a sistemare l’ultima merce acquistata nel negozio e mentre dispone in fila le scarpe inizia a parlare, a raccontarci un po’ di sé e della sua storia.

Rose ha 23 anni ed è la più giovane del gruppo. A 14 anni conclude la scuola primaria, ma i genitori non hanno abbastanza soldi per iscriverla alla scuola secondaria. Tuttavia vogliono poter dare la possibilità alla figlia di continuare gli studi. Una buona alternativa sembra essere rappresentata dalla scuola per infermiere di Lugoba, la cui retta annuale era di 8.000 Tsh. I soldi non sembrano bastare, ma parenti e amici del villaggio hanno aiutato Rose e la sua famiglia a sostenere le spese, raccogliendo periodicamente contributi che ciascuno, secondo le proprie possibilità, poteva dare. Così Rose frequenta e conclude il percorso di studi per poi scoprire che il certificato rilasciato dalla scuola non aveva alcuna validità, in quanto l’istituto non era stato registrato legalmente e non era quindi riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione. La delusione è stata forte, impegno e denaro non avevano dato i risultati sperati.

Allora Rose comincia a lavorare come bracciante nelle campagne che circondano Lugoba, senza però ricevere alcun tipo di compenso. Una nuova opportunità sembrava prospettarsi nel momento in cui un dottore del dispensario locale aveva chiamato Rose per lavorare al suo fianco. Opportunità che presto si è rivelata vana poiché, anche questa volta, non era previsto un guadagno. Ma i genitori, grazie anche all’aiuto della comunità, erano riusciti nel frattempo a risparmiare 20.000 Tsh consegnandoli alla figlia come piccolo capitale di avviamento per un’altrettanto piccola attività economica. Così, nel 2005, Rose comincia a vendere abiti, kanga e kitenge porta a porta riuscendo a portare qualche soldo a casa alla fine del mese. Rose decide di investire i primi risparmi acquistando 1 pollo e 4 papere con l’intensione di accudirli per poi rivenderli. Nel 2006 Rose si sposa. A questo proposito dice: “un giorno un uomo è venuto a parlare con i miei genitori chiedendomi in sposa. Loro hanno acconsentito e poco dopo abbiamo celebrato le nozze”. Un anno dopo il primo figlio. Tuttavia Rose riesce a portare avanti il proprio lavoro che però iniziava a mostrare i primi segni negativi. Vendere porta a porta significa anche dare la possibilità di acquistare facendo credito. Molte persone hanno cominciato a non pagare e di conseguenza i soldi a fine mese cominciavano a scarseggiare, proprio quando c’era una famiglia di cui prendersi cura. Rose aveva capito che era necessaria una svolta altrimenti non sarebbe stata più in grado di pagare i rivenditori e quindi di continuare a lavorare. Aprire un negozio proprio le sembrava la soluzione più adatta, ma come affrontare le spese? E’ stato allora che la CJF – Community Justice Facilitator, e il leader di Ward hanno parlato a Rose di CVM e del programma di fondi rotativi. Ed è stato allora che Rose ha potuto mettere in atto la svolta che desiderava. Con il prestito è riuscita a prendere in affitto un piccolo locale nella zona del mercato del villaggio e a riempirlo con abiti e quant’altro. Prima si recava dai rivenditori di Dar es Salaam 1 volta al mese, ora viaggia 2/3 volte al mese perché ha tante richieste e il suo negozio è conosciuto in tutto il villaggio e nelle zone vicine…le donne lo sanno che possono trovare da lei qualsiasi cosa e se hanno richieste particolari, possono farle, tanto poi ci pensa Rose ad accontentarle. I guadagni mensili sono passati da 35/40.000 Tsh a circa 100.000 Tsh con i quali riesce a pagare l’affitto e tutte le spese di casa. Dice fiera: “mio marito sa che posso provvedere anche da sola a me stessa e al bambino. E mi rispetta.” Non so bene come vadano realmente le cose tra loro, ma mentre lo diceva era orgogliosa. Orgogliosa perché dopo tanta fatica è riuscita finalmente a realizzarsi come donna e come persona, perché il lavoro le dà soddisfazione, perché le piace quello che fa e perché allo stesso tempo è riuscita a conquistare la propria indipendenza economica. Mentre usciamo dal negozio, Peace mi chiede di leggere il nome che Rose ha dato alla sua attività. Non c’è un’insegna, ma una scritta sul muro con lo spray nero Umoja, che vuol dire solidarietà. Allora ho pensato al nome, ho pensato alla solidarietà dei membri della comunità che hanno raccolto soldi per permettere a Rose di studiare, agli sforzi dei genitori che hanno risparmiato per racimolare una somma sufficiente per iniziare un lavoro, ho pensato al legame tra le ragazze del gruppo, al loro spirito comunitario e di aiuto reciproco. Ho pensato alla storia che si nasconde dietro quel nome. Ho pensato che sì, Umoja, è proprio un bel nome.

