mercoledì 4 maggio 2011

Solitudini Distanti


Di luogo in luogo i concetti cambiano dimensione. Le parole, le lingue racchiudono in sé con geografica esattezza le terre in cui sono parlate. Prima di partire mi avevano detto che avrei dovuto abituarmi alla solitudine, che avrei sofferto dell'esser sola. Ed io mi ero immaginata la solitudine con i parametri occidentali, quella che si vive in appartamento, quell'indifferenza latente verso gli altri che si respira nelle nostre città. La solitudine di un immigrato che sbarca sulle coste italiane e ad accoglierlo trova una lingua sconosciuta, una cultura estranea ed abitanti chiusi nella loro quotidianità, senza interesse per l'esterno e timorosi del diverso. Ho vissuto un anno in un appartamento a Roma e , benché fossi immersa nella mia cultura natale e potessi parlare la mia lingua, ho sperimentato la difficoltà di stringere legami, pensare di dover affrontare ciò in condizioni molto più estranee mi ha intimorito. Mi ero calata nei panni di una giovane migrante che arriva nella nostra bella Italia e ne ero spaventata, ho temuto di dover fronteggiare costantemente l'incomprensione altrui e tentare inutilmente di varcare la soglia della diffidenza, per sentirmi tra pari.
Con questi pensieri sono arrivata nella cittadina di Injibara, in Etiopia, dove quasi nessuno parla inglese; mi hanno affittato una casetta e subito lo staff locale CVM mi ha accolto con calore. I bambini per strada mi corrono incontro, ma non per elemosinare, bensì per stringermi la mano e salutarmi. I vicini mi invitano per il caffè, il custode della mia casa mi vorrebbe scortare ovunque per non lasciarmi sola e, benché non sappia parlare amarico, tutti si sforzano di starmi vicino, di farmi sentire bene e mi ripetono continuamente "aizosh" (coraggio).
Tutto qui è estremamente comunitario e l'unica forma di solitudine che provo è quella di non poter condividere con qualcuno, che abbia il mio stesso sguardo stupito, la meraviglia per questa vita. Nonostante l'estrema indigenza in cui versano, il comandamento dell'avere non ha ancora imprigionato le loro coscienze. Mentre la nostra società così ricca e benestante risponde imperativamente al dictat dell'accumulo e la gratuità e la condivisione sono stati d'essere a noi sconosciuti, sono termini che non trovano attuazione; qui, Il concetto di privato è quasi inesistente: gli utensili, il cibo e gli spazi sono sempre pronti per accogliere l'altro, il nuovo venuto. Le porte non hanno serrature, non esistono letti ad uso singolo ed i tavoli sono piccoli ma affollatissimi. Il modo di mangiare è l'emblema di questo dipanarsi collettivo della vita: si mangia tutti dallo stesso piatto e, a volte, ci si offre reciprocamente i bocconi più succulenti.
Ognuno è parte integrante di una comunità, in questa condizione di pluralità l'estenuante fatica che logora costantemente queste persone assume connotati festosi; la disperazione, nonostante la povertà, è cancellata dalla gioia di avere accanto i volti e le vite degli altri. Qui hanno, persino, sviluppato un sistema di mutua assistenza chiamato "eqkub": alcune famiglie si riuniscono e mettono mensilmente una quota in comune -si fidano reciprocamente e non necessitano di contratti né di garanzie- poi, ad estrazione, ognuno dei membri riceve il totale dell'ammontare versato in quel mese, così da poter assicurare a ciascuno un mese in cui dispone di un'elevata quantità di denaro per poter sostenere spese cospicue o avviare una piccola attività.
Così, eccomi immersa in questo clima di condivisione e la solitudine che tanto temevo, la nostra solitudine fatta di appartamenti, di brusio industriale e di schermi ultrapiatti si rivela così meravigliosamente distante.
La sera precedente la Pasqua sono stata invitata da una famiglia. Eravamo una dozzina di persone dentro una stanzetta fatta di fango, nella stanza accanto c'erano le pecore, nell'altra i letti, il tutto senza divisori e senza porte. Eravamo tutti insieme a bere caffè e a mangiare pane -qui, i due giorni precedenti la Pasqua si mangia solo pane- tra quelle pareti di fango e quella puzza di pecore mi è sembrato di percepire della sacralità. Mi sono sentita come i pastori che vedono un bagliore enorme nel cielo: si interrogano, si fanno forza a vicenda e si dicono "passerà anche questa!", si infondono speranza e attendono di scoprire quel che verrà. Quei corpi, quei visi e quelle mani che preparavano il caffè e distribuivano il pane per tutti emanavano speranza ed io ero lì a farne parte.

Benedetta Sercecchi (Volontaria CVM in Etiopia)

3 commenti:

areknames ha detto...

Tutte le esperienze racchiudono la possibilita di modificare la cognizione di quanto ci circonda, se intrapense e meditate con il giusto spirito critico.
Ci si accorge infatti, da quanto ci racconti, che per te la solitudine apparteneva, prima di aver vissuto queste eperienza, agli stati d'animo negativi. Ben si comprende come ora tu abbia rivalutato questa parola dandole un significato nuovo, vivendo la solitudien in un contesto socioculturale differente da quello della tua prima esperienza di solitudine.

La tua frase conclusiva "Quei corpi, quei visi e quelle mani che preparavano il caffè e distribuivano il pane per tutti emanavano speranza ed io ero lì a farne parte." fa riflettere e domandarsi se veramente queste persone siano pronte a vivere
"la nostra solitudine fatta di appartamenti, di brusio industriale e di schermi ultrapiatti si rivela così meravigliosamente distante." perchè ci si deve anche rendere conto che aiutare queste persone far progredire queste culture porterà alla fine del "comunismo" per dar spazio al liberalismo.

Anonimo ha detto...

Io viene da Adis Ababa e sono Italia per studio. mio amico spiegato quello che tu scrive e io no contento
Molto difficile per mia famiglia per mandare me in europa per studiare per trovare lavoro.
Io vuole lavorare e in notro paese no trovi lavoro no trovi nulla nemmeno aqua per bere.
Tu viene in mio paese e diche che e bello che tu non sei sola ma tu no capische tutta gente di mio paese vuole partire no vole morire de fame vole venire in europa per lavoro per avere aqua di rubinetto per bere. Tu no capisce tua fortuna di vivere in italia tu vuoi aiutare vero allora fai venire famiglia di Etiopia vivere italia e tua famiglia vivere Etiopia poi vedi che cambi idea.
Voi dice che aiuta ma voi no ha soldi voi viene mangia nostro cibo dorme nostra casa ma noi poco cibo picola casa e tu che da noi.
noi fa lotta tutti gironi per vivere no ospedale no strade no niente noi no ha bisogno di aqua ma di paese novo paese co industria pe lavorare pe avere soldi.
io ti dice grazie buona pesona ma tu pensa questo e tu capice che io ha ragione

Anonimo ha detto...

Io viene da Adis Ababa e sono Italia per studio. mio amico spiegato quello che tu scrive e io no contento
Molto difficile per mia famiglia per mandare me in europa per studiare per trovare lavoro.
Io vuole lavorare e in notro paese no trovi lavoro no trovi nulla nemmeno aqua per bere.
Tu viene in mio paese e diche che e bello che tu non sei sola ma tu no capische tutta gente di mio paese vuole partire no vole morire de fame vole venire in europa per lavoro per avere aqua di rubinetto per bere. Tu no capisce tua fortuna di vivere in italia tu vuoi aiutare vero allora fai venire famiglia di Etiopia vivere italia e tua famiglia vivere Etiopia poi vedi che cambi idea.
Voi dice che aiuta ma voi no ha soldi voi viene mangia nostro cibo dorme nostra casa ma noi poco cibo picola casa e tu che da noi.
noi fa lotta tutti gironi per vivere no ospedale no strade no niente noi no ha bisogno di aqua ma di paese novo paese co industria pe lavorare pe avere soldi.
io ti dice grazie buona pesona ma tu pensa questo e tu capice che io ha ragione