Daniela Biocca (Volontaria CVM, Tanzania)

mercoledì 4 maggio 2011

Solitudini Distanti


Di luogo in luogo i concetti cambiano dimensione. Le parole, le lingue racchiudono in sé con geografica esattezza le terre in cui sono parlate. Prima di partire mi avevano detto che avrei dovuto abituarmi alla solitudine, che avrei sofferto dell'esser sola. Ed io mi ero immaginata la solitudine con i parametri occidentali, quella che si vive in appartamento, quell'indifferenza latente verso gli altri che si respira nelle nostre città. La solitudine di un immigrato che sbarca sulle coste italiane e ad accoglierlo trova una lingua sconosciuta, una cultura estranea ed abitanti chiusi nella loro quotidianità, senza interesse per l'esterno e timorosi del diverso. Ho vissuto un anno in un appartamento a Roma e , benché fossi immersa nella mia cultura natale e potessi parlare la mia lingua, ho sperimentato la difficoltà di stringere legami, pensare di dover affrontare ciò in condizioni molto più estranee mi ha intimorito. Mi ero calata nei panni di una giovane migrante che arriva nella nostra bella Italia e ne ero spaventata, ho temuto di dover fronteggiare costantemente l'incomprensione altrui e tentare inutilmente di varcare la soglia della diffidenza, per sentirmi tra pari.
Con questi pensieri sono arrivata nella cittadina di Injibara, in Etiopia, dove quasi nessuno parla inglese; mi hanno affittato una casetta e subito lo staff locale CVM mi ha accolto con calore. I bambini per strada mi corrono incontro, ma non per elemosinare, bensì per stringermi la mano e salutarmi. I vicini mi invitano per il caffè, il custode della mia casa mi vorrebbe scortare ovunque per non lasciarmi sola e, benché non sappia parlare amarico, tutti si sforzano di starmi vicino, di farmi sentire bene e mi ripetono continuamente "aizosh" (coraggio).
Tutto qui è estremamente comunitario e l'unica forma di solitudine che provo è quella di non poter condividere con qualcuno, che abbia il mio stesso sguardo stupito, la meraviglia per questa vita. Nonostante l'estrema indigenza in cui versano, il comandamento dell'avere non ha ancora imprigionato le loro coscienze. Mentre la nostra società così ricca e benestante risponde imperativamente al dictat dell'accumulo e la gratuità e la condivisione sono stati d'essere a noi sconosciuti, sono termini che non trovano attuazione; qui, Il concetto di privato è quasi inesistente: gli utensili, il cibo e gli spazi sono sempre pronti per accogliere l'altro, il nuovo venuto. Le porte non hanno serrature, non esistono letti ad uso singolo ed i tavoli sono piccoli ma affollatissimi. Il modo di mangiare è l'emblema di questo dipanarsi collettivo della vita: si mangia tutti dallo stesso piatto e, a volte, ci si offre reciprocamente i bocconi più succulenti.
Ognuno è parte integrante di una comunità, in questa condizione di pluralità l'estenuante fatica che logora costantemente queste persone assume connotati festosi; la disperazione, nonostante la povertà, è cancellata dalla gioia di avere accanto i volti e le vite degli altri. Qui hanno, persino, sviluppato un sistema di mutua assistenza chiamato "eqkub": alcune famiglie si riuniscono e mettono mensilmente una quota in comune -si fidano reciprocamente e non necessitano di contratti né di garanzie- poi, ad estrazione, ognuno dei membri riceve il totale dell'ammontare versato in quel mese, così da poter assicurare a ciascuno un mese in cui dispone di un'elevata quantità di denaro per poter sostenere spese cospicue o avviare una piccola attività.
Così, eccomi immersa in questo clima di condivisione e la solitudine che tanto temevo, la nostra solitudine fatta di appartamenti, di brusio industriale e di schermi ultrapiatti si rivela così meravigliosamente distante.
La sera precedente la Pasqua sono stata invitata da una famiglia. Eravamo una dozzina di persone dentro una stanzetta fatta di fango, nella stanza accanto c'erano le pecore, nell'altra i letti, il tutto senza divisori e senza porte. Eravamo tutti insieme a bere caffè e a mangiare pane -qui, i due giorni precedenti la Pasqua si mangia solo pane- tra quelle pareti di fango e quella puzza di pecore mi è sembrato di percepire della sacralità. Mi sono sentita come i pastori che vedono un bagliore enorme nel cielo: si interrogano, si fanno forza a vicenda e si dicono "passerà anche questa!", si infondono speranza e attendono di scoprire quel che verrà. Quei corpi, quei visi e quelle mani che preparavano il caffè e distribuivano il pane per tutti emanavano speranza ed io ero lì a farne parte.

Benedetta Sercecchi (Volontaria CVM in Etiopia)

lunedì 2 maggio 2011

L'Etiopia... Sotto i Mille Metri


Fare qualcosa senza programmare, senza avere aspettative è meglio, si vive senza paraocchi, senza focalizzare un unico obiettivo, senza pensare esclusivamente alla meta. Viaggiare aperti a tutto quello che nuove esperienze ti posso portare può essere positivo. Perdersi per strada per esempio ti fa arrivare più tardi alla destinazione ma nel frattempo può farti scoprire vie nuove che prima non avevi visto. In queste vie potresti trovare palazzi o baracche, oppure ancora piazze o parchi, ma non lo puoi sapere finché non ti perdi, fin che non arrivi lì. Perdendosi si può capitare in strade parallele che portano comunque alla meta oppure si può incappare in altre che portano in direzioni totalmente opposte e in questo caso si sarà costretti a tornare sui propri passi e ripercorrere al contrario il tragitto. Ma quando avrai ritrovato la via per casa sarai sicuramente arricchito di nuove conoscenze, di nuovi orizzonti e nel cuore ti porterai sempre le immagini e i ricordi di quelle strade.
Forse è così che devo prendere questa esperienza, devo viaggiare senza paraocchi, vivere alla giornata senza riflettere troppo su quello che mi succede, senza avere la presunzione di rielaborare subito, di capire immediatamente, sempre, il perché di ogni cosa. Ogni giorno di quest’anno è come un pezzo di puzzle, preso singolarmente può non aver un significato, ma una volta che avrò messo insieme tutti i pezzi avrò davvero una immagine chiara …Pensavo questo mentre giravo per il Parco Nazionale di Awash, un parco naturale aperto nel 1966 a 225 km da Addis Abeba sulla importantissima strada che porta a Gibuti.
Il parco si trova ai confini con la regione Afar e si estende per 756 km quadrati, ricchi di acacie, lungo il fiume Awash, uno dei fiumi principali dell’Etiopia che la attraversa a partire dalle vicinanze di Addis Abeba per 1200 km. Nella stagione secca il fiume arriva a una profondità di meno di un metro ma quando iniziano le piogge spesso straripa tanto da inondare tutte le terre circostanti. Un tempo all’interno del parco era possibile fare rafting per una trentina di kilometri che grazie alle correnti e all’abbondanza del fiume regalava fantastici paesaggi e viste mozzafiato. Ora non è più possibile poiché il fiume è stato deviato all’altezza di Methara per irrigare alcuni terreni coltivati. Il parco è attraversato dalla strada che collega Addis Abeba con Gibuti e da questa viene diviso in due parti a nord e sud : la Valle Kudu e la Piana di IIiala Sala. All’interno della parte Sud è possibile campeggiare ai bordi delle poco generose cascate del fiume Awash e incontrare dik-dik, kudu e scimmie. Tempo fa era anche possibile vedere un leone ferito in una area a lui riservata e controllata dai guardiacaccia ma ora è stato trasferito in un altro parco, anche se il parco continua a rimanere comunque abitato da leoni in libertà.Nella parte nord invece il paesaggio è molto diverso, bisogna percorrere 30 km di strada molto sterrata e sconnessa, prima tra rovi e arbusti e poi tra palme, per arrivare, una volta attraversata una palude a piedi, in una piana con numerose sorgenti di acqua calda e laghetti riparati dall’ombra delle palme. Tra le piante o accovacciati nelle pozze d’acqua, intenti a lavare i panni, fanno capolino le teste dei dancali, la tribù che abita la regione Afar. I Dancali sono snelli e filiformi, corpi adatti a sopravvivere alle alte temperature che caratterizzano la regione Afar, le donne portano la parte superiore della testa rasata e la lunghezza dei capelli agghindata in treccine, hanno cicatrici incise sul viso come segno di bellezza. Gli uomini invece, impegnati nella pastorizia, sono avvolti in gonne e scialli bianchi e portano bastoni o, alle volte, kalashnikov. Inoltrandosi in queste terre è sempre meglio farsi accompagnare da un guardiacaccia armato in quanto i Dancali non sempre apprezzano le visite dei turisti e non sono una tribù amichevole quindi si potrebbero, come è successo di recente, udire spari.
È facile intravvedere uomini che portano al pascolo enormi greggi di bestiame specialmente cammelli e vacche dalle lunghe e bellissime corna, nonostante sia vietato agli animali domestici l’ingresso nel parco naturale in quanto modificano l’ambiente selvatico, ma la popolazione Dancala che abita ai confini del parco spesso durante il giorno sconfina con il proprio bestiame per approfittare dei pascoli migliori all’interno di esso.Il parco è infatti abitato da un gran numero di specie selvatiche quali babbuini, dik-dik, kudu, facoceri, orix, waterbuck, marmotte, formiche leone e in special modo offre una gran varietà di volatili: appollaiati sugli alberi o a passeggio tra gli arbusti, molto spesso in grandi gruppi si possono vedere specie come la faraona, ottarda reale, ibis, avvoltoi, marabu e cavalieri di Italia .
Questa regione dell’Etiopia è anche famosa come Triangolo di Afar poiché probabilmente proprio qui c’è un punto geologico in cui tre placche tettoniche si dividono e tendono ad allontanarsi tra loro. La diramazione verso sud è spesso indicata come Great Rift Valley, e divide gli altopiani etiopici in due parti. La Rift Valley è una vasta formazione geografica e geologica che si estende per circa 6000 km da nord a sud, abbracciando la terra dalla Siria al Mozambico, varia in larghezza dai 30 ai 100 km e in profondità da qualche centinaio a parecchie migliaia di metri. Si è creata dalla separazione delle placche tettoniche africana e araba, che iniziò 35 milioni di anni fa, e dalla separazione dell'Africa dell'est dal resto dell'Africa, processo iniziato da 15 milioni di anni. La terra in questa zona è infatti nera, ricca di basalto proprio dovuto alla numerosità di vulcani più o meno attivi.
E proprio nella Rift Valley, tra questi vulcani più o meno attivi, che si estende il bellissimo parco che mi ha ospitato per il week end di Pasqua…
Viaggiando qualche volta allora fa bene dimenticare mappe e bussole a casa affidandosi solo all’istinto alla curiosità. Non bisogna porla però come costante nella propria vita…

Marta Bonalumi (Volontaria CVM in Etiopia